venerdì 12 luglio 2024

 Gli articoli sulla 74^ edizione 

di Italia Film Fedic di Montecatini


Momenti di storia del cinema


Il bisogno di essere neorealisti di Roberto Lasagna e Il fermento della Nouvelle Vague di Anton Giulio Mancino


Uno dei momenti di maggiore riflessione, durante la 74^ edizione di Italia Film Fedic di Montecatini, sono state le due lezioni dei docenti e saggisti Roberto Lasagna e Anton Giulio Mancino rispettivamente sul Neorealismo e sulla Nouvelle Vague. Un ritorno all’antico, quando nei festival cinematografici, oltre alla vetrina luccicante delle novità, si cercava di creare momenti di approfondimento e discussione sul fare cinema e sul suo linguaggio. Ma, come qualcuno ha detto, per essere moderni bisogna essere veramente antichi e non contemporanei. Quindi ben vengano questi momenti, che a quanto affermato dal direttore artistico Paolo Micalizzi, si ripeteranno anche nelle future edizioni del festival.





Roberto Lasagna si è soffermato soprattutto sulla modernizzazione del cinema operata dal Neorealismo italiano, senza però dimenticare le sue radici culturali e anche politiche, in relazione all’evoluzione della società italiana nel dopoguerra, alla guerra di liberazione della Resistenza e alla ricostruzione dello Stato italiano. Doveroso quindi il riferimento al cinema di Blasetti e Rossellini, i primi registi a captare i nuovi fermenti culturali che si preparavano ad emergere già durante il fascismo, le nuove forme di racconto, lo sguardo umanista sulla società italiana, e anche il nuovo ruolo del cinema concepito non più solo come momento di svago, ma anche come strumento utile ad affrontare i problemi sociali e civili dell’Italia dell’epoca. Senza dimenticare il forte senso critico verso il potere all’interno di uno scontro di classe sempre più evidente. Un cinema di denuncia, quindi, che all’inizio non ebbe il successo di pubblico che avrebbe meritato. Film come “Ossessione” di Luchino Visconti, “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica o “Roma città aperta” di Roberto Rossellini non ebbero infatti nell’immediato l’impatto culturale che gli sarebbe stato riconosciuto in seguito. Ma del resto erano gli anni in cui si doveva ricostruire il Paese e i panni sporchi si dovevano lavare in famiglia secondo i politici della nuova Democrazia Cristiana, quindi la rappresentazione della miseria sarebbe stata progressivamente marginalizzata. E’ evidente che gli esterni desolati e gli interni pieni di inquietudine di “Ossessione”, film ricordato e analizzato recentemente in un libro curato da Paolo Micalizzi,Ossessione e il Neorealismo” per Falsopiano, o i film di denuncia di un regista poco capito come Pietro Germi, non sarebbero stati apprezzati dalla nuova classe dirigente alla guida del Paese. 






Il merito del Neorealismo è stato quello di affrontare il senso della complessità del reale, le sue zone in ombra, le sue marginalità dimenticate in un’Italia vogliosa di dimenticare e di aderire con entusiasmo alla nascente ideologia del benessere, di raccontare un’altra Italia. Lasagna poi ha sottolineato i meriti di un regista come Pietro Germi che, con film come “In nome della legge”, in cui si affronta per la prima volta il problema della mafia, o “Il cammino della speranza”, che racconta l’epopea tragica degli emigranti italiani, annichiliti dallo sfruttamento antico e bestiale delle zolfatare siciliane e quello di nuovo conio che toccava a chi emigrava all’estero nella speranza di migliorare la propria condizione (“migranti economici” anche allora come oggi), o “Il ferroviere”, sulla povertà anche di chi un lavoro ce l’aveva, mescolando la denuncia sociale con le forme del cinema di genere americano si poneva, incompreso, all’avanguardia del movimento cinematografico neorealista. Germi fu infatti criticato anche dalla stampa di sinistra che lo considerava un regista reazionario perchè troppo indipendente dai canoni estetici del PCI. In realtà il suo era uno guado non riconciliato su soggetti che in qualche modo resistevano ad un destino già scritto per la loro classe sociale di appartenenza. 






