Il documentario di Daniele Gaglianone sul dopoguerra bosniaco racconta in modo radicale e struggente che cosa resta dopo un guerra nell’animo di chi l’ha vissuta sulla sua pelle.
Il silenzio, un pretesto per vivere“Rata nece biti. La guerra non ci sarà” di Daniele Gaglianone
“Don Tonino Bello amava ripetere che i conflitti e tutte le guerre trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti. Quando cancelliamo il volto dell’altro allora possiamo far crepitare il rumore delle armi. Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non ci è permesso sfregiarne la dignità con la violenza”
Papa Francesco, “Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace”
Quello che rimane dopo una guerra è il silenzio. Anche dopo una battaglia. E’ quello che raccontano i civili scampati al massacro dell’Azovstal a Mariupol in Ucraina. Quando dopo settimane di assedio hanno potuto uscire dai sotterranei del complesso industriale bombardato incessantemente dai russi ed evacuare verso luoghi più sicuri la cosa che più li ha colpiti è stato il silenzio. Lo raccontano tutti. Il silenzio delle armi e delle bombe. Anche Daniele Gaglianone in questo documentario datato 2008, “Rata nece biti. La guerra non ci sarà”, parte da questo elemento, il silenzio. Gaglianone racconta un’altra guerra, quella che ha dilaniato l’ex Jugoslavia negli anni ’90, in particolare la Bosnia, utilizzando il silenzio per far emergere le parole dei dieci protagonisti di questa narrazione che riguarda la sopravvivenza dopo una guerra, i cambiamenti emotivi, psicologici, sociali che sempre avvengono sia a livello individuale che collettivo dopo un sanguinoso conflitto armato. “Rata nece biti” è un documentario lungo (dura quasi tre ore) e la narrazione si svolge lenta, come il fluire delle acque della Drina, il fiume bosniaco che accompagna spesso i racconti dei dieci personaggi, sopravvissuti alla guerra proprio in quelle zone di frontiera segnate dal suo corso, fra Sarajevo e la Serbia.
Il silenzio e le parole, i volti sono i protagonisti del documentario, il silenzio dopo la fine della guerra che non è ancora pace anche perchè a certe latitudini il passato non è ancora passato e il presente fatica a colorarsi di futuro. “Volevamo indagare il presente. Ma poi ci siamo accorti che il presente non esiste perchè il passato sembra non riuscire a passare e quindi ci siamo ‘arresi’ e, come dice uno dei nostri personaggi, “qui non è finita la guerra, semplicemente non si spara più”, afferma Andrea Parena, autore del soggetto e della fotografia del film.
E’ questa quotidianità malata, malinconica, pervasa da un senso struggente e ineluttabile di perdita che Gaglianone indaga con grande sensibilità, seguendo i suoi personaggi, il filo non sempre coerente dei loro pensieri, i loro racconti frammentati e dolorosi, il senso di un esistere che già di per sé è una forma di resistenza. La forza e l’attualità del bellissimo lavoro del regista torinese sta proprio in questa posizione di ascolto senza preconcetti, concedendo ai personaggi il tempo necessario per trovare il filo delle parole e dei pensieri e raccontarsi. Raccontarsi dentro una guerra. Il tempo prima della guerra, durante la guerra e dopo la guerra. “Ci vuole tempo: il tempo di incubazione che prepara queste guerre, poi c’è il tempo necessario a fare la guerra, ma poi c’è anche la lunghezza di questo dopoguerra infinito. (…) Questo documentario è un viaggio anche nel tempo. C’è l’immobilità del tempo interiore che, per il singolo individuo si è fermato in un certo giorno (…) ed è importante il tempo in cui io sono adesso: sono tutto immerso nel passato, quindi riesco ad essere nel presente? Posso immaginare il futuro? Ogni spostamento in questa cronologia è anche una parte della propria biografia” (Nicole Janigro).
“La questione del tempo è centrale. La sensazione che si ha quando si è lì è di una sospensione pazzesca: il passato non è ancora passato, il presente non è ancora partito. Loro vivono in un tempo interiore che è rimasto fermo al tempo della guerra (…) Questo fa parte della sospensione della storia, dove le storie personali non riescono a trovare un’eco nella storia pubblica ” (Daniele Gaglianone).
“Rata nece biti. La guerra non ci sarà” si/ci immerge in questa sospensione temporale, in questo spazio incerto dove l’affermarsi degli opposti nazionalismi ha fatto terra bruciata delle precedenti identità individuali e collettive utilizzando parole di guerra, manipolando linguaggi fino a deformare non solo palazzi, città e villaggi con le bombe, ma anche il senso più profondo del vivere, del vissuto quotidiano. Una vita senza punti di riferimento, senza un luogo che puoi chiamare casa o patria, straniero ovunque.
