giovedì 1 dicembre 2011



Vittorio De Seta
Incontro con gli studenti della Facoltà di Lettere dell'Università di Pisa
27 marzo 1996


Ci può parlare della sua esperienza in Guinea Bissau alla fine degli anni Sessanta quando progettò di realizzare un documentario sul locale movimento di liberazione?
De Seta: Si. Andai in aereo nella Guinea, nel luogo in cui c'era la sede del movimento,,che poi erano delle baracche, e Cabral, il leader, purtroppo non c'era. Così passarono dieci-quindici giorni perchè era un movimento di liberazione e quindi erano necessarie delle cautele. Rimasi dieci giorni a Conakry, poi mi spostarono a Bokè che è una cittadina ai confini con la Guinea Bissau. Ero solo. Avevo una macchina fotografica. Ero andato a vedere. Purtroppo allora non c'erano tutte queste telecamere piccolissime. Sarebbe stato bello in quel caso prendere qualche appunto visivo. Almeno sarebbe rimasto quello. Così mi diedero un accompagnatore, un ragazzo che si chiamava Balì, e un bel giorno ci inoltrammo nell'interno della Guinea Bissau. Camminammo dalla mattina alle dieci fino alle undici di sera, facemmo forse cinquanta chilometri attraversando delle paludi, perchè era agosto, la stagione delle piogge. E la sera non si trovava più questo campo perchè questi campi si spostavano continuamente essendo una lotta partigiana. In queste paludi c'era il pericolo che arrivassero gli aerei portoghesi che tra l'altro erano di marca FIAT. C'era questa sperequazione di forze. Alla fine arrivai in questo campo dove c'era una personalità eccezionale, Abilio Duarte, che poi ho saputo era un poeta, un musicista, aveva composto lui l'inno nazionale, medico, e venni a contatto, per quello che potevo, con questa realtà che era particolare perchè il movimento era marxista però si doveva confrontare con una realtà particolare, cioè un paese in cui non esisteva borghesia se non questi rarissimi 'assimilados', che non erano neanche l'1% della popolazione, e quindi erano tutti contadini poveri…
…Quindi il problema delle etnie…
De Seta: …Si, c'erano i fulassi, i mandingue…i fulassi erano musulmani, gli altri animisti…e poi c'era anche una terza etnia. Questo movimento era iniziato negli anni Sessanta dopo un clamoroso eccidio avvenuto vicino a Bissau in cui la polizia e l'esercito avevano sparato sulla folla dei 'dockers', gli scaricatori, che si erano ribellati, facendo cinquanta morti. Con questo era iniziata la lotta armata che poi è stata preparata ed elaborata, credo, con una necessaria e dovuta originalità perchè tutti gli schemi marxisti della lotta operaia ovviamente cadevano. C'era una popolazione contadina, povera, denutrita, analfabeta, con i capivillaggio di origine patriarcale, e questi portoghesi che andavano ad esigere le imposte. Praticamente questo movimento ha dovuto fare i conti con questa realtà. Cabral e i suoi collaboratori vestiti da contadini passavano inosservati per i portoghesi, ma i locali capivano subito che non lo erano, e andavano a fare un'opera di persuasione e di proselitismo partendo da quella situazione. La situazione era data da queste tasse esose che venivano riscosse, i capofamiglia venivano tassati in base al numero delle mogli e/o dei figli ed a chi non pagava venivano sequestrati gli animali e subiva percosse, bastonature in pubblico. Era una grande mortificazione per un uomo venire picchiato davanti ai suoi familiari e al suo villaggio e quindi facendo leva soprattutto sui giovani si è avviato questo movimento che è partito dal niente perchè poi le armi se le sono dovute procurare facendo delle imboscate, incendiando questi camion militari, prendendole a queste truppe portoghesi e ciò ha implicato una quantità di cose incredibili. Per esempio gli anziani del villaggio non erano più all'altezza della lotta. Allora il movimento è partito dai giovani e automaticamente c'è stata una esautorazione degli anziani che però hanno accettato questa cosa e nello stesso tempo tutti gli schemi, diciamo occidentali, come, per esempio, l'esercito, l'autorità, la disciplina, l'obbedienza cieca cadevano. Io assistevo a delle discussioni! Questo Abilio Duarte era il capo ma non si sognava di esercitare l'autorità se non con una finezza incredibile perchè il combattente, non essendo sottoposto alla disciplina, si doveva convincere delle cose. Quindi mi ricordo che, non so se era il caso di una ragazza che doveva essere trasferita perchè doveva partorire, il come doveva essere spostata è diventato il pretesto di una conversazionre di ore e ore perchè tutti dovevano essere convinti. Era proprio una democrazia di fatto, tutti dovevano essere convinti del modo migliore tenendo conto del giudizio di questa persona, senza mai decidere nulla per l'altro autoritariamente. In fondo è un vero peccato che non si sia potuto fare un film anche minimo perchè era proprio commovente, era la nascita di una nazione che avveniva così, nella boscaglia dove c'erano pochissimi mezzi, dove si ricominciava a produrre il riso mentre invece i portoghesi cercavano di fargli produrre l'olio di arachidi, che poteva essere esportato. E mi ricordo che c'era una penuria! Io ero partito da Roma, stavo a Torvaianica, ci avevamo una casetta, il cosiddetto villaggio Tognazzi, c'erano gli ombrelloni con le signore che parlavano di gioielli, di coralli, di moda, e mi sono trovato catapultato in questa realtà dove era normale che arrivasse un piatto abbondante di riso con una porzione di spezzatino ed era per quattro persone. Questa era una situazione già abbastanza privilegiata, dove c'erano dei malati, dei feriti. Poi lì la gente mangiava riso condito con l'olio di palma che ha il colore dell'olio delle automobili. E' difficile per noi capire, ma queste cose ci sono ancora oggi, e non so se e con che difficoltà noi ci rendiamo conto di farne parte. Noi, forse un quarto, un quinto di umanità privilegiata all'interno della quale ci sono le fascie di malessere…Non è che poi all'interno di questi paesi cosiddetti industrializzati le cose vadano così bene, c'è un sacco di gente che sta male. Ma lì stanno male tutti e questo continua. Ogni tanto si mangiava un pezzettino di carne perchè un cacciatore era riuscito ad ammazzare un cinghiale, era un avvenimento. Andai lì con la possibilità di andare lì a realizzare un film. Naturalmente sarebbe stato un film semidocumentario con un'esile traccia narrativa. Ricordo che io seguivo il metodo zavattiniano, quello del pedinamento della realtà, del fare un'inchiesta, esplorare una realtà, trovare i momenti fondamentali di una situazione, quindi, nel mio caso, cercare di spiegare il prima, com'era la situazione della gente prima della lotta armata, queste scene dell'esazione delle imposte, delle bastonature degli anziani, e il saccheggio dei portoghesi, poi l'arrivo di questi rivoluzionari travestiti da contadini che facevano opera di proselitismo, poi l'inizio della lotta armata, le varie tappe che si sintetizzavano in una storia…Io avevo pensato alla storia di un ragazzo che rimane orfano e che si aggregava ad una pattuglia di combattenti. Poi veniva lasciato in un ospedale e alla fine, quando il forte portoghese veniva espugnato, ritrovava la madre e cominciavano a ricostruire la casa. Mi sembra che fosse un arco abbastanza esauriente. Naturalmente poi tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Oggi con le telecamere sarebbe stato molto più semplice ma fare un film allora non era facile. Poi nel mio caso quando tornai in Italia partì questo progetto di Diario di un maestro e così la cosa è stata dimenticata. E' rimasto questo documento che ho scritto nel quale appunto c'è il tentativo di acquisire la realtà e poi di tradurla in un racconto cinematografico con varie ipotesi e soluzioni. Questo in sostanza. Fare un film in una realtà che si trasforma e quindi capovolgere i termini normali. Normalmente nel cinema si organizza una realtà al servizio della macchina da presa, come anche nel caso del documentario che a me piace molto, mentre invece in questo caso è la macchina da presa che si doveva mettere al servizio di una realtà e perciò avrebbe dovuto filmare delle cose che stavano succedendo e che bisognava solo tentare di strutturare al minimo con una storia che poteva essere quasi un pretesto.

Però era la prima volta che lei si interessava di una realtà non italiana.
De Seta: Si, per quanto poi io penso sempre che, da meridionale, quando sono andato a Hong Kong a fare un lavoro di tre ore per la RAI, Hong Kong città di profughi, io ho recepito questa città, l'ho sentita come un grande sud. L'Italia è un paese particolare perchè non credo ci sia un altro paese come l'Italia in cui c'è una divaricazione così forte fra nord e sud. Si può dire che in Italia c'è la coesistenza fra un paese primo e un paese terzo. Se andiamo a Gela, in certi luoghi di Palermo o di Catania siamo lì. Forse l'Italia è l'unico paese che contiene purtroppo realtà così distanti. Quindi noi siamo in qualche modo anche legittimati a parlare di questi argomenti. E mano a mano questa idea del sud che quando ho cominciato era l'Italia si è estesa. Se vado in Africa per me è sud. Ma non è solo un sud geografico, è un sud totale, globale, un sud economico, un sud di sperequazioni, di emarginazione. Quindi mi verrebbe difficile girare un film in Norvegia, mentre non mi imbarazzerebbe farlo in Africa.

Lei è partito con un progetto e quando è andato lì ha cominciato a modificarlo. Il contatto con la guerriglia è stato determinante?
De Seta: Io non sono partito con nessun progetto. Questo ci tengo molto a dirlo. Anche quando sono andato a fare Banditi a Orgosolo. Anche in questo caso il progetto è venuto dopo il primo approccio, dopo essere stato lì. Guai a partire con un'idea preconcetta, con un'idea propria perchè veramente poi non funziona. L'iter è sempre quello lì. Non si sa niente, si va là, si cerca di capire il più possibile in una prima fase che già non è facile, poi su queste nozioni, su queste cose viste, perchè nel cinema ci sono anche quelle, si cerca di organizare una storia. Potrebbe venir fuori un documentario saggistico, una descrizione delle cose. Ovviamente una storia è più avvincente, un film viene percepito di più, perchè, diciamo, è la carburazione su una realtà. Quindi partendo dalle cose semplici…che ne so, dal destino di un ragazzino che si sente sperduto, seguendo lui si toccano le varie realtà, ma potrebbe essere un altro, potrebbe essere…che so, queste donne che partivano da sole per andare a commerciare il sale, a procurarsi da vivere. Il bello di una storia è, secondo me, la vita vista dai bambini, la vita vista da una donna, diciamo da un personaggio correntemente quasi poco significante; però tutto quello che vede diventa vero. Del resto anche su questo abbiamo dei precedenti filmici importanti, anche Paisà era un viaggio in Italia, dal sud al nord, dalla Sicilia a Napoli, da Roma a Firenze e poi sul Po per raccontare questa conquista della liberazione dell'Italia dal 1943 al 1945.