Sempre sul tema del rinnovamento del linguaggio cinematografico operato a livello estetico ed etico da un movimento come quello della Nouvelle Vague francese ha incentrato la sua riflessione Anton Giulio Mancino, a partire da alcuni film emblematici come “Hiroshima non amour” di Alain Resnais, “Crepa padrone tutto va bene” di Jean-Luc Godard, “La signora della porta accanto” di Francois Truffaut e “Nouvelle Vague” ancora di Godard, che in qualche modo continua ad operare come un regista di rottura e a mantenere viva la tradizione (?!) della Nouvelle Vague, la trasgressione dei canoni estetici e narrativi di quel movimento anche nel momento in cui sembra essere giunto ad una qualche conclusione. Ma la Nouvelle Vague è veramente finita? Secondo Mancino la Nouvelle Vague non è mai veramente finita perchè non ha raggiunto i suoi obiettivi che consistevano in una sorta di assalto al cielo e successivo smantellamento del cinema come industria culturale del consenso per rimetterlo nelle mani e nelle menti di chi da quel sistema veniva sfruttato e manipolato, cioè un proletariato che presto però avrebbe assunto gli stessi difetti della borghesia e avrebbe abbracciato con entusiasmo il peggiore capitalismo, come aveva intuito con troppo anticipo sui tempi un grande regista e intellettuale come Pasolini. Un’opera incompiuta quindi e oggi decisamente marginale nella discussione culturale e nella pratica artistica contemporanea, ma non per questo meno utile per capire quello che stiamo vedendo sugli schemi e vivendo nella nostra realtà così complessa. 





La protagonista di “Hiroshima mon amour” ci ammonisce sul fatto che non abbiamo visto niente, o, meglio, abbiamo visto tutto e non abbiamo capito niente di cosa è successo a Hiroshima, non abbiamo capito che una storia d’amore convenzionale non è più possibile dopo la bomba atomica perchè quell’evento, che purtroppo oggi abbiamo quasi dimenticato, ha cambiato per sempre la nostra percezione della realtà. E per questo in qualche modo la Nouvelle Vague francese, che sulla possibilità di un nuovo sguardo capace di destrutturare creativamente i linguaggi del potere e creare una nuova sensibilità e un ruolo più attivo e partecipe dello spettatore nella realizzazione artistica del film, si avvicina al Neorealismo italiano. Lo ha sottolineato il relatore ricordando che lo stesso Rossellini ipotizzava la necessità dei fare film con meno soldi per non fare i “film fregnaccia” commerciali. In fondo sia il Neorealismo italiano che la Nouvelle Vague francese avevano lo stesso intento, riportare il cinema alla realtà effettiva delle cose e degli esseri umani e separare i “professionisti” del cinema da chi il cinema lo fa per innovare, per cambiare la realtà come atto estetico e politico allo stesso tempo, caratteristica che entrambi i movimenti hanno avuto pur nelle differenze di linguaggio e di realizzazione artistica. In questo senso, come afferma Mancino, la Nouvelle Vague è moderna, non contemporanea perchè il giovane regista emergente può essere molto vecchio nel suo operare sul linguaggio cinematografico e l’anziano regista molto giovane e innovativo, come quasi tutti i cineasti della Nouvelle Vague, a cominciare dallo stesso Godard e da altri cineasti come il grande Eric Rohmer, hanno spesso dimostrato. 

Marcello Cella





FEDIC REFF 2024


La necessità di sopravvivere


Come si può sopravvivere in un mondo dominato dall’indifferenza, dal cinismo, dall’oppressione del potere, dalla spietata logica economica o dal peso di un passato troppo difficile da dimenticare? Questa sembra essere la domanda che attraversa trasversalmente tutte e quattro le opere presentate all’interno della sezione FEDIC REFF durante la 74^ edizione di Italia Film Fedic di Montecatini. E in effetti la visione del mondo a cui i quattro cortometraggi sembrano fare riferimento ci appare molto simile, al di là della diversità di stili narrativi e di linguaggi utilizzati. Tutti i protagonisti di questi film sono alla ricerca affannosa di una via d’uscita dignitosa da situazioni estremamente complicate per la loro identità e che li pongono anche di fronte a scelte morali laceranti. Via d’uscita che tutti e quattro gli autori di questi film evitano di delineare con precisione, come se la risposta a quei destini in bilico dovesse essere delegata allo spettatore e alla sua sensibilità. 






Il caso forse più emblematico è costituito dalla giovane protagonista del film “
La valise rouge” del regista lussemburghese, ma di origine iraniana, Cyrus Neshvad. Ariane è una sedicenne iraniana appena atterrata all’aeroporto del Lussemburgo e che deve ritirare il suo bagaglio, una valigia rossa, che contiene tutta la sua vita, i suoi disegni, le sue pitture, la sua fantasia e creatività, come scopriamo quando due agenti, insospettiti dal suo comportamento furtivo, le chiedono di aprire la valigia. La ragazza in effetti non sembra molto felice di essere in quel luogo e appare indecisa sul da farsi. Fuori l’spetta un uomo maturo che lei non conosce, ma a cui suo padre l’ha promessa sposa. Il suo comportamento ambiguo è infatti determinato dalla sua volontà di non aderire a quel matrimonio combinato. Ariane non ha una strategia, non ha un obiettivo prefissato se non quello di sfuggire a quel destino non voluto in un drammatico gioco di fughe e nascondimenti. Si aggira furtivamente all’interno di quella terra di nessuno che l’aeroporto, dove tutte le identità sono liquide e inafferrabili, in un difficile tentativo di celare la propria identità e non farsi riconoscere dall’uomo che l’aspetta. Prima si toglie il velo, poi sale su un pullman qualsiasi in partenza davanti all’aeroporto e nel frattempo sarà costretta anche ad abbandonare la preziosa valigia, ritrovata dall’uomo in attesa. Il suo futuro non è chiaro, la ragazza è senza soldi e senza una destinazione precisa, ma per il momento è sana e salva. Anche se in un mondo sconosciuto e dove l’oppressione della donna avviene con metodi più sottili e subdoli, come il regista sottolinea con la sua macchina da presa che, nel peregrinare furto della protagonista, ritrae in modo quasi ossessivo i grandi cartelloni pubblicitari che popolano l’aeroporto piene di immagini di donne iper-sessualizzate.  