“Karahasan appartiene a gente che si è sempre pensata Europa e scopre di non essere europea, che è stata pensata Oriente e non si è mai considerata Oriente, gente che è stata un po’ austriaca, un po’ turca, un po’ serba, un po’ balcanica. Non sono mai stati una cosa unica e un’identità monolitica: sono coinvolti in una guerra di sterminio basata sul principio di identità, e l’identità non ce l’hanno. Dovrebbero appartenere a qualcosa e non appartengono a niente” (Luca Rastello). E’ l’eterna storia dei Balcani, si dirà. E forse di tutta l’Europa dell’est, un mondo così vicino e così lontano, pieno di misteri per chi come noi occidentali si considera il centro del mondo e lontano dal pantano intriso di sangue e merda delle guerre che in quel mondo si consumano. “Per quelli della nostra generazione la guerra doveva essere altrove”, ancora Luca Rastello.
Il merito del documentario di Gaglianone è proprio quello di deragliare progressivamente da un presunto centro narrativo per decentrarsi fisicamente e mentalmente in compagnia dei suoi personaggi in uno struggente viaggio di conoscenza che si snoda parallelamente allo sviluppo delle relazioni umane. I paesaggi principali del documentario, non a caso, sono i volti delle persone che raccontano, le emozioni che si disegnano sui loro volti e dentro i loro occhi perchè è lì il segreto più profondo di esistenze segnate da una guerra. E del resto già il vecchio maestro John Ford affermava che “il paesaggio più interessante del mondo è la faccia di un essere umano”. Anche le immagini di repertorio sono quasi inesistenti e gli eventi della storia pubblica sono evocati soprattutto mediante alcuni brani tratti dai discorsi dei politici dell’epoca inseriti solo a livello sonoro. Poche le immagini di Sarajevo e di Srebrenica che il regista centellina in una sorta di pudore che lo tiene a debita distanza da qualsiasi morbosità giornalistica da ‘turismo di guerra’. Per raccontare l’orrore di vite spezzate bastano le parole dei sopravvissuti, il racconto della loro quotidianità che non sarà mai più quella innocente e banale di prima della guerra, perché, come dice uno dei personaggi del documentario, “la guerra è una cosa che accade mentre stai guardando i Simpson”. E dopo non riuscirai più a vedere quel cartone animato con gli occhi di prima.
Così “Rata nece biti. La guerra non ci sarà” progressivamente azzera la distanza fra chi osserva e chi è osservato e la sensazione che lo spettatore ha alla fine del film è quella di aver partecipato personalmente e profondamente ad una delle esperienze umane più forti che si possano immaginare, quella dei sopravvissuti ad una guerra, che hanno perso tutto, casa, lavoro, amicizie, affetti, progetti per il futuro e vivono in un presente che è quasi una condanna. Nulla sarà mai come prima. E anche la comoda posizione equidistante dello spettatore lontano dalla guerra non è una soluzione possibile.
“E’ più comodo avere equidistanza, pensare che sono tutti uguali. Quindi è più comodo mettere in campo la pietà generica per la vittima generica. Me la spiego anche come una specie di pigrizia morale che trova più comodo acquietarsi dentro questo sentimento, l’orrore per la guerra, la pietà per le vittime della guerra, entrambi sentimenti generici, piuttosto che affrontare i problemi nuovi che quella guerra mette di fronte a noi” (Gianfranco Bettin).
Perchè in fondo, come dice uno dei personaggi che Primo Levi incontra nel suo viaggio nell’inferno dei lager nazisti raccontato nel suo romanzo “La tregua”, “guerra è sempre”.
Marcello Cella
“Rata nece biti. La guerra non ci sarà”
Regia: Daniele Gaglianone
Con: Zoran Herceg, Haira Catic, Mohamed Bektic, Haira Selimovic, Aziz, Sasha, Jasmina Mameledzma, il personale dell'ICMP
Fotografia: Andrea Parena, Daniele Gaglianone
Montaggio: Enrico Giovannone
Suono: Vito Martinelli
Fonico: Angelo Galeano, Davide Favargiotti
Organizzazione: Michele Biava
Riprese: Daniele Gaglianone, Francesca Frigo, Pierpaolo Abbà, Andrea Parena
Produzione: BabyDoc Film, Gianluca Arcopinto, Daniele Mittica
Distribuzione: Derive Approdi
Nota: le citazioni inserite nell’articolo sono tratte dal libro “Rata necé biti. La guerra non ci sarà” di Aa. Vv., Derive Approdi, 2011.
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