Ma il capo della guerriglia lei l'ha incontrato in Guinea?
De Seta: L'ho incontrato prima a Roma, poi quando sono sceso in Guinea non c'era. C'erano questi suoi collaboratori un po' smarriti. Mi ricordo anche i discorsi che lui faceva per il decentramento. C'era questa baracca, lui non aveva un ufficio, mi ricordo che aveva un telefono rosso, questo era l'unico segno di distinzione, e quanto lui si sforzasse di non essere leader, di non essere oggetto di culto della personalità, quanto cercava sempre di decentrare. Naturalmente lui aveva una personalità fortissima. Poi quando sono ritornato in Guinea Bissau allora c'era e abbiamo parlato. Mi ricordo che abbiamo fatto una passeggiata insieme e c'erano lontano due del movimento che si erano impantanati con un'autocisterna e da lontano gli ha gridato delle cose, però non è andato lì per dirgli come si doveva fare, li ha lasciati cuocere nel loro brodo. Quando siamo tornati dalla passeggiata si erano disincagliati. Ho notato questo ottimismo di fondo, questa grande capacità di decentrare.

Aveva mai pensato che con questo film avrebbe potuto in qualche modo mettere in difficoltà la guerriglia?
De Seta: Si, certo, però c'erano stati anche dei precedenti. C'era andato Valentino Orsini e proprio loro raccontavano che ad un certo punto la troupe voleva filmare qualcosa dal vero e proprio il riflesso della macchina da presa aveva rivelato la presenza di questi militanti per cui era cominciato un fuoco intenso di mortai. Poi c'era andato un altro cineasta, Piero Nelli credo, ma si era ammalato, e una troupe francese. Sono cose molto delicate. E' importante registrare le situazioni però certe volte c'è anche un elemento di disagio perchè uno si sente un po' sciacallo, non so spiegare bene perchè, forse perchè le cose succedono e allora tu dovresti partecipare a queste cose. Stai lì con la macchina da presa e ti senti…E' importante però in quel momento ti senti spiazzato. Nello stesso tempo ricreare una realtà è impossibile e non sarebbe coerente. E' difficile dire come…Forse si dovrebbe fare un documentario solo con delle testimonianze, forse l'idea di fare una storia con una struttura è già troppo ambiziosa e fuori luogo, non so. E' difficile.

Questo soggetto è stato poi abbandonato definitivamente o potrebbe essere in qualche modo ripreso? Perchè è un tema non molto conosciuto, non è che si parla moltissimo di queste cose. E siccome un film, anche per le persone che non hanno molta voglia di interessarsi a queste situazioni, ha una certa presa, una presa che non avrebbe un documentario, credo che avrebbe un grande valore. E' un peccato che possa rimanere così, sulla carta…
De Seta: Resta il fatto pratico della difficoltà di organizzare il film. Se fai un film la macchina da presa ha le batterie, ci vuole la corrente, come lo risolvi? Uno allora dovrebbe portarsi dietro un gruppetto di persone. Poi succede che i mezzi si rompono. Se stai in Sicilia mandi qualcuno a Roma ma se stai in Guinea che succede? Nel cinema basta che si rompa una cosetta e si ferma tutto. E' molto difficile. Paisà è stato girato in Italia nel '45, però bene o male gli stabilimenti c'erano…La pellicola la devi mandare a sviluppare, perchè la pellicola nel momento in cui si impressiona è più delicata, non la puoi tenere in zone umide…La penuria di cose che c'era in Guinea in quel momento non la potete immaginare, non c'era niente…Ora poi la cosa avrebbe tutto un altro significato…con le telecamere…In un certo senso la documentazione ti rimane. Oggi sarebbe già una ricostruzione, una finzione che potrebbe essere basata su un'esperienza vissuta, però è diverso.

La morte di Cabral contribuì all'archiviazione del progetto?
De Seta: No, perchè dopo ho fatto Diario di un maestro e mi ci sono voluti tre anni. Nel frattempo la cosa era finita. C'era stata la liberazione nel 1974 e Cabral era stato assassinato nel 1973. Così è passato. Però è rimasta l'amarezza perchè il cinema è il cinema, una cosa si fa poi rimane, è un'immagine. Aver perduto questa occasione per me è un vero cruccio perchè mi sono rimaste solo queste fotografie…Queste settanta pagine che ho scritto andrebbero integrate alla fine. Poi a dire la verità c'è anche un certo clima retorico…perchè c'era gente che combatteva, mi ricordo questi ospedali, bambini feriti, gente mutilata, era uno sforzo tremendo, quindi era verosimile e giustificabile che avessero bisogno di essere incoraggiati. Arriva un cineasta e cerca la sua storia…è difficile rapportarsi. Ovviamente uno dovrebbe mettersi al servizio in tutti i sensi. Però io sentivo che se in quel momento avessi avuto un registratore, un microfono forse Cabral mi avrebbe detto delle cose consuete, le cose che facevano parte del patrimonio culturale di quel momento, non ne avrebbe parlato più approfonditamente solo perchè era un leader, era il momento della massima tensione nella lotta, non c'era la possibilità…Insomma c'era il pericolo della retorica e forse per questo non l'ho intervistato ufficialmente. Del resto non stavo lì per quello, io stavo lì per fare un progetto di film. Comunque mi dispiace di non averlo fatto. Mi ricordo che lui mi era amico e citava spesso Basyl Davidson che aveva scritto La grande madre nera, che penso sia un testo base sullo schiavismo, parlava del traffico degli schiavi nel Seicento-Settecento, parlava di centocinquanta milioni di persone portate via dai villaggi e forse cento milioni arrivati nelle Americhe. Di fronte a queste cose i lager nazisti, come proporzione numerica, non come empietà, diventano quasi artigianali. Nonostante tutto di questo fatto non se ne parla, non se ne parla mai abbastanza. Tutto un continente, cento milioni di africani portati nei Caraibi, negli Stati Uniti, in Brasile, nel Centro America. Che fenomeno di massa, seppur diluito nel tempo, che cosa tremenda!

Ha conosciuto altri leader africani di quel periodo?
De Seta: Si, Agostino Neto dell'Angola e poi altri del Mozambico. Ora non ricordo bene. Era un periodo molto fluttuante di cambiamenti. Però non ho approfondito molto perchè facendo cinema uno non guarda le grandi linee storiche.

Perchè allora la scelta della Guinea Bissau?
De Seta: Perchè mi aveva colpito Cabral e poi anche perchè davvero nessuno sapeva che esistesse. Si confondeva con la Nuova Guinea. Un paese così piccolo e sconosciuto e poi questo grande uomo. Come sempre succede, la gente poi magari dimentica…Mi ricordo dei profughi vietnamiti. Nel periodo 1979-1980 se ne parlava, poi queste cose continuano uguali, però non fanno più notizia, non se ne parla più. Così è successo e succede per tante altre cose.

Lei aveva fatto anche qualche studio etnografico su questa cultura? Mi ricordo un suo intervento su Cinema Nuovo in cui parlava di motivi ricorrenti come la danza, la nascita, la morte. A parte l'interesse per la guerriglia, per la lotta in corso, mi pare che ci fosse anche un interesse per una realtà che in qualche modo era fuori dal tempo e che quindi andava più in là della cornice storica particolare…
De Seta: …Non si poteva prescindere dal fatto che in questo piccolo paese coesistevano una etnia musulmana e altre due, fra cui quella mandinga, che erano animiste. Non si può prescindere da questo, dalla vita, dal fatto che erano tutti contadini poveri. Il cinema è fatto di concretezza. Io veramente lo rammento sempre anche nei libri di storia. Ad un certo punto mi sono occupato del brigantaggio calabrese e si trovano una quantità di libri di storia, però poi non si sanno le cose della vita quotidiana, non si conosce, non si capisce come accendevano il fuoco, avevano degli zolfanelli o avevano ancora l'acciarino, il fucile era ad avancarica o a retrocarica? Quando facciamo cinema tutte le cose diventano concrete, diventano materiale del racconto e non si può non tenerne conto perchè sennò facciamo un film sulla liberazione in Guinea Bissau ma in modo che assomiglia troppo ad un'altra situazione, che so, in Guatemala. Voglio dire, se è tutto politico, se è tutto schematico, dottrinario, ideologico allora un paese vale l'altro. In cosa si differenzia il paese? Nel fatto che lì tutti sono contadini, coltivano il riso, sono poligami, come erano queste etnie, sono animisti. In un altro paese è un'altra cosa. Quindi il costume vi rientra e un film diventa interessante, positivo e continua a vivere in quanto ci fa conoscere la realtà di un altro paese. In questi giorni ho avuto un moto di gratitudine. Ero a Palermo dove c'era una rassegna su un regista molto importante che si chiama Abbas Kiarostami, iraniano, e mi ha colpito proprio la forza del suo cinema perchè questo regista racconta delle storie semplici. Il film che avevo visto io, Sotto gli ulivi, era la storia di una troupe che deve andare in un posto per fare un film che si chiama La vita continua, che poi era il suo film precedente, e apparentemente non c'è niente. Nella troupe ci sono due ragazzi che fanno una parte, un ragazzo e una ragazza. Nella realtà veramente il ragazzo faceva la corte alla ragazza, però doveva passare attraverso l'autorizzazione di una zia, avrebbe dovuto avere una casa, un lavoro. Quindi attraverso questa storia apparentemente banale, insignificante, venivano fuori i problemi reali, concreti di quel paese, la disoccupazione, il problema del rapporto fra i sessi a livello popolare, che poi sono gli stessi problemi che abbiamo noi in Calabria, in Sicilia o anche qua. Questa è la forza. Io lo dico sempre. Se si facessero molti film così, se ci si conoscesse e si scoprisse che siamo uguali, simili, poi certo ci sono paesi che sono più evoluti, in cui c'è più benessere e dove ce n'è meno, ma i problemi fondamentali sono sempre gli stessi. C'era un personaggio bellissimo in questo film che era una tuttofare, segretaria di edizione, batteva il ciak, guidava la macchina, una donna di quarant'anni, con il vestito lungo, il chador, aveva questa apparenza esterna però in realtà era una donna moderna, inserita nella società. Questo è importante. Anche in Guinea Bissau si poteva scoprire l'uovo di Colombo, la banalità, cioè che i suoi abitanti sono in realtà come noi. Se si facessero molti film di questo genere sulle cose comuni, e non sulle cose che ci dividono, al limite le guerre non sarebbero più possibili. Io per esempio non sapevo niente, non me lo rappresentavo l'Iran, neanche come ambiente fisico e ho visto che ci sono strade sterrate, automobili vecchie, però c'è questa vita, ci sarà anche un'altra religione però è sempre la stessa cosa. In fondo il cinema dovrebbe essere uno strumento di lotta contro le diversità, contro le apparenti diversità e sulle sostanziali cose comuni. Conoscenza vuol dire poi tolleranza. Ora ho un progetto per fare un film su un extracomunitario e lavorandoci mi sono reso conto che in questa nostra civiltà 'cattolica', che dovrebbe essere universalistica, noi in realtà non sappiamo niente di questi popoli che stanno dall'altra parte del Mediterraneo, non sappiamo niente, non ne abbiamo una rappresentazione, non sappiamo che cos'è questa religione, identifichiamo erroneamente questa religione con il fondamentalismo, con l'integralismo che poi è una fascia estrema. Quindi non sappiamo qual'è la vita reale di queste persone, nutriamo dei sospetti perchè ci sono stati inoculati, quindi siamo prevenuti, vediamo un extracomunitario e ci fa un po' senso perchè è diverso. Quindi penso che il cinema dovrebbe servire a questo, sennò poi avvengono fenomeni come quello della Lega Nord. Non dico che siano tutti così, ma insomma questi flussi di discriminazione, di intolleranza, di pregiudizio, insofferenza sono pericolosi.