Un’altra strategia di sopravvivenza e di fuga, in questo caso dal proprio passato,
  è quella messa in atto dal protagonista di “Séparation” del francese Aurélien Achache. Siamo a Kiev, in Ucraina, all’inizio degli anni Sessanta, in entusiastica attesa della conquista dello spazio da parte dell’uomo, con l’aggiunta di una  storica rivalità politica fra Unione Sovietica e Stati Uniti per essere i primi ad attribuirsi la vittoria in questa competizione. Il protagonista è un cosmonauta russo in missione nello spazio. Ma questa corsa nel futuro per lui costituisce una fuga da un passato drammatico. Durante l’infanzia infatti lui e suo fratello maggiore erano patiti degli aerei e giocavano continuamente, facendo danni in casa, con un aeroplanino di latta che un giorno, la madre, esasperata, getta in strada. Il fratello corre in strada per recuperarlo e viene investito mortalmente da un’automobile di passaggio. “Séparation” è il racconto di questa drammatica vicenda familiare devastata dai sensi di colpa. Ma sono gli anni Sessanta e il giovane astronauta che volteggia nello spazio profondo allude ad una riflessione che è allo stesso tempo morale, ma non immune da un certo approccio di linguaggio contaminato da una vaga psichedelia che alleggerisce il tema e lo pone su un piano più filosofico ed esistenziale.







Diverso dilemma morale è quello dei protagonisti del cortometraggio belga “Les silencieux” di Basile Vuillemin, cinque marinai che attraversano quotidianamente il  mare per guadagnarsi da vivere con la pesca. Ma la loro vita è estremamente difficile, la pesca non è sempre fruttuosa, anzi lo è sempre meno. Così, dopo l’ennesimo fallimento in mare, nelle acque in cui è consentita la pesca, ai cinque pescatori si profilano solo due strade: o tornare in porto con una pesca che non garantirà le loro vite (e i loro debiti) oppure uscire dalla legalità per andare a pescare in un tratto di mare dove è vietato farlo per preservare la fauna marina. Alla fine i cinque decidono di rischiare e in effetti la pesca diventa subito più fruttuosa. Fino al momento in cui le loro reti recuperano uno strano pesce. In effetti non è un pesce, ma un ragazzo morto, probabilmente un migrante africano annegato nel tentativo di arrivare in Europa. Uno dei tanti naufraghi senza nome e senza storia che ben conosciamo anche in Italia. Il problema per i cinque si complica ulteriormente. Portare a riva il ragazzo morto e ammettere di aver fatto qualcosa di illegale con tutte le conseguenze del caso oppure ributtare quel corpo senza vita in mare e fare finta che quell’incontro con la morte non sia mai avvenuto? Anche in questo caso il regista non chiarisce l’esito della drammatica discussione che avviene fra i cinque pescatori e quando l’imbarcazione torna in porto noi spettatori ignoriamo cosa sia successo realmente, come se la risposta fosse lasciata, anche in questo caso, agli spettatori.






I protagonisti del francese “Boom” di Gabriel Augeral e Romain Augier, unica opera d’animazione, sono invece due uccelli che fanno parte di una numerosa comunità di pennuti che vivono su un’isola vulcanica. Nel momento in cui il vulcano si risveglia e tutta la comunità pennuta è costretta a fuggire e gettarsi in mare per non venire arrostita dalla lava, ai due uccelli protagonisti si presenta un problema di difficile soluzione e cioè quattro uova ancora da schiudersi. Come fare a salvare il salvabile con solo due ali e un becco come strumenti di difesa? E soprattutto quali di queste uova salvare e quali abbandonare al proprio destino?
La discussione è accesa e va per le lunghe, mentre il pericolo vulcanico si fa sempre più vicino. Uno dei due vorrebbe trovare un modo per portare in salvo tutte  e quattro le uova, mentre l’altro, cinicamente, vorrebbe sceglierne una o due al massimo per non appesantirsi la fuga oppure abbandonarle tutte. Il conflitto è sempre più vivace e surreale, ma alla fine prevale il comportamento solidale del primo, con il secondo, cinico ed egoista, che soccombe suo malgrado. “Boom” è una piccola e bellissima favola morale che in qualche modo fornisce una prima parziale risposta al quesito iniziale: come possiamo salvarci dalle difficoltà della vita? Sicuramente non da soli.




