“No other land”. La terra dei perdenti
“L'uomo appartiene alla terra. La terra non appartiene all'uomo” (Toro Seduto)
”Lontano da casa un uomo è stimato per come appare, in casa è stimato per ciò che è.” (proverbio cinese)
“Entro i confini del mondo non vi può essere esilio di sorta: nulla, infatti, che si trovi in questo mondo è estraneo all'uomo.” (Seneca)
“Non c'è dolore più grande della perdita della terra natia.” (Euripide)
“La saggezza è saper stare con la differenza senza voler eliminare la differenza” (Gregory Bateson)
Che cosa è “casa? Che cosa vuol dire “abitare un territorio”? Che cosa è un confine e cosa siamo disposti a fare per difenderlo? Che cosa significa vivere in esilio? E chi è il nostro nemico? Domande antiche, perfino ancestrali, concetti su cui il documentario del gruppo di registi e attivisti israeliani e palestinesi autori di “No other land” ci costringe a riflettere a partire dalla drammatica situazione del popolo palestinese che essi raccontano con le loro immagini e le loro parole. A cui se ne aggiunge un’altra: quale significato hanno le immagini rispetto alla realtà che raccontano? Possono solo testimoniarla senza avere alcuna possibilità di mutarla oppure hanno anche la capacità di colpire le coscienze degli esseri umani e quindi di realizzare un suo cambiamento in senso positivo? Il documentario non fornisce facili risposte a questi quesiti, ma ha senz’altro la capacità di coinvolgere e costringere lo spettatore a porsi queste domande sia come individuo che come abitante di questa palla vagante nello spazio che chiamiamo Terra.
Basel Adra è un attivista palestinese che vive con la sua famiglia a Masafer Yatta, un gruppo di venti villaggi al confine sud della Cisgiordania che vivono essenzialmente di un’economia di tipo agricolo. Si tratta di un territorio al confine con Israele, appetito e aggredito da decenni dai coloni che vogliono espandere i loro insediamenti illegali, sostenuti dall’indifferenza, nel migliore dei casi, se non dall’esplicita complicità delle istituzioni e dell’esercito israeliani. Basel, fin da ragazzino ha cercato sempre di filmare e fotografare le difficili condizioni di vita della sua famiglia e della sua popolazione e le continue aggressioni e demolizioni delle abitazioni palestinesi da parte dell’esercito israeliano, a cui, come è noto, basta dichiarare un determinato territorio come “territorio militare” per sfrattare i suoi legittimi abitanti e abbattere le loro case, le loro scuole e tutte le infrastrutture necessarie a fornire servizi anche di prima necessità come l’acqua o l’energia elettrica nel giro di poche ore. Yuval Abraham è invece un giornalista israeliano che vuole raccontare ai suoi lettori e spettatori la verità, la cruda realtà di un popolo che vive da decenni sotto un’ottusa e violenta occupazione militare, occultata o manipolata in gran parte dai mass media israeliani, impegnati a disegnare e sostenere con ogni mezzo l’immagine di una popolazione palestinese assetata di sangue e nemica degli israeliani. Yuval perciò entra in contatto e diventa amico di Basel, con cui si instaura un rapporto di rispetto reciproco e di collaborazione nel tentativo, forse vano da un punto di vista oggettivo, ms estremamente importante per le loro storie personali, di contribuire a cambiare questa realtà terribile.