Io volevo farle una domanda politica. Cosa ha potuto constatare direttamente nell'evoluzione del movimento di Cabral. E' vero che Cabral era anche un leader autoritario che faceva nascere il movimento da sè stesso, lo indirizzava, lo inquadrava in qualche modo. In quelle condizioni il movimento come si sviluppava?
De Seta: Io ho avuto l'impressione che si sviluppasse molto bene perchè non si partiva dai preconcetti teorici, dogmatici del marxismo. Lì c'era un'idea di progresso, se vogliamo anche dei parametri marxisti. Però quando arrivavamo a contatto con la realtà si sposavano e facevano i conti con la cultura locale e si inserivano abbastanza bene. Questo fatto che gli anziani volontariamente avevano capito che dovevano rinunciare al loro potere tradizionale e che dovevano lasciare il posto ai giovani, che questa cosa dovesse avvenire dalla base e che Abilio Duarte, che aveva il potere, passasse tre ore a convincere un anziano di una cosa, gli riconoscesse e gli dimostrasse rispetto secondo me era una vera grande rivoluzione.

Anche la guerriglia quindi ha avuto il suo vantaggio, favorito i contatti fra questi piccoli gruppi…
De Seta:…Un episodio che avrei voluto inserire perchè me lo avevano raccontato era il modo in cui un ferito era stato trasportato attraverso le paludi per tre o quattro giorni perchè nell'ospedale da campo l'operazione di cui aveva bisogno non si poteva fare…Oggi noi viviamo queste stragi con questi morti che vengono lasciati così, per strada, lì invece il valore di una vita umana in un contesto di assoluta mancanza di tutto era importante. Però c'erano persone che si sacrificavano, che rischiavano la pelle per salvare una vita. Ecco, come dire, in paesi poveri, umili, di cultura cosiddetta 'arretrata' la vita umana aveva un valore. E invece mi domando quanta ne abbia oggi dalle cose che vediamo e che sentiamo, come i bombardamenti mirati che sono avvenuti in Iraq. Quello che ho sentito, che ho provato è che lì c'era una dimensione umana e culturale che si salvava anche grazie al fatto che la cultura tradizionale non veniva buttata a mare, scartata, negata come è avvenuto qua e si fondeva con queste dottrine progressiste che però dovevano fare i conti con una realtà tradizionale. Credo che questo sia il progresso.

Dal punto di vista etnografico cos'è la cosa che l'ha colpito di più di queste popolazioni?
De Seta: Sicuramente molto l'animismo. Questa cultura spregiudicata, con la poligamia, con noi che pensavamo 'chissà che inferno!', la subalternità della donna. Certo, non ci si può augurare che questo continui, però intanto in quel momento ho avuto la percezione che questa situazione andasse se non rispettata, almeno presa per come era, e sempre con cautela perchè sono forme di vita che si sono elaborate nei millenni. Se ci sono hanno avuto e hanno un senso. Prima di tutto bisogna cercare di capire.

Nel momento in cui lei è andato in Guinea Bissau il marxismo era ancora una ideologia che informava tutta la cultura europea viva. Lei è partito quindi con questi due elementi ideologici diversi che erano marxismo e antimarxismo. Ora le volevo chiedere se lei trova che questo avrebbe potuto essere un correttivo anche per il dogmatismo della sinistra? Lei trova che questa direzione sarebbe potuta essere diversa anche in Europa?
De Seta: Si, questo senz'altro. Poi, se vogliamo, in fondo tutto il lavoro che ho fatto io, adesso me ne rendo conto, inconsciamente è stato molto più sulla cultura contadina tradizionale rapportata alla nostra cosiddetta, dico 'cosiddetta' perchè non ci credo, cultura moderna. Ora mi viene in mente che lì non era soltanto questione di marxismo, c'era la questione di innesto del marxismo su una cultura contadina, ma soprattutto c'era il fatto che in un certo modo questa cultura contadina non veniva uccisa di morte violenta come è avvenuto qua. Si facevano i conti, era un confronto. Scusate, parlo del mio lavoro, ma è quello che ho toccato con mano. Negli anni Cinquanta ho fatto dei documentari in Sicilia. Non lo so perchè li ho fatti. Forse perchè sentivo inconsciamente che questa cosa stava finendo anche se non sospettavo che sarebbe finita così presto. Ho fatto documentari sulla vita popolare, sul lavoro, che ne so, sulla pesca del tonno, del pesce spada, sulla vita nelle isole Eolie, sulle miniere di zolfo. Quello sul pesce spada l'ho girato nel 1954. Ci sono raffigurazioni cartaginesi, fenicie di quattromila anni fa con la stessa barca, con quattro rematori, l'alberello, il fiociniere, insomma una cosa che durava come minimo da duemila-tremila anni nel 1956 è finita. Le tonnare non so da quanto andassero avanti, ma senz'altro dall'antichità, dal Medio Evo, in due o tre anni sono finite. E quindi questo fatto mi ha colpito, mi ha sconvolto e mi sconvolge ancora, perchè non ci rendiamo mai conto di ciò che è avvenuto negli ultimi trent'anni. Non so voi come lo interpretate, voi che magari trent'anni non li avete. E' avvenuto un cambiamento immenso, irreversibile, per cui non è soltanto la pesca del pesce spada ad essere scomprasa…Fino agli anni Cinquanta il grano si falciava con la falce. La falce, per esempio, credo che abbiano rinvenuto ancora falci di pietra di diecimila-dodicimila anni fa, ma sempre la falce era, la falce non si è modificata nel tempo. Al massimo c'è stata una piccola seghettatura. In diecimila anni questo strumento non è cambiato, in questi ultimi trent'anni è cambiato. Io ho fatto un documentario sulla mietitura del grano in Sicilia nel 1955; in gran parte si faceva ancora con i muli, con il vento, perchè poi bisogna aspettare il vento per trebbiare questo grano. Questo tocca tutto. In trent'anni praticamente questa cultura che poi era un patrimonio di esperienze, di costume, di canti, di nomenclature è stato buttato a mare con violenza. Sono arrivate le automobili…oggi non facciamo in tempo a fare niente…che so, le musicassette sono già superate perchè hanno fatto i compact disc, che saranno superati a loro volta dalle tecnologie digitali…A me mi colpisce sempre questo fatto, cioè che la vita degli uomini che da un milione di anni vivevano in un certo modo e quindi avevano strutture cerebrali ereditarie (abbiamo tutti strutture cerebrali ereditarie prodotte da questa esperienza) in trent'anni si è capovolta. Adesso forse ho fatto un giro un po' troppo lungo.

Non pensa che dopo la guerriglia, la lotta di liberazione anche la sorte di paesi come la Guinea Bissau, di quei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo, sarebbe stata la stessa? In fondo la fame è la fame, anche questo è il sottosviluppo. E' vero che c'era una cultura, però è anche vero che sono paesi che sopravvivono male.
De Seta: Questo però nella misura della follia dei nostri tempi. Io ho letto una volta un resoconto FAO secondo il quale basterebbe il 2% delle spese militari annuali nel mondo per debellare la fame, il 2%. Questo era un paese in cui bastava portare un poco di tecnica, un po' di macchine, quanto bastava, un paese che avrebbe potuto continuare a vivere elaborando la propria cultura, che avevano individuato ed elaborato così bene durante la lotta armata. Non so se rendo l'idea. Ci sono paesi che possono continuare ad evolversi rimanendo protagonisti attivi, mentre invece il colonialismo, che sia quello tradizionale, che sia quello economico delle repubbliche delle banane, è un fardello tremendo …adesso sono contesti economici complessi ed è difficile parlarne, però questi paesi poveri vengono rapinati dalle multinazionali di quel poco che hanno, anche a vantaggio nostro. Il nostro benessere è fatto anche di queste rapine. Ciò che colpisce è come in questo mondo in cui i mezzi e la forza delle macchine si sviluppa sempre di più non si riescono mai a debellare i fatti di fondo che sono la miseria, la fame, l'analfabetismo. Allora c'è qualcosa che non va. Mi ha colpito ultimamente, forse deragliamo un po', un libro pubblicato dai francesi di Reporters sans frontières, e mi aveva colpito tempo fa Montanelli che diceva, dall'alto della sua autorità, 'guardate in Jugoslavia io li conosco, lì si ammazzano'. E i Reporters sans frontières hanno fatto un lavoro coraggioso contro i propri colleghi ed è venuto fuori che non è vero che in Jugoslavia si ammazzano, ma che questi sciagurati Milosevic, Tudjman e compagnia bella, venuto meno lo strumento del marxismo nel 1989, hanno ripiegato sul nazionalismo, hanno tirato fuori tutti i documenti delle efferatezze compiute dagli ustascia croati durante l'ultima guerra, e per due-tre anni hanno preparato il genocidio che poi è avvenuto. Cioè non è vero che la televisione pubblicizza solo il biscottino o il tonno, pubblicizza anche l'odio. In Ruanda c'era una famigerata 'radio delle colline' che ha preparato il conflitto etnico che poi c'è stato. Questa è la grande differenza con Cabral che nei suoi pamphlet diceva che questo odio non era contro il popolo portoghese, ma contro il colonialismo. Mai contro le persone, i popoli.