Marcello Cella




FEDIC FOR GAZA


Storie di muri visibili e invisibili 

sotto i cieli della Palestina


La drammatica situazione che sta vivendo la Palestina la conosciamo tutti. Le cronache quotidiane non ci risparmiano i particolari più feroci di una guerra che ha radici lontane e non accenna a finire. Per capire più profondamente le ragioni del conflitto, ma anche solo il vissuto di due popoli che abitano da sempre la stessa terra senza mai dichiararsi fratelli, abbiamo però la necessità di sguardi laterali, obliqui, che escano dalla logica dello scontro amico/nemico. E allora forse potremo riuscire a vedere palestinesi e israeliani come esseri umani che come tutti noi sono alle prese con i problemi della propria esistenza, della propria banale quotidianità, hanno sogni, bisogni, desideri e la speranza di un mondo migliore. Proprio come tutti noi. Quindi è stato veramente molto importante che la 74^ edizione di Italia Film Fedic a Montecatini abbia dedicato quest’anno una sezione del proprio festival adun approfondimento del vissuto di questi due popoli attraverso quattro cortometraggi realizzati fra il 2019 e il 2020 estremamente significativi per capire alcune dinamiche della società israeliana e palestinese, senza avere necessariamente un taglio direttamente politico, ma accomunati da un profondo sguardo umanistico sui personaggi e le vicende raccontate. Personaggi che, pur diversissimi nella loro collocazione sociale e generazionale, sono impegnati ad affrontare e superare i muri visibili e invisibili che si profilano lungo le loro esistenze in un percorso di conoscenza e di consapevolezza che spesso rimette in discussione valori e scelte di vita ritenute solide, ma che presentano sempre più vistosamente qualche crepa nella loro apparente ragionevolezza.   






Maradona’s legs” di Firas Khoury è ambientato durante i mondiali del 1990 e i due fratellini palestinesi Rafat e Fadel, tifosissimi del Brasile, di cui indossano le magliette verde-oro, stanno cercando di completare il loro album di figurine con quella che non riescono a trovare perchè molto rara, quella con le gambe di Maradona. Il premio per il primo che completerà l’album è una consolle Atari, una lontana parente delle attuali piattaforme di videogiochi. Il regista segue i due bambini nel loro peregrinare all’interno del loro villaggio e in quelli vicini fino a Betlemme alla ricerca dell’agognata figurina con un taglio documentaristico, ma anche con un tocco poetico e un pizzico di ironia per raccontare la storia di una passione infantile che segnerà probabilmente la vita futura dei due bambini. Alla fine i due ragazzini rinunciano al premio, quando capiscono che in cambio dovrebbero lasciare al negoziante l’amato album di figurine e con esso tutte le gioie e le difficoltà che hanno dovuto affrontare per completarlo. In fondo, capiscono, che il risultato finale del premio, come anche del mondiale, perso dal Brasile, non è poi così importante. L’importante è il cammino, la strada già fatta e quella ancora da fare (Eduardo Galeano docet). Mentre cominciano ad intravedersi i primi segni di una tragedia (le notizie alla radio che fanno capolino qua e là durante le peregrinazioni di Rafat e Fadel) che purtroppo è solo l’inizio di una tragica escalation di odio e di conflitti. 






Odio e conflitti che sono ben presenti in “
The present” della regista Farah Nabulsi, drammatico e viscerale racconto di un padre e di sua figlia alla ricerca di un regalo per la moglie e madre in occasione del loro anniversario di matrimonio. Quella che per tutti noi sarebbe una normale decisione di acquisto si trasforma per Yusef e sua figlia Yasmine in una odissea infernale perchè tra la loro casa e il villaggio dove i due devono andare comprare il regalo (un frigorifero nuovo) e fare la spesa devono superare un check point sorvegliato giorno e notte dai soldati israeliani che non risparmiano umiliazioni e vessazioni di ogni sorta alla popolazione palestinese,  costretta ogni giorno alle lunghissime procedure per il controllo dei documenti  (con la possibilità spesso di essere ricacciati indietro a causa di ogni minima infrazione), mentre i cittadini israeliani possono attraversare il posto di blocco senza problemi (nei check point dei soldati israeliani in genere ci sono sempre due passaggi, uno  destinato alla popolazione ebraica e uno riservato alla popolazione palestinese, molto più restrittivo). Alla fine di una giornata in cui il bellissimo racconto del rapporto di amore e complicità che si instaura fra Yusef e Yasmine viene messo a dura prova dalle regole assurde a cui devono sottostare i palestinesi, i due riescono a portare a casa il regalo per l’anniversario di matrimonio (grazie ad una coraggiosa iniziativa della bambina), ma il senso di violenza, sconforto e umiliazione che i due si portano addosso è quella di un intero popolo. E non preannuncia nulla di buono. 