Il film ci getta subito al centro dell’azione. Basel, di notte in automobile è costretto a fermarsi ad un posto di blocco dei soldati israeliani, mentre qualcuno al telefono lo chiama per sollecitare il suo aiuto, una sua presenza. E’ l’ennesimo sopruso che innesca in lui un turbinio di ricordi personali, presentati allo spettatore sotto forma di filmini familiari, momenti gioiosi interrotti drammaticamente dall’arresto del padre. Evento che lo segna profondamente e lo induce a trasformarsi in un testimone-attivista, sempre in prima linea e a rischio della propria vita nel tentativo di aiutare il suo popolo con l’unico metodo, non violento, che conosce, quello di filmare tutto ciò che accade a Masafer Yatta a causa dell’occupazione militare israeliana: i soprusi, le demolizioni delle loro case, subito ricostruite eroicamente di notte e nuovamente demolite dai bulldozer, le percosse, gli insulti, i gesti di scherno, le intimidazioni dei soldati e gli attacchi violenti dei coloni che uccidono impunemente i contadini palestinesi che resistono, ma anche le manifestazioni della popolazione contro l’occupazione, la dignità di persone comuni che chiedono ai soldati e ai loro ufficiali il perchè delle loro azioni ignobili che costringono le famiglie palestinesi a vivere tra le macerie delle loro case o a rifugiarsi nelle grotte come profughi in una terra che abitano da secoli, senza ottenere risposta, o le denunce degli abusi subiti ricevendo, da una corte composta esclusivamente da giudici israeliani, una sbrigativa risposta processuale negativa dopo 22 (?!) anni. E pure le fugaci visite ufficiali di esponenti prestigiosi della comunità internazionale, come quella dell’ex premier inglese Tony Blair (7 minuti netti!) o di giornalisti americani, che non cambiano assolutamente niente delle condizioni drammatiche in cui vive la popolazione palestinese.
Solo il sostegno e la collaborazione dell’amico giornalista israeliano Yuval sembrano essere in grado di aiutare Basel nel suo quotidiano impegno e i loro dialoghi, pieni di silenzi eloquenti ma anche di riflessioni significative sulla possibile convivenza dei loro popoli, sono forse l’elemento che più colpisce la razionalità dello spettatore nella struttura narrativa ideata dal collettivo di registi e attivisti alla base del documentario. Basel e Yuval sono infatti la testimonianza di una convivenza possibile con ciò che è diverso da sè, senza dover per forza prevaricare l’uno sull’altro, e quindi sostanzialmente della criminale inutilità del conflitto in atto in Palestina. In fondo si tratta di due popoli che abitano la stessa terra, che si conoscono da sempre, destinati dalla geografia a convivere per sempre. Quindi chi è il nemico di chi? E quando prevarrà la ragione e la fine di ogni ostilità? I due protagonisti del documentario non sanno darsi una risposta alla domanda che più volte attraversa i loro dialoghi e non riescono a proiettarsi in un pacifico futuro possibile. Entrambi, coetanei, non sono sposati e sono molto incerti sulla possibilità un giorno di farsi una famiglia e una vita normale. Quindi sullo sfondo del paesaggio assolato della Cisgiordania e del violento conflitto che l’attraversa emerge la realtà delle loro solitudini piene di domande senza risposta. Mentre le immagini notturne del finale alludono forse ad una vicenda individuale e collettiva ancora nebulosa e piene di inquietudini. In attesa di un nuovo giorno di testimonianza e di resistenza che solo le immagini e le parole dei due giornalisti possono raccontare ad un’opinione pubblica sempre più distratta, disinformata, manipolata, sedata e sostanzialmente indifferente, e che fatica sempre più a mettersi nei panni dell’altro da sé. Qualsiasi altro da sè.
E allora che cosa è casa? Forse solo il luogo in cui albergano i nostri ricordi, la nostra storia, il solo luogo in cui possiamo essere ciò che si è fuori da ogni apparenza, il luogo in cui possiamo accogliere l’altro in pace e senza doverlo eliminare per poter dimostrare la nostra esistenza al mondo. Solo in questo luogo, e solo in questa terra a cui apparteniamo per destino e per la nostra storia individuale e collettiva. Per questo, al di là della realtà che “No other land” racconta, il documentario del collettivo israeliano e palestinese ci colpisce, ci interroga e ci riguarda profondamente.
Marcello Cella
“No other land”
Un film di Yuval Abraham, Basel Adra, Hamdan Ballal, Rachel Szor
Durata 96 minuti
Produzione: Palestina, Norvegia
Anno: 2024.