Lei ci ha parlato dello stato di grazia in cui si trovava quel paese in quel momento. In fondo quando c'era Cabral era stato fondato da poco. Pensa che anche il movimento avrebbe potuto sopravvivere alle persone che vi partecipavano?
De Seta: Forse sarebbe sopravvissuto se fosse sopravvissuto Cabral, perchè aveva la forza della ragione, l'intelligenza, la praticità. Certo esistevano ed esisteranno sempre probabilmente queste tensioni fra tribù, ma se l'informazione, la comunicazione che è là si adoperasse per smussare queste cose invece di accentuarle la vita sarebbe migliore, più facile, più conveniente anche. Vedi, non bisogna mai pensare a queste cose come calamità venute dal cielo, sono cose fatte dagli uomini e gli stessi uomini potrebbero contrastarle.

Quindi lei crede nel cinema come strumento di conoscenza e quindi di denuncia di una realtà…il documentario come documento di una realtà che non è come dovrebbe essere.
De Seta: Si. Io sono convinto che se la televisione e il cinema diventassero strumenti veramente positivi in dieci anni potrebbe cambiare il mondo. Invece c'è La Zingara, le telecarte…

Anche gli stessi eroi che sono stati presenti a lungo nel cinema erano eroi fuori dalla portata delle persone e creavano più differenze che unità nelle persone. Questa è la mia impressione. Ora c'è un ritorno del cinema italiano agli eroi della vita quotidiana, magari anche ad un cinema che con poco riesce a dire tanto, un cinema un po' più impegnato. Lei come vede la situazione del cinema sociale?
De Seta: Io penso che gli autori, quelli che fanno comunicazione, gli artisti hanno una grossissima responsabilità. Io pure me la pongo. Ho avuto dubbi anche sull'utilità di fare un film di finzione. Però più vado avanti e più mi accorgo che per due film positivi che si fanno, novantotto sono negativi. Io ci metto anche Rambo, perchè, è una stupidata, si, ma noi pensiamo che è una stupidata, ma se ci pensiamo bene è proprio negativo perchè c'è l'individuo da solo, il superuomo da solo che si ribella non si sa bene contro che cosa. E' astratto, se non altro per questo è negativo. Un film così, tutto sommato, semina divisione, semina odio, non c'è quello che invece dotrebbe essere l'architettura della vera arte. Poi, arrivati a questo punto, tutti i mezzi di diffusione sono controllati. Nel mio piccolo io ho fatto un film documentario, In Calabria, che denunciava vagamente le cose che stiamo dicendo. In televisione l'hanno passato a mezzanotte. E ho visto alle otto e mezza di sera un documentario di Quark sui cani selvatici americani, i dingos. Alle otto e mezza passa quello, dopo La Zingara. E un discorso fatto da un uomo di una certa età, un autore, quello passa a mezzanotte. La differenza sta tra le cinquecentomila persone, che sono comunque tante, che lo vedono a mezzanotte contro i sei-otto milioni di persone di prima serata. Perciò io mi sono un po' ritirato in campagna. Però certe volte sono tentato di dire: se ho i mezzi mi faccio i film, quello che posso con i miei mezzi senza passare più per questi canali della televisione dove bene o male avviene sempre questo processo dell'autocensura. Perchè poi ad un certo punto le cose bisogna dirle, bisogna smettere di prenderci in giro. Vediamo che i capi di stato si riuniscono per vedere che cosa si può fare per debellare le cause della guerra nel mondo, e questi stessi capi di stato, e questo succede per gli Stati Uniti, per la Francia, per l'Italia, ecc., fanno finta di non sapere che le armi si producono nei loro paesi. In Italia c'è una fabbrica, che credo faccia parte del gruppo FIAT, che produce piccole mine esplosive, spesso con l'aria di giocattoli, una specie di bomba fatta di plastica che non si può identificare perchè al momento dell'esplosione una metà esplode per terra e l'altra metà esplode ad un metro d'altezza, e nella pubblicità, e ci sarà pure un depliant, si dice che può fare dei danni molto maggiori. Da quello che so queste cose si continuano a produrre. Allora smettiamola di prenderci in giro perchè se l'industria bellica nel mondo entrasse in crisi, i paesi industrializzati andrebbero in crisi. Diciamo almeno le cose come stanno perchè sennò diventa una burletta, è inutile prendersi in giro. Queste armi vengono prodotte e si calcola che di queste bombe ce ne sono ancora sparse per il mondo cento milioni e siccome statisticamente ne va a segno una su cento, si sa già che ci saranno un milione di bambini morti. Perchè poi, per esempio in Afghanistan, c'è un tale stato di povertà per cui sono i bambini che vanno a prendere ferraglia in questi depositi e proprio loro vanno ad incappare nelle mine. Questa è la realtà. Allora non so se rispondo alla tua domanda. Secondo me tutti gli autori dovrebbero dire, 'parliamo di queste cose con qualsiasi mezzo, che sia un film di finzione, che sia un documentario'. Tutti quelli che hanno fatto studi, tutti quelli che fanno comunicazione dovrebbero tentare di agire in questo senso, altrimenti non cambierà mai niente. Credo che sia una scelta. Ma non si tratta solo di noi cineasti. Qualsiasi persona abbia acquisito un po' di cultura o faccia un mestiere con cui può comunicare può farla e dovrebbe farla.

a cura di Marcello Cella



Vittorio De Seta
Cineclub Arsenale 27 marzo 1996


Volevo farle una domanda molto semplice. Lei è di famiglia nobile calabrese. Volevo sapere che cosa l'ha spinta a passare dalla parte degli umili, dei poveri.
De Seta: Il vero motivo è che nel 1943 sono stato fatto prigioniero, impacchettato e portato in Germania. Siccome eravamo degli allievi ufficiali dell'Accademia Navale i tedeschi ci hanno considerato come soldati e per fortuna mia mi hanno messo insieme ai soldati che erano contadini e operai meridionali e settentrionali. A quell'epoca non c'era così tanta differenza come adesso e così io ero un ragazzo abbastanza grossolano, privo di esperienze, in condizioni difficili e mi sono trovato un po' scoperto con questi operai e contadini. Credo che sia stato determinante perchè avevo una visione della vita completamente distorta e appunto in queste condizioni di vita quasi impossibili ho capito, ho avuto amicizie, frequentazioni e da allora è cominciata questa idea fondamentale dell'ingiustizia dal punto di vista culturale che poi con il tempo ho approfondito con l'esperienza. In poche parole, ripetendo quello che diceva don Milani, ho capito che una persona che conosce cinquecento parole non è inferiore a quella che ne conosce duemila. Non so se avete visto La Sicilia rivisitata. Non c'è mai un professore, ci sono solo contadini ed operai che magari non hanno le parole adatte però hanno il sentimento delle cose e mi ha sempre colpito questo stato della cultura, non dico italiana, ma proprio mondiale per cui la cultura è una cosa alla portata solo di una minoranza eletta che la gestisce, la monopolizza e poi c'è una base completamente esclusa, che fa poche scuole elementari, quando le fa, e poi viene completamente estromessa. Credo che sia stato questo l'impulso, per esempio, per cominciare a fare i documentari sugli operai e i contadini cercando di togliere la voce fuori campo, che è sempre un punto di vista dell'autore, e facendo in modo che questa cultura si vedesse e si manifestasse da sè. Questo poi è accaduto in fondo con Diario di un maestro, con In Calabria con La Sicilia rivisitata. Quindi gran parte del mio lavoro è stato dedicato a questo.

A me sono piaciuti moltissimo i suoi documentari degli anni Cinquanta per questa forza dell'immagine. Ieri ho visto In Calabria in cui la voce del narratore è troppo presente e mi ha dato un po' fastidio. L'immagine sembrava un po' secondaria rispetto a questa voce. Mentre i documentari iniziali sono dei gioielli.
De Seta: Se è per questo dà fastidio pure a me. Se lo dovessi rifare non so cosa cambierei. Però non è che la voce descrive le cose che si vedono, è sempre inserita in modo, almeno nelle intenzioni, da integrare quello che si vede. Il motivo è molto semplice. Quando facevo questi documentari vivevo inconsapevolmente questa cultura ed ero anche intimamente rassegnato al fatto che questa cultura scomparisse per lasciare il posto al 'progresso' fra virgolette. Quindi nel giro di quarant'anni ho fatto tutto un percorso per cui ho capito, iperbolicamente ma neanche tanto, che questa cultura che, come la definiamo noi adesso, non è neanche una cultura, perchè usufruiamo di una quantità di cose, possiamo accedere anche troppo a libri, giornali, film, musica, e questo troppo impedisce che ci sia una visione della vita che invece in quel mondo popolare, con i suoi limiti, c'era. Io dico visione della vita, rapporto con la realtà, interpretazione della realtà perchè sento profondamente che l'arte e la religione sono i due strumenti con cui gli uomini si rapportavano alla realtà, non alla realtà oggettiva, ma ad una visione super-normale delle cose. Io credo che il fascino dei documentari derivi proprio da questo, perchè la gente che li vede scopre che quello era un mondo, non so come dire, in cui l'uomo, sia pure in condizioni di vita difficili, si rapportava con la realtà. E secondo me il problema è proprio questo. Noi oggi abbiamo infiniti mezzi di comunicazione, di trasmissione però l'intendimento della vita, l'intendimento della realtà non c'è più perchè quell'eccesso di informazione, quell'eccesso di fruizione di opere lo schiaccia…Non vorrei che questo discorso portasse un po' fuori tema. Perchè magari si pensa che un regista sia uno specialista e che anche lui parli solo del suo settore. Io dico che dovremmo cominciare a smetterla con queste conoscenze settoriali, specialistiche. Lo dico perchè il regista è una persona che postula su queste necessità. Non credo di andare fuori dalle righe rispondendo in questo modo. E' difficile da dire in poche parole. Sinceramente penso che la nostra arte oggi non solo esclude il novantotto per cento della popolazione perchè è un'arte elitaria, raffinata, fatta per pochi, con la necessità della mediazione dei critici, è qualcosa di complicato. Invece l'arte dovrebbe essere una cosa semplice e l'artista dovrebbe essere un canale che rivela le cose semplici, non le cose complicate, perchè mette gli uomini in comunione sulle cose semplici, sulle cose essenziali. Credo che abbiamo perso di vista questo dato di fatto. Quest'arte, secondo me, si può dire che non c'è più se non quella confessionale, e l'arte è quello che è. Siamo arrivati al punto estremo in cui l'artista fa una cosa e dice 'se la capisci bene, sennò peggio per te'. Non c'è l'idea della comunione, non trovo altro termine. Ma non vorrei andare fuori tema.