Le contraddizioni di cui racconta invece “
White Eye” di Tomer Shushan fanno interamente parte della società israeliana, così simile spesso a quella occidentale. Un ragazzo cammina in una zona periferica di una grande città di sera e ritrova casualmente la bicicletta che gli è stata rubata qualche giorno prima. Solo che è chiusa con un altro lucchetto. Da questo casuale ritrovamento si dipana una  vicenda di immigrazione clandestina che coinvolge non solo il ragazzo, ma anche una pattuglia della polizia che transita nella zona e gli operai immigrati e irregolari che lavorano in nero in una vicina azienda alimentare. Uno dei dipendenti africani dell’azienda viene accusato del furto, viene arrestato dalla polizia e rischia il rimpatrio con tutta la sua famiglia. Il ragazzo, resosi conto della drammatica situazione che ha involontariamente causato, si offre di pagare la cauzione, ma è troppo tardi. A fare le spese della sua rabbia e della sua frustrazione sarà la stessa bicicletta, fatta a pezzi e abbandonata sulla strada dal suo stesso proprietario. Ma a pezzi va anche la dignità di questi lavoratori clandestini, così simili alle migliaia di immigrati condannati alla schiavitù anche da noi in nome del profitto, e quella di un Paese che si dichiara democratico, ma contiene in sé molte zone oscure. 






Long distance” della regista Or Sinai è invece una storia tutta al femminile e tutta individuale. Una storia di solitudine che vede come protagonista un’anziana signora israeliana, vedova, che  vive sola ed ha la figlia che sta per partorire al di là dell’Oceano. La donna sta progressivamente perdendo la vista e non riesce a telefonare alla figlia perchè non distingue  più con esattezza i numeri sulla tastiera del telefono. Perciò si affida a vari passanti che stazionano nei pressi della sua abitazione per farsi aiutare. L’impresa non è facile. Fra diffidenze, cinismi e piccoli, significativi atti di solidarietà, la donna, con gentilezza, ma con forte determinazione, riesce alla fine a parlare con la figlia che ha appena partorito una bambina, grazie all’aiuto di un uomo che non cede al sospetto di una richiesta apparentemente così bizzarra. Un memorabile ritratto di solitudine e coraggio femminile che ricorda molto i personaggi fragili e tormentati di una grande scrittrice israeliana, Zeruya Shalev. Alla fine le distanze vengono superate, ma la lotta per superare i muri visibili e invisibili della sua esistenza è ancora lunga. Per quanto la danza solitaria nel finale del film, tutto giocato sui mezzi toni della recitazione della protagonista, la magnifica attrice Leora Rivlin, faccia ben sperare per il futuro.


Marcello Cella





Le recensioni dei film in concorso


  1. Ho sentito Frank Zappa
  2. Ennesima prova filmica per il pisano Marco Rosati che continua ad esplorare gli universi paralleli della vita e della cinefilia e i loro incroci spericolati. Questa volta è il caso di un ragazzo che trova un libro in una casa abbandonata e questo, stranamente, racconta la sua vita, come se qualcuno avesse già previsto tutto. Il finale però non piace al ragazzo che, con l’aiuto di un suo amico e di un cd di Frank Zappa, decide di dare un corso diverso agli eventi descritti nel libro. La musica del bizzarro chitarrista americano rivela così tutto il suo potere salvifico. Fra le immancabili citazioni cinefile (questa volta Carmelo Bene) Rosati ancora una volta ci conduce con ironia e sensibilità visiva nel suo stralunato mondo poetico.

    Voto: 7 e 1/2


    2) Il tedesco

    Due donne lavorano a degli abiti talari ed attendono la perpetua della chiesa. Ma chi bussa alla porta è un soldato tedesco ferito. Siamo nel 1944, la guerra è ancora in corso ed ha in serbo i suoi momenti più atroci che travolgeranno anche le due donne, nonostante la loro umanità le porti a curare il ferito. Molti anni dopo la famiglia del soldato tedesco salvato dalle due donne torna al loro paese per ringraziarle del loro gesto…breve sensibile apologo sull’umanità ferita dalla guerra, da tutte le guerre. Una riflessione ora più che mai attuale.

    Voto: 8


    3) Salicornia

    Sono giornate di fine estate per il giovane Stefano, ventenne timido e solitario, che vive in una zona fra la laguna e il mare. Fa il bagnino ed è alla ricerca di sé stesso. Gli amici del bar ed un fugace amore estivo non riescono a fargli trovare una via d’uscita alla sua inquietudine, accompagnata e sottolineata da un uso estremamente suggestivo dei paesaggi naturali, fra malinconiche immagini marine e lacustri e inquietanti visioni di fabbriche e fumi industriali in lontananza. Frasi smozzicate e dialoghi perduti, solo un piccolo roditore si muove indifferente nell’erba. Forse è un’idea di libertà.