Maria Teresa Mattei (una delle persone che hanno partecipato alla Costituente, attualmente impegnata nel sociale, ndr.): Intanto vorrei ringraziarla molto di essere venuto e di averci permesso di vedere i suoi documentari. Io alcuni li avevo visti e li ricordavo come ho visto dei film, ma da tanti anni non potevamo più vederli e vedere tutta insieme questa produzione è stato molto importante. Volevo domandarle questo, ho un po' la stessa impressione che ha detto prima la signora di prima. Io ho visto solo un pezzo di In Calabria, sono arrivata tardi ieri sera, però ho notato una forza straordinaria nei documentari precedenti, quelli degli anni Cinquanta-Sessanta perchè secondo me il cinema ha una tale forza che le parole usate per spiegare gli tolgono forza. Io ho questa esperienza di cui volevo parlare con lei e con voi che siete interessati al linguaggio cinematografico. Io faccio parte di quel gruppo della cooperativa di Monte Olimpino che ha fatto fare negli anni Sessanta molti film nelle scuole ai bambini, tutte le operazioni di cinema, dalle idee al soggetto, alle riprese, al montaggio e alla proiezione finale. I bambini hanno fatto delle straordinarie scelte che assomigliano molto alle scelte fatte da De Seta nelle sue opere. Cioè, per esempio, hanno detto, 'questo film lo vogliamo fare così, senza parole. Se ci vogliono le parole le facciamo prima, diciamo prima 'in campo buio' le parole'. In un film sul vecchietto che è ancora efficacissimo dopo venticinque anni le parole dette dai bambini sono dette prima del film e il film è muto ed ha una efficacia enorme per questo. Un'altra decisione, direi sociale, dei bambini è questa. Hanno detto, 'noi siamo quattordici bambini e dobbiamo avere lo stesso tempo per ognuno di noi, per raccontare la propria parte' e questo ha dato un ritmo straordinario al film. Non solo. Hanno detto, 'le cose che noi pensiamo sono in bianco e nero e le cose che facciamo vedere sono colorate'. Ecco, queste due decisioni tecniche, di avere ognuno lo stesso tempo per esprimersi e di usare il bianco e nero, che allora costava meno, e poi il colore (perchè i bambini si occupavano anche dell'aspetto economico del film), ha dato un ritmo così straordinario al film che veramente abbiamo pensato che i bambini si dovrebbe ascoltarli di più come io ho sempre fatto dove posso perchè penso che loro sono più nuovi di noi e ci aiutano a capire delle cose che noi riteniamo già scontate e a volte non sono scontate. Ma quello che io penso sia molto importante è questo. Sul fiume della falsa informazione che i mass media ci rovesciano addosso, ma appunto, sottolineo, ci rovesciano addosso, ci sono tantissime occasioni di informazione ma non è mai comunicazione. Quello che è importante è di acquistare e riacquistare comunicazione, con tutti questi mezzi. E questo forse lo si può sollecitare. La mia proposta era di fare un tentativo, di comunicare ai ragazzi nelle scuole come è stata la storia recente dell'Italia attraverso quei bellissimi documentari, com'era l'Italia in quei tempi, com'era il lavoro della gente. I ragazzi di oggi non sanno nemmeno cos'era una zolfatara o cosa sono i pastori sardi o come sono ancora adesso, o come è la pesca ecc.. Sono cose che in parte abbiamo perso nel cosiddetto 'progresso'. Per insegnare la storia del nostro paese, che poi gli ultimi cinquant'anni nessuno li ha insegnati tranne lodevoli eccezioni, sarebbe molto importante fare un manuale visivo nelle scuole e fare tutti una battaglia perchè entri questo cinema nelle scuole in un modo pertinente. Perchè a parlare sia veramente l'immagine del nostro paese, di quello che è successo, per esempio, fra i contadini, gli operai, i pescatori, ecc., che oggi nessuno dei ragazzi conosce. E' una cosa importantissima e quindi io propongo che da stasera si studi la maniera di raccogliere un consenso da parte degli insegnanti più motivati, da parte delle famiglie perchè si chieda che questo bellissimo lavoro entri di diritto nelle scuole. Perchè io vado in giro continuamente, e, avendo partecipato alla Costituente mi chiamano da tutte le parti per spiegare ai ragazzi cos'era la Costituente, cos'è la Costituzione, come ci siamo arrivati, ecc., e credo che senza l'apporto di quei film particolari non si può spiegare ai ragazzi i nostri tempi. I ragazzi capiscono di più nel racconto di un episodio come facevamo noi la guerra partigiana o come eravamo malridotti alla fine della guerra e come si strutturava questa modesta democrazia che abbiamo saputo conservare, forse male, malamente. I ragazzi danno importanza ai singoli episodi e senza questo non capiscono niente perchè non abbiamo la forza di fargli capire. Credo che sarebbe un vantaggio per tutti i giovani.
De Seta: La ringrazio per le cose molto belle che ha detto e credo che non siano rivolte ai valori in sè, quanto a questa istanza di rappresentarsi la vita. Perchè la nostra vita quando andiamo a scuola è proiettata sul passato. Ci mettono davanti a Dante, a Leopardi che sono il passato, che sono difficilissimi, e tanto viene elaborato il passato, o dovrebbe essere elaborato, che poi il più delle volte non si capisce perchè uno dovrebbe calarsi in quella che era la mentalità del Duecento, del Trecento per capire Dante. Io mi ricordo quanto ho sofferto a scuola perchè non capivo. E quanto poco si elabori il presente. Perchè in fondo questi documentari sono dei documenti sui reperti di un'epoca che non c'era più. Non so quanto il cinema nell'insieme serva a inventariare, a descrivere il passato. Per rispondere al signore di prima, può darsi che con In Calabria abbia sbagliato, è molto difficile fare lo speaker, però su ottantadue minuti sono dodici minuti di speaker e non mi parevano tanto invadenti. C'era una necessità di informazione, di dire che certi paesi erano albanesi. Ad un certo punto è intervenuto anche il bisogno di parlare. Però nell'insieme vorrei dire questo. Sento che anche la poesia forse è un lusso che non ci possiamo più permettere, cioè non si può andare avanti con la poesia allusiva, con questo avvicinarsi metaforico perchè siamo arrivati ad un punto che le cose bisogna gridarle forte. Rischio di ripetere sempre le stesse cose però ha ragione la signora, noi non siamo rapportati. Pensavo l'altro giorno che l'Italia dal 1896 al 1945, circa cinquant'anni, ha fatto sei guerre. C'è stata la conquista dell'Abissinia per cercare un posto al sole come se il sole mancasse in Italia. Quando in Italia nel 1959 c'era ancora un paese come Alessandria del Greto senza strada, c'erano i paesi in Sicilia con i tetti di paglia e noi siamo andati in Libia, siamo andati in Abissinia, siamo andati in Spagna, siamo andati in Albania, siamo andati in Grecia, settecentomila persone morte nella Prima Guerra Mondiale per avere l'Alto Adige, una regione di austriaci scontenti che non vogliono stare con noi perchè parlano il tedesco, e questo è costato settecentomila morti. Io dico che gli intellettuali queste cose devono cominciare a dirle. Basta con queste bugie perchè sui libri c'è l'inganno, c'è sempre scritto che l'Italia, non si sa perchè, ha fatto queste cose ma che comunque c'è stato questo eroismo dei soldati italiani. La dobbiamo piantare. Nella Repubblica di Platone o in Confucio gli artisti sono banditi. Io comincio a pensare che avessero ragione perchè siamo di fronte ad un mutamento così immenso che non stiamo metabolizzando, che non stiamo elaborando e continuiamo con quest'arte che ci porta un po' a spasso. Io penso che gli intellettuali, quelli che capiscono le cose le devono dire. Magari non hanno fatto bene il documentario, non è venuto bene ma non è questo il punto. Qui credo che bisogna decidere se gli intellettuali, quelli che hanno avuto la fortuna di studiare, devono continuare ad ingannarsi con queste storie oppure devono cambiare radicalmente e pensare che queste cose vanno semplicemente dette. Siamo convinti sempre, e lo leggiamo, ci abbiamo i libri di storia, ci abbiamo dei monumenti a questi grandi statisti che ci sono stati, del nostro giusto eroismo e della immensa intelligenza di questi statisti. Ma cosa hanno prodotto? Delle città intasate, delle macchine che possono fare 160 chilometri all'ora. E' una rovina. Tutti i centri storici sono buttati allo sfacelo. Questo è successo in trent'anni. E abbiamo avuto tutti questi grandi uomini che ci hanno illuminato. Ma dove sono? Cosa hanno fatto? Siamo colpevoli anche noi, anche la mia generazione. Forse è un po' fuori dalle righe, un po' radicale, però è quello che io sento. E' proprio un bisogno di verità e penso sempre che l'arte come avvenimento, come consolazione, come allusione è un lusso che non ci possiamo più permettere.

Io sono calabrese. Il mio impatto con la cultura del progresso l'ho avuto con un'esperienza a tredici anni. Eravamo al mare, un gruppo di amici, venne un fotografo di una grossa impresa immobiliare di Roma per fare delle fotografie che gli sarebbero servite per costruire un villaggio turistico, uno dei primi in Calabria. E mi ricordo una scena: c'era un pastorello con le pecore e questo fotografo che fotografava la zona, il pastorello che si dilettava a farsi riprendere e il fotografo che dice una cosa bella, dice "goditelo ora questo mare perchè fra un paio d'anni non te lo godi più". E si è verificato esattamente questo. Tanto è vero che sotto Soverato fino a Cariati ogni paese ci ha due o tre villaggi turistici. Però, bisogna dirlo, non voluti dai calabresi ma dalle grosse imprese immobiliari del nord. Come una nuova terra di conquista i nuovi barbari sono venuti e senza nessuna legge urbanistica hanno cominciato a costruire immensi orrori dal Tirreno allo Ionio. E ora stanno continuando con la Sila. Io l'ho visto In Calabria. Da calabrese non mi è piaciuto tanto. E sa per quale motivo? Perchè una cosa che è mancata, per me, e forse non era nelle sue intenzioni, è che non c'era nessun riferimento alla causa dell'emigrazione. Lei ha esposto bene l'effetto dell'emigrazione, ma la causa per me non l'ha evidenziata. Cioè, la riforma agraria, la famosa riforma dell'Opera Sila, che aveva costruito tutte le case dando poca terra alle persone e ai contadini che non potevano vivere senza acqua, addirittura senza luce…La gente è stata costretta ad emigrare, è stata costretta a imbattersi nel progresso. Lei ha fatto vedere le famose cattedrali nel deserto, ma della costa ha fatto vedere pochi tratti. Però non c'è stato nessun riferimento al fatto che la gente è stata costretta, il povero calabrese è stato costretto ad andarsene. Io mi ricordo una frase che, quando ci fu il famoso incidente del treno che deragliò a Isola Capo Rizzuto, l'ex presidente delle Ferrovie disse, ed era l'ex presidente della Montedison, Schimberni, che poi diventò commissario delle Ferrovie dello Stato. Disse: "Non è colpa mia se hanno progettato la linea ferroviaria per portare più velocemente la manodopera dalla Calabria al nord". Rispetto alla mancanza di collegamenti seri, il calabrese è stato costretto, è dovuto emigrare perchè questa famosa riforma agraria non ha soddisfatto le richieste dei contadini. Io lo vedo, vado poco ora in Calabria, due o tre volte all'anno, però lo vedo, è cambiata la gente. Mentre prima l'ospite era veramente riverito, ora c'è il turista. Sono d'accordo con lei, però questa mancanza…non so come dire, questo sradicamento sembra che sia stato voluto dal popolo calabrese per la conquista di qualcosa. Invece no, è stato costretto. Ecco, nel documentario In Calabria questo riferimento mi sembra che sia mancato.
De Seta: Veramente dovreste fare un censimento perchè in Italia una volta si producevano trecento film all'anno, mentre ora se ne fanno ottanta. Io vorrei contare i film che sono stati dedicati al'emigrazione, un fenomeno incredibile sia per numero, sia per sofferenze, perchè bisogna capire cosa significa stare in un paese siciliano, conoscere solo il dialetto perchè la scuola non ti ha insegnato l'italiano, non ti ha preso per com'eri, io so di tanti casi di bambini calabresi handicappati perchè conoscevano soltanto il dialetto. Allora abbiamo avuto un'infinità di commedie all'italiana, di belle infermiere in ospedali militari e quanti film sono stati dedicati, che so, al fenomeno della droga. Se facessimo una ricerca ci accorgeremmo che l'informazione è pochissima. La gente continua a rivedere Sordi, ma non ha gli strumenti per interpretare queste cose. Dobbiamo capire cos'è un ragazzo calabrese che si ammala di AIDS e non ha sostegno, non ha riferimenti, non sa vivere questa emarginazione, o che è omosessuale, o che deve emigrare. Dico, alla luce di queste cose, rivediamola un po' questa idea dell'arte.

Maria Teresa Mattei: La vita degli studenti calabresi e meridionali in una città come Pisa qual'è? E' terribile…
De Seta: Per queste cose i soldi non ci sono, ma per gli stadi di calcio ci sono sempre. Per il Giro d'Italia si trovano gli sponsor, per altre cose no. Ora dette così queste cose possono sembrare un po' moralistiche ma è così.

In Calabria sono rimaste persone che bene o male si sono adagiate al sistema, mentre le persone che potevano cambiare, erano disposte a ribellarsi ad un certo tipo di sistema sono dovute andare via. Ci sono quindi persone che hanno creato un apparato sommerso mentre è mancato un punto di riferimento politico per questa forza calabrese di ribellione che non riusciamo a tirare fuori, e oramai siamo arrivati ad una stagnazione tale che ormai è proprio così. Sembra proprio una combinazione divina. Non c'è lavoro e non c'è una piccola e media industria che produce. Io mi ricordo che quando ero studente fuori sede a Pisa gli studenti cosiddetti 'compagni' dicevano che in Calabria si stava male perchè c'era la Democrazia Cristiana. In Calabria si stava male perchè non c'era la piccola e media industria, oltre al fatto che c'era la Democrazia Cristiana. Perchè la gente è costretta ad avere un solo riferimento imprenditoriale che è in odore di mafia. E una cosa che bisogna dire della Calabria è che la Sicilia è stata fortunata rispetto ai calabresi perchè nel 1970 ha avuto l'autonomia regionale. In Calabria invece, e lei vi ha fatto riferimento nel suo documentario, la mafia è cambiata ed è diventata imprenditrice, questa è la realtà. Io mi ricordo che la famosa legge Calabria, per cui veniva dato il dieci per cento in più su ogni appalto, era per la mafia. Per la legge se l'appalto era di cento miliardi all'imprenditore che investiva in Calabria gliene davano centodieci e quel dieci per cento era per le mazzette. Di conseguenza la gente ha dovuto piegarsi alla mafia perchè c'era si la famosa 'ndrangheta però era tutto il sistema ad essere strutturato in questo modo. Tutto per merito di Andreotti, Colombo e compagnia bella.

Interviene un altro spettatore.

Mi sento costretto a parlare anch'io dopo gli interventi degli amici sul film In Calabria. Per me è stata invece una scoperta molto bella. Io non ho la televisione perciò non sapevo dell'esistenza di questo documentario, l'ho scoperto grazie alla rassegna dell'Arsenale e l'ho letto come un forte documento politico nel quale mi sono riconosciuto. Lei diceva che era un documento più etico che politico. Io credo invece che la politica richieda invece una visione etica e religiosa. In passato mi sono sempre rammaricato su come gli intellettuali meridionali del dopoguerra fino ad oggi non avessero preso una posizione di opposizione ai progetti, a questo modello di sviluppo industriale, anzi l'avevano enfatizzato e in qualche modo avevano preparato il terreno alla devastazione. Forse l'unico interprete della cultura contadina fu Rocco Scotellaro, ma morì troppo presto. Gli altri, i partiti, sia quelli di destra che quelli di sinistra vivevano nel mito della industrializzazione e su questo hanno segnato la morte del meridione. E allora io con gioia ho riconosciuto in lei invece un autore che conoscevo poco, che conoscevo solo per Diario di un maestro che avevo apprezzato all'epoca. Ora invece riconosco invece un regista che nel film è stato come un Tolstoj, se mi permette questo paragone, perchè Tolstoj è per me quello che in Russia andò incontro al popolo, cioè si immerse nella cultura contadina e ne fu l'interprete con un messaggio salvifico, e quindi in qualche modo etico e religioso. Questo io l'ho sentito in modo molto forte nel film In Calabria. Quelle parole che lei ha pronunciato mi sono sembrate appunto quelle di un profeta come un Gioacchino Da Fiore, o un Tommaso Campanella, di una terra che richiama questo senso più alto e più vero della vita. Ed è un ritorno in cui bisogna imporci di scegliere fra due situazioni contrastanti. Non è possibile volere tutte e due le cose, cioè il cosiddetto benessere delle macchine e dei consumi, e conservare l'identità culturale individuale e personale.
De Seta: La ringrazio per questo riferimento a Tolstoj perchè io negli ultimi anni non ho fatto altro che leggere e rileggere Tolstoj. Non il romanziere, il narratore ma il saggista. Ci sono delle opere bellissime di cui non si parla mai perchè poi, ripeto, in un certo senso è stato il primo scrittore a negarsi come scrittore ed è intervenuto con i saggi, intravvedendo che la funzione dello scrittore, dell'uomo di cultura, dell'intellettuale doveva essere soprattutto questa. Quindi lei ha avuto buon orecchio a riconoscerlo.