    Voto: 8


    4) Biroke-Guardians of Midgard
    In un Medioevo fantastico, dove l’unica legge sembra essere quella della violenza, un misterioso sciamano sembra determinare la sorte di alcuni guerrieri e prendersi gioco di loro in un crescendo parossistico di sanguinosi combattimenti. La messa in scena è indubbiamente suggestiva, fra suggestioni fantasy di saghe irlandesi e kitsch hard rock, ma la sceneggiatura appare davvero carente per un lavoro dalla durata eccessiva.

    Voto: 5


    5) Rise and Shine
    Ospedale dei Marines. Due soldati, reduci da una delle tante guerre a cui gli USA hanno partecipato negli ultimi decenni conversano amabilmente fra loro prima della partenza verso i loro luoghi d’origine ed iniziare il periodo di convalescenza, mentre un’amorevole infermiera si occupa della loro igiene. Ma il punto di arrivo del loro viaggio non è quello che prevedevano…apologo sugli orrori della guerra con tanto di citazione finale tratta dall’Iliade. Amaro cortometraggio di denuncia, sconta una certa freddezza narrativa.

    Voto: 6


    6) Donna sola 

    Ana è una bambina rom che vive in una squallida periferia di una città di mare. La sua vita è fatta di furti e fughe con la madre. Ma la sua vera passione è il calcio. Come molti suoi coetanei ama giocare a pallone. Però proprio questa sua passione sarà fatale alla madre durante un tentativo di furto in un appartamento. Ennesima storia di un’infanzia rubata e devastata dal cinismo e dalla violenza degli adulti. Forse solo la sua passione per il calcio riuscirà a indicare una via di salvezza per Ana. Film di denuncia sociale ben supportato da una regia sensibile e delicata.

    Voto: 8


    7) Subito Sera
    A volte la vita ci mette improvvisamente davanti ad immagini del nostro passato che pensavamo dimenticate e che ci danno il senso del nostro cammino su questa terra. E della sua brevità. E’ quello che accade al protagonista di questo malinconico cortometraggio nel momento in cui, attraverso la visione di vecchi filmati trovati in un ripostiglio, scopre aspetti sconosciuti della vita di un suo parente, forse suo padre. Immagini di gioie effimere, gioviali scene di allegria con amici e parenti in Super8 che, grazie anche alla poesia di Quasimodo, danno il senso del passare del tempo e della insostituibile funzione del cinema come arma contro la morte. Delicata nostalgia della vita. 

    Voto: 8


    8) La prima isola
    Il mare ha sempre avuto nel nostro immaginario il senso della libertà, dell’immensa  e misteriosa possibilità di espansione dei nostri limiti spazio-temporali e mentali. Per i migranti dall’Africa e dal Medio Oriente rappresenta quasi sempre la scommessa su una nuova possibilità di vita. Il regista ferrarese Roberto Fontanelli traccia un’immaginaria via di fuga attraverso la suggestione delle sue immagini marine, la rotta dei migranti, il rischio dei naufragi, facendo anche un’omaggio alla scultura di Mimmo Paladino intitolata “Porta di Lampedusa - Porta d’Europa”. Suggestiva e amara al tempo stesso.

    Voto: 7 e 1/2


    9) Il linguaggio surrealista di Carlos Saramago
    Il film è un documentario sul pittore surrealista portoghese Carlos Saramago, morto lo scorso anno qualche settimana dopo la realizzazione dell’opera in questione. Il documentario appassionato sull’opera di questo importante artista europeo, si è trasformato suo malgrado in un’opera commemorativa, un po’ troppo didascalica, in cui molto si vede dei suoi quadri sghembi, dei suoi corpi frammentati, dei suoi occhi stralunati, ma scarsa è la riflessione sul senso del suo linguaggio, sul suo rapporto con la sua  tormentata e malata (in senso vero, purtroppo) biografia e con la realtà. 

    Voto 6 e 1/2


    10) Riflessioni su pellicola

    C’è chi afferma che chiudere il mondo esterno nell’inquadratura della fotografia, fermare il tempo presente in una forma di eternità espressiva sia un atto quasi divino. Se così è il fotografo Alberto Terrile, a cui è dedicato questo bellissimo documentario (o biopic, come si dice ora), con la sua opera ha raggiunto vette difficilmente superabili, soprattutto se pensiamo al suo straordinario ciclo di fotografie dedicato agli angeli, cioè al tentativo di rendere visibile ciò che è per sua natura invisibile all’occhio umano. Strutturato in capitoli tematici e supportato dall’appassionato racconto dello stesso Terrile, “Riflessioni su pellicola” è una riflessione profondissima sul significato della fotografia, sulla necessità di ricordare le giornate bellissime della nostra vita che però al momento non ci sembravano tali, impegnati come eravamo volgere il nostro sguardo a terra e non al cielo come gli angeli. Produzione di qualità da parte del bravo regista Mauro John Capece.

    Voto: 9


    11) Cavolo

    Chi scrive ammette di non amare il cavolo a pranzo. Però il mondo un po’ totalitario, un po’ surreale messo in scena dal regista Andrea Zaffanella me lo ha fatto rivalutare. In questo mondo vige infatti una sorta di dittatura gastronomica che impone a tutti di mangiare cibi preconfezionati, mentre quelli biologici sono vietati, messi al bando. Ma quando una ragazzina scopre per caso in un campo un cavolo e il mondo sommerso che vive sotto la terra, questa bizzarra (ma non troppo) forma di tirannia gastronomica viene messa in crisi. Ironico fanta-racconto che potrebbe essere anche utilizzato in qualche buon corso di educazione alimentare per le giovani generazioni. 

    Voto: 8


Marcello Cella








giovedì 13 giugno 2024

 Il documentario di John Maloof e Charlie Siskel “Alla ricerca di Vivian Maier” racconta la scoperta di una grande fotografa di strada e ricostruisce la sua vita misteriosa.



Vivian Maier, collezionista dell’inutile


“Io, Vivian sono quella che nessuno nota, quella che nessuno vede. Io li vedo invece (…), custodisco le storie che le persone non sanno di vivere” (Francesca Diotallevi, “Dai tuoi occhi solamente”, Neri Pozza, 2018)


Susan Sontag affermava che “collezionare fotografie è collezionare il mondo”. Se così è, nessuna definizione aderisce meglio alla figura umana ed artistica di Vivian Maier, “la tata con la Rolleiflex”, come è stata sbrigativamente definita ricordando la professione con cui si guadagnava da vivere, la bambinaia per famiglie facoltose. Anche se, più di altre figure artistiche, il suo lavoro si intrecciava in modo inestricabile con la sua vocazione più profonda, quella di fotografa. Infatti, proprio la sua professione, a contatto quotidiano con i bambini e con la loro necessità di essere portati a giocare e a passeggiare all’aperto, le consentiva di coltivare la sua passione spasmodica e anche un po’ compulsiva per la fotografia. In effetti uno sguardo bambino, innocente e curioso di tutto, sembra proprio quello di Vivian e delle sue fotografie, così necessarie e casuali al tempo stesso, come se, come i bambini, fosse attratta da tutto senza alcuna necessità di porre il proprio sguardo (lavoro) al servizio di un qualche obiettivo di carattere materiale o all’interno di una qualche gerarchia estetica. Forse si spiega anche così la sua misteriosa assenza dalle scene dell’arte e della cultura ufficiale, i suoi 150.000 scatti e le sue centinaia di filmini in super8, rimasti sconosciuti fino al 2007, quando un giovane agente immobiliare, John Maloof, compra ad un’asta qualche decina di scatoloni pieni di fotografie, ma soprattutto di rullini e super8 mai sviluppati, e scopre di avere a che fare con una delle più importanti street photographer del secolo scorso.




Il documentario realizzato dallo stesso Maloof insieme a Charlie Siskel, già produttore di “Bowling for Columbine” di Michael Moore, ricostruisce tutta la vicenda con un serrato ritmo da documentario investigativo, ma allo stesso tempo, attraverso le testimonianze di chi l’aveva conosciuta grazie al suo lavoro di bambinaia, getta una luce in chiaroscuro anche sulla sua tormentata vicenda umana. Abbandonata da piccola dal padre e vissuta solo con la madre in gravi difficoltà economiche ed un fratello maggiore dedito all’alcool e alla droga, in andirivieni continuo da riformatori prima e carceri dopo la maggiore età e morto prematuro, Vivian conosce ben presto la durezza della vita iniziando a lavorare in una fabbrica di bambole e dedicandosi poi, prima per necessità e forse in seguito per scelta, ad una vita precaria e senza fissa dimora, passando periodicamente da una famiglia all’altra per occuparsi dei loro bambini. Da quando inizia questa professione Vivian inizia a scattare compulsivamente fotografie che nessuno vedrà mai se non dopo la sua morte, avvenuta nel 2009 in assoluta povertà, solitudine e anonimato, grazie a questa capacità di “vedere qualcosa di nuovo ogni giorno”, proprio come fanno i bambini, senza alcuna volontà di mostrare quanto fotografato a qualcuno, ma solo per sé e per il proprio piacere (o per una propria necessità interiore). Sta di fatto che le fotografie di Vivian Maier costituiscono uno straordinario documento sulla vita quotidiana di un’umanità frastagliata e bizzarra, spesso dedita ad attività e occupazioni insensate, dove la razionalità individuale e sociale mostra contraddizioni e crepe sempre più evidenti. Consapevole della propria condizione sociale le sue fotografie hanno un occhio partecipe, una sensibilità particolare per i soggetti più marginali, senza per questo essere dichiaratamente di denuncia, per i bambini, per le persone che animano le città senza avere una funzione sociale precisa (come vagabondi, alcolizzati, malavitosi, ma anche travet addormentati sui sedili delle automobili o sulle panchine dei parchi), per le acconciature e gli atteggiamenti bizzarri delle persone dell’alta società, per le vorticose trasformazioni architettoniche del contesto urbano, per gli oggetti abbandonati, per i dettagli apparentemente più insignificanti. Ma con una caratteristica comune a tutta questa sterminata produzione fotografica, prevalentemente in bianco e nero: ognuna di esse racconta una storia, reale o possibile, ognuna di esse allude ad un fuori campo che solo lo spettatore può immaginare. 