Io stamani ero all'incontro alla Facoltà di Lettere in cui lei ha parlato della sua esperienza in Guinea Bissau a fianco del movimento di liberazione e mi ha colpito una sua osservazione a proposito della sua presenza lì come cineasta e quindi come autore intenzionato a trarre da questa esperienza un'opera cinematografica, un documentario. E lei ha parlato di un certo disagio da parte sua perchè si sentiva come uno 'sciacallo' di fronte a questa realtà, come compiere un'opera di aggressione nei confronti di questa realtà, voler trarre delle immagini, voler fissare una realtà in immagini, e quindi voler quasi fare un'opera di aggressione, un furto. Allora mi sono venute in mente delle riflessioni su cose di cui recentemente mi sono occupata, cioè l'idea che la fotografia e la macchina fotografica si possano vedere come degli strumenti di aggressione nei confronti dell'oggetto che viene fotografato, un voler appropriarsi di questo oggetto e quindi della realtà. E allora ho pensato che si potrebbe vedere la macchina da presa come una macchina fotografica che opera un furto nei confronti della realtà. E volevo sapere se lei veramente nei suoi documentari, nel suo rapportarsi a queste realtà contadine, di pescatori, di pastori, quindi realtà molto, fra virgolette, 'arretrate', culture 'primitive' rispetto ai nostri canoni, se lei si è mai sentito in un rapporto di aggressione, cioè di esterno che con l'azione di girare un film compie un'intrusione in questi mondi, e se i soggetti protagonisti dei suoi film hanno percepito questa intrusione o se c'è stata sempre un'intesa.
De Seta: No, sinceramente non c'è stato. Quando noi siamo andati da Roma in Guinea eravamo tre persone, io, mia moglie ed un assistente operatore che fra l'altro è toscano e si chiama Luciano Tovoli. Ora fa il direttore della fotografia, ma allora cominciava a lavorare, aveva ventiquattr'anni, aveva appena fatto il servizio militare. Non abbiamo però portato con noi le nostre idee. Questo è successo anche per il film Banditi a Orgosolo. La sceneggiatura del film l'abbiamo elaborata con la gente del posto. Questo non ha nulla della figura dell'autore, secondo me, però fa vivere la cultura locale, permette alla cultura locale di esprimersi. Noi non abbiamo fatto mai niente su cui loro non fossero d'accordo. Fra l'altro gli interpreti, che erano tutti orgolesi anche quando facevano i carabinieri, però li facevano bene i carabinieri perchè conoscevano il loro comportamento, dovevano essere consenzienti altrimenti avrebbero recitato male, che non è neanche il termine esatto perchè in realtà venivano messi nelle condizioni di verosimiglianza assoluta, di partecipazione assoluta, ma erano anche bravi attori. Se io gli avessi chiesto delle cose che non sentivano, non sarebbero stati bravi, ma siccome gli chiedevamo soltanto le cose su cui loro erano consenzienti, su cui erano d'accordo, allora andavano bene. Questo è un caso che mi sembra interessante sul piano culturale perchè non è centralizzato, non è metropolitano, non viene da Milano, da Firenze o da Roma. Un autore va sul posto e attiva, fa precipitare una cultura locale che c'è già sul posto, che ha bisogno soltanto di questo catalizzatore che è l'autore, la macchina da presa che viene da fuori per esprimersi. Così si è dato una voce anche a loro. Infatti mi ha sempre fatto piacere il fatto che i sardi considerino questo film come quello che a tutti i livelli è più vicino a loro. In Africa forse era più delicato. Poi tutto sommato è giusto che se li facciano loro i film perchè uno che viene da fuori si sente sempre un po' colonialista, per quanto, con tutta la buona volontà, se uno fa partecipare il più possibile anche loro, può realizzare un film abbastanza vero.

Gli attori di Banditi a Orgosolo erano doppiati?
De Seta: Si, erano doppiati per diversi motivi. Primo perchè eravamo così pochi che non è stato possibile fare una presa diretta. La presa diretta l'abbiamo fatta per Diario di un maestro. Ma non c'erano neanche le attrezzature oppure erano troppo costose. Poi c'era stato il precedente de La terra trema di Visconti che però nelle sale era passato in una versione doppiata. Ancora oggi si doppiano tutti i film, non si sottotitolano. Quindi se avessimo presentato un film non doppiato non l'avrebbero preso, e se l'avessero preso nessuno lo sarebbe andato a vedere, perchè purtroppo viviamo ancora in questa cultura terribile per cui i film sono tutti doppiati. Anche quando perdono il 50% del significato. Forse poi in Italia ci sono dei doppiatori molto bravi.

I doppiatori erano sardi?
De Seta: No, il protagonista lo faceva Gian Maria Volontè che ancora non era famoso, e poi non si poteva neanche farlo doppiare a degli attori sardi perchè diventava comico. I dialetti purtroppo spesso sono motivo di comicità. Un altro doppiatore era un attore di origine jugoslava che aveva questi toni di voce non italiani perchè il sardo è una parlata non un dialetto.

Io volevo chiederle qual'è l'origine del progetto di Diario di un maestro. Poi so che lei sei anni dopo ha fatto Quando la scuola cambia. Volevo quindi sapere com'era cambiata la prospettiva sul mondo della scuola fra i due lavori.
De Seta: La scelta del progetto è stata del tutto casuale, perchè mi era capitata l'occasione di fare una proposta di film alla RAI. Io non avevo le idee molto precise e un amico mi ha consigliato questo libretto, Un anno a Pietralata. E poi anche lì praticamente non abbiamo fatto una sceneggiatura. La sceneggiatura di riferimento non l'abbiamo quasi guardata. C'erano delle linee sui temi che si sarebbero affrontati e si è lavorato in condizioni di massima estemporaneità. Nel senso che il tema era dato, però i ragazzini si esprimevano liberamente quindi portavano la loro cultura e credo che il film abbia avuto successo proprio per questo. Per prima cosa sono riuscito ad entrare in un'aula, cosa che non si può mai fare, e poi ho trovato espressa nei ragazzini una cultura popolare che purtroppo circola poco perchè le sceneggiature le fanno sempre degli autori borghesi. Questo film ha avuto molti riconoscimenti. Purtroppo non da parte di molti insegnanti che hanno detto 'ma questo è finto, è recitato'. Allora per dimostrare che non era finto ho fatto Quando la scuola cambia, cioè quattro storie di insegnanti veri che facevano questo tipo di scuola normalmente, per dimostrare che si può fare, che non era un gioco cinematografico, ma una realtà che purtroppo ancora non è molto diffusa neanche oggi sebbene questa scuola attiva abbia dei precedenti, sessanta-settanta anni di storia e volendo si può fare. Però io credo che lo Stato, la classe al potere non voglia che si faccia questa scuola perchè non vuole gente libera, capace di avere delle opinioni, dei ragazzi formati in questo senso, vuole la scuola nozionistica con cui si conculca la gente fin da bambina in modo che poi magari saranno dei buoni consumatori, dei buoni elettori, tutto meno che gente che pensa con la propria testa.

Io volevo sottolineare una cosa che aveva detto lei prima e che fra l'altro si riallaccia a ciò che stava dicendo ora, cioè il discorso sull'arte. Lei diceva che l'arte si sta allontanando dalla gente. Io volevo chiederle se secondo lei non è una cosa anche biunivoca, cioè non è un po' anche un contesto sociale, politico che favorisce questa situazione in cui gli artisti si rinchiudono in una élite, di gallerie o che altro? Per esempio, anche lei parlava del fatto che sperava ci fosse una distribuzione maggiore delle sue opere, dei documentari e che invece spesso, sebbene durassero magari solo dieci minuti, non venivano proiettati neanche per i tempi della pubblicità. E quindi mi domandavo se non fosse stato un po' troppo duro con questa sua affermazione dell'arte che si allontana dalla gente, come se l'arte e gli artisti in generale volessero coscientemente allontanarsi dalla gente. Purtroppo ci sono anche molti artisti che cercano di proporsi ma non trovano spazi, o non hanno abbastanza forza per riuscire a proporsi alla gente.
De Seta: E' sempre un discorso complesso. A me viene sempre da pensare all'ultimo secolo, l'Ottocento, quando l'arte viene considerata un fiore all'occhiello, un'eccezione, una cosa a cui si può avvicinare soltanto una élite. Poi c'è la bizzarria, l'eccentricità, la bohème, tutto un contesto di sregolatezza che dovrebbe essere proprio lontano dall'arte. Perchè se gli artisti stanno lì per interpretare i sentimenti della gente l'ultima cosa che possono fare è essere eccentrici, vestirsi, atteggiarsi in modo differente. Può sembrare un particolare, però se fanno così già vuol dire che sono lontani, che si vogliono distinguere, e questa accezione è molto diffusa. Si dice 'quello è un artista, è uno un po' fuori di testa', mentre invece dovrebbe essere tutto il contrario. Tolstoj diceva che nel Trecento l'arte ha avuto questa svolta, prima l'arte era una sola. Omero lo sentivano e lo capivano tutti. Boccaccio comincia ad essere un'arte particolare fatta per le corti, fatta per gente che aveva mangiato troppo, che doveva distrarsi. Ecco, in quel momento l'arte si è allontanata dal popolo ed hanno percorso due strade completamente separate. Perchè il popolo fino al '55 aveva le sue processioni, aveva la sua religione, anche superstizioni, però viveva in prima persona, aveva i tessuti, le brocche, l'arte popolare. E la borghesia aveva la sua poesia, i suoi poeti che il popolo non avvicinava. Ancora oggi non credo che il popolo legga Moravia, nessuno. Adesso, con la televisione, con questa scatola terribile che entra in casa, queste due cose che hanno camminato in parallelo per sette-otto secoli rischiano di ricongiungersi, però producono Pippo Baudo e Mike Bongiorno, i quiz, il calcio, questa è la follia. Allora si è dimenticato perfino il senso e la funzione dell'arte che è un momento di pathos, di commozione, di partecipazione collettiva e questo a me personalmente capita sempre più di rado di provarlo a teatro, al cinema. Da ragazzo, forse perchè ero giovane, c'erano dei film che si andava a vedere al cinema insieme, si vivevano. Poi, dopo un po' di anni, questa emozione collettiva non l'ho provata più. Allora ho l'impressione che si sia perduta perfino la nozione dell'arte, la nozione della sua funzione e si pensa che sia qualcosa di non necessario, mentre invece è la vita, non è una cosa in più, è la necessità degli uomini di rapportarsi con la realtà, di rapportarsi con gli altri, di rapportarsi con gli altri popoli. Mi pare che in tutta questa massa di prodotti ci sia poco, sono più i film che dividono che i film che uniscono. C'è perfino una moda per cui si ha paura del sentimento, e si dice 'questo è sentimentalistico, questo è moralistico' in senso dispregiativo. Ma perchè? Si diventa sempre più freddi, estranei, incapaci di gioire insieme. Le ultime grandi manifestazioni dove la gente si ritrova sono legate al calcio. Però non è una unione, c'è già un principio conflittuale, c'è una squadra contro l'altra, ci sono feriti fuori dagli stadi, non è una cosa che unisce, che accomuna. O, meglio, accomuna, ma stordisce e non è la stessa cosa. Non so se lo recepite nello stesso modo anche voi, ma io lo percepisco così.

Sono d'accordo anch'io su questo. E' difficile riuscire a imporsi in modo diverso, come dice lei, per questo bombardamento linguistico che ci circonda. Tutt'al più se si arriva ad un messaggio più intimo, personale è già più facile. Però in effetti una processione come quella che si vedeva una volta, e anche quella è arte ed ha un impatto visivo molto, molto forte, quel livello di partecipazione emotiva, collettiva non credo che sia più possibile.
De Seta: Forse prima avevo mancato di rispondere, perchè la gente e gli artisti forse ci sarebbero però non so trovare una risposta. Posso dire solo che questi documentari, adesso che sono passati quasi quarant'anni non erano mai stati divulgati. Ne era passato qualcuno abbinato ad un film, però la critica non li aveva rilevati. Questo succede. E insomma se un autore realizza dei lavori e se li vede riconosciuti dopo quarant'anni, bisogna avere una vita piuttosto lunga (risate, ndr.). Credo che questo succeda. Non a caso poi ci sono i cineclub come l'Arsenale che devono riproporre i film belli che però nelle altre sale non passano. Si sa come è la situazione della distribuzione in Italia. Le sale sono controllate e passano quasi solo i film di cassetta. Passa Rambo e magari non passa un film rumeno molto bello perchè i distributori pensano che non faccia soldi.

Quarant'anni è un periodo molto lungo, però ci sono autori il cui lavoro non viene nemmeno riconosciuto in ritardo, se non dopo morti e chissà quanti anni dopo. Comunque la mia domanda era questa. Lei ha fatto dei documentari alla fine degli anni Cinquanta. Poi negli anni Sessanta ha fatto Un uomo a metà, un film che a me piace molto, ma che però sul piano dell'impatto con il pubblico non deve essere stato così immediato. Non lo vedo come un film aperto a tutti, che tutti abbiamo la possibilità di capire se non conoscendo già Jung.
De Seta: Questo è vero. Neanch'io riesco a vederlo. Però sinceramente è stato un fatto di onestà perchè avevo fatto i documentari e Banditi a Orgosolo. Poi ho vissuto io stesso una nevrosi abbastanza grave, ho fatto analisi e ad un certo punto mi sono detto 'ma io con che diritto, da che pulpito mi metto a fare i film sociali, politici, se prima non risolvo i problemi miei?'. E allora ho fatto un film sulla mia nevrosi, che poi non è che mi abbia riportato indietro perchè poi sono tornato a fare Diario di un maestro. Ora se quella era una parentesi forse me la sarei dovuta vivere privatamente come ha detto qualche critico. Può darsi. Confesso che per me rimane un mistero questo film. Tanta gente mi ha detto 'questi sono fatti tuoi, perchè li racconti a noi?'. D'altra parte una crisi è individuale, non è che uno può raccontare una crisi collettiva. Quello che non mi è stato perdonato è questo e adesso solo a distanza di anni l'ho capito. Prima ho detto 'c'è la nevrosi', che sembra banale ma non tutta la gente è disposta ad accettarla, poi la nevrosi dell'intellettuale, peggio che andar di notte, guai ad infrangere il mito della supremazia della ragione. Noi viviamo in un contesto completamente folle per me, in quello che succede non c'è una ragione, ma vai a toccare il mito positivistico del primato della ragione! Questo lo tocchiamo con mano tutti i giorni. Noi non sappiamo niente, non sappiamo come funziona il corpo umano, non sappiamo perchè il cemento si solidifica, non sappiamo come si trasmette la luce, però viviamo in questo mito. Quindi andare a dire alle persone che forse c'è qualcosa di noi che è oscuro, che è misterioso, cosa che tocchiamo con mano tutti i giorni, guai a dirlo! A me è sembrata una operazione di sincerità e di coerenza, poi magari l'ho realizzato male. Fra l'altro ho cercato di dire, 'guardate che questa parte oscura di noi si può tentare con qualche risultato di dominarla, con la ragione, cioè di estendere la sfera della ragione', almeno a me è successo questo. Sapere che c'è questa nevrosi e rintracciarne le origini è già un conforto. Non che i problemi siano superati, però almeno…Quindi mi sembrava una operazione razionale dire 'c'è questa cosa, vediamola, esploriamola, non teniamola nascosta'. Però forse era troppo presto. Credo che questo film fosse prematuro, forse fatto troppo dal di dentro.

Anche qui però ci sono dei riferimenti politici importanti. Il fratello del protagonista è un collaborazionista…
De Seta: No, il fratello è un ufficiale dell'aviazione, non è un collaborazionista. Il fratello combatteva contro gli alleati, non contro i tedeschi. Perchè avrebbe dovuto essere un collaborazionista? Era soltanto più coinvolto del protagonista, una persona coinvolta in questa cosa incomprensibile che è la guerra. Si, ecco, forse la madre. Infatti io avevo girato anche una scena vicino a Siena, c'erano delle impiccagioni dei partigiani. L'ho girata tutta. Poi alla fine non avevo più difese e qualcuno mi ha detto, 'ma questa è in più, non c'entra'. Invece per me doveva quasi essere all'origine del suicidio del fratello. Forse ho fatto male a girarla, ma purtroppo quando si arriva alla fine non si ha più forza, non si ha più giudizio. Si, la madre era filofascista, il fratello no, era più una vittima di quel periodo storico. Invece il protagonista non riesce a sparare nemmeno con il fucile da caccia, neanche ai fagiani. Mi ricordo che in quell'epoca c'era stata la conquista della luna e io dissi, 'dal momento che ci sono degli astronauti io faccio la storia di un entronauta', però era ancora l'epoca in cui uno faceva analisi mentre era iscritto al Partito Comunista. C'è ancora adesso il pregiudizio per cui se qualcuno faceva analisi era considerato matto, tanto era forte il presupposto dell'autocontrollo da parte di tutti. Tutto il collettivo dei critici a Venezia andò in corto circuito. Poi ci furono anche le critiche positive di Moravia, Pasolini, un giurato a Venezia gli voleva dare il Leone d'oro, poi il protagonista prese il premio come migliore attore, quindi ha partecipato a parecchi festival. Non era un film da buttare, ma è stato censurato continuamente. Comunque credo che in quel momento uno che era considerato spiritualista, junghiano, idealista parte per la tangente e va a fare in borgata Diario di un maestro, in quegli anni lì fra il 1967 e il 1968, fosse considerato matto. Ecco facciamo la conta dei film che sono stati fatti su questi argomenti. Non sono tanti. Diario di un maestro poi l'ho fatto io per cui non è che questa analisi mi abbia sconvolto.

A parte che parlare di questo film in riferimento agli altri non mi sembra così incoerente, nel senso che lo spirito documentaristico c'è anche in questo film essendo, secondo me, una specie di documentario interiore, una specie di documentario dentro l'uomo invece che esterno a lui. Volevo però chiederle quanto questo film risenta dello spirito antiautoritario dell'epoca, essendo stato fatto intorno al 1968. Io ci rivedo anche certe cose di autori contemporanei come Bellocchio.
De Seta: Bellocchio non lo conosco bene. Qualcuno all'epoca mi ha accostato anche ad Antonioni, secondo me incongruamente, perchè il soggetto era anche di Tonino Guerra ed era, secondo la moda dell'epoca, piuttosto astratto. Non c'era psicologia, infatti mi ricordo la fatica che ho fatto per strutturarlo con una psicologia. Ma anche quel lavoro aveva un fine, come sempre quando una persona è in crisi, quindi mi sembrava giusto parlare di queste cose, voleva essere anche una parola di tolleranza sui rapporti, sui possessi. Perchè in fondo poi nel film ci sono due adulteri. Loro l'hanno letto, nel momento in cui si parlava di divorzio, come un film contro il divorzio. In realtà nel film ci sono due adulteri. Sono sempre le categorie a comandare, 'questo è intimistico, questo non lo è'…Bisognerebbe cominciare invece a dire se il film sta in piedi o non sta in piedi. Invece questo non succede quasi mai.

a cura di Marcello Cella


Vittorio De Seta
Intervista, 27 marzo 1996


Lei dice che un cinema che si rivolge alla gente e che lo metta anche in rapporto con lo spettatore è un tipo di rapporto che si può ottenere. Basta forse girare in modo diverso, porsi nei confronti della realtà in modo diverso. Ecco, questa strada, come diceva lei, non è stata scelta anche per problemi di potere, per problemi politici. Io però le vorrei chiedere, questa strada che invece lei ha imboccato non pensa che sia una strada personale, che sia difficile proporla come modello al cinema in generale, alla televisione, al mondo delle comunicazioni?
De Seta: Non credo. Perchè poi bisogna analizzare se c'è un pubblico che lo richiede. Quando mi hanno chiesto di fare qualcosa per la televisione non avevo nessuna idea. Poi mi dissero che c'era questo libretto, Un anno a Pietralata, sulla scuola. Non sapevo che altro proporre. Non sapevo niente sulla scuola, non avevo mai letto Don Milani, non avevo mai sentito parlare di Mario Lodi. Poi ho cominciato a leggere ed è venuto fuori che la scuola attiva, la scuola creativa non solo parte dall'interesse del bambino ed è una scuola in atto, cioè non è una scuola nozionistica in cui avviene questo trasferimento del sapere dalla testa dell'insegnante alle teste degli studenti, ma è un modello interattivo di scambio, di crescita e di produzione di cultura, non di fruizione di cultura. Allora là mi sono trovato davanti ad un bivio perchè questa era una scuola estemporanea. Noi siamo partiti avendo degli schemi, che ne so, avevamo un'idea delle scuole del quartiere anche perchè avevamo vissuto nelle vecchie case del Tiburtino Terzo, e quindi abbiamo detto 'la casa è una cosa che riguarda i ragazzi'. Poi avevamo pensato al tema del rapporto fra i sessi, che non abbiamo potuto sviluppare sia perchè non avevamo il tempo, sia perchè abbiamo avuto paura, e al tema del furto. Però non è che potevamo pensare di fare un film su una scuola attiva, su una scuola estemporanea che parte dall'interesse del bambino che non si può prevedere, facendo una sceneggiatura. E' ovvio che sarebbe stata una contraddizione tremenda. E mi sono reso conto della difficoltà. Quando l'ho raccontato a Comencini l'ho visto impallidire, pur essendo lui un esperto di bambini, perchè i bambini, i ragazzini avrebbero potuto non starci, e invece ha funzionato. Ho fatto questo giro per dire che se Diario di un maestro è venuto bene non è perchè io fossi un autore particolarmente intelligente, è soltanto che io ho capovolto i termini del discorso e decidendo di fare un film attivo, in atto, su una scuola attiva, in atto, ho fatto si che entrasse nella scuola la cultura dei ragazzini del Tiburtino Terzo