E poi ci sono gli autoritratti, anche questi in numero considerevole, spesso ripresi da superfici riflettenti (specchi e vetrine soprattutto) che rimandano l’immagine di Maier ed il suo sguardo, così severo ed enigmatico, come una sorta di punto di domanda, come una richiesta di compartecipazione e di interpretazione, forse perfino di responsabilità, a chi li guarda. Spesso gli autoritratti sono l’espressione di una forma di narcisismo da parte dell’autore. Nulla di tutto questo traspare dagli autoritratti  di Vivian Maier che, spesso in compagnia dei suoi bambini, sembrano voler chiedere ai suoi spettatori: “E’ questo il mondo che abbiamo costruito? E’ bello questo mondo? E perchè non facciamo nulla per cambiarlo?”. Posti accanto alle fotografie di argomento più sociale questi autoritratti assumono il significato di una politicità implicita che quasi nessuno ha rilevato, ma che traspare una volta che si sia cominciato a “leggere” la sua opera nella sua sterminata interezza. Tenendo presente le vicende tormentose della sua vita solitaria (odiava gli uomini, e forse gli adulti in generale, dal momento che con ogni probabilità era stata abusata in gioventù), l’opera fotografica di Vivian Maier assume il significato di un ritratto impietoso della follia umana, di una denuncia implicita delle disuguaglianze sociali e di una totale immedesimazione nello sguardo innocente, ma duro e spietato dei suoi bambini nei confronti di una società che li trasformerà ben presto in adulti cinici e indifferenti. 








Un altro aspetto che il bel documentario di Maloof e Siskel mette bene in evidenza è la mania, apparentemente insensata, di Vivian Maier di accumulare oggetti insignificanti raccolti nel suo girovagare attraverso la città e pubblicazioni a stampa (giornali, riviste, libri) che spesso ricoprivano le pareti dei suoi alloggi fino al soffitto. Al riguardo si è parlato di un suo disturbo mentale da accumulo, una patologia ampiamente trattata dalle pubblicazioni scientifiche. Probabilmente questo disturbo era reale. Ma mettendo insieme questo aspetto con quello di scattare, spesso senza sviluppare, centinaia di migliaia di fotografie non può che suscitarci qualche interpretazione che vada al di là dell’aspetto medico. Perchè Vivian Maier voleva conservare tutti questi oggetti e questi giornali allo stesso modo in cui accumulava migliaia di rullini fotografici? Sicuramente in Vivian albergava anche una mentalità da archivista e, in quanto tale, la consapevolezza dell’importanza che ha la memoria nell’interpretazione delle varie epoche storiche. Probabilmente la risposta sta anche in una sua riflessione più esistenziale e filosofica sulla concezione che abbiamo oggi del tempo e della sua consistenza effimera. Forse la sua necessità maniacale di conservare oggetti, giornali e fotografie rispondeva all’esigenza di cristallizzare in qualche modo il tempo, il proprio tempo e quello delle persone, dei bambini soprattutto, con cui aveva convissuto, per non consegnarlo all’oblio e quindi per mantenerne vivo il ricordo. In uno dei tanti filmini Super8 girati da lei si sente la sua voce che chiede ad un bambino: “E ora dimmi, come si fa a vivere per sempre?”. Forse tutte queste fotografie, così piene di senso della tragedia e di senso dell’umorismo, tutte queste piccole cose, nascoste, quasi segrete accumulate in solitudine, questa mania di collezionare cose apparentemente inutili rispondevano a questa esigenza. La necessità di mantenere vivo il ricordo di tutte quelle persone che avevano attraversato la sua vita e che col tempo sarebbero state dimenticate nel flusso sempre più vorticoso di immagini, suoni, colori, impegni, relazioni che caratterizza la nostra epoca. Vivian Maier voleva collezionare cose inutili, quelle cose inutili di cui è fatta, inconsapevolmente, tutta la nostra vita.


Marcello Cella





Alla ricerca di Vivian Maier

Regia: John Maloof, Charlie Siskel
Sceneggiatura: John Maloof, Charlie Siskel
Soggetto: John Maloof, Charlie Siskel
Montaggio: Aaron Wickenden
Fotografia: John Maloof
Musiche: J. Ralph

Casa di produzione: Ravine Pictures
Distribuzione (Italia): Giangiacomo Feltrinelli Editore
Origine: USA
Anno di edizione: 2013
Durata: 84 min


Web 

https://www.youtube.com/watch?v=7RR5QVLyR4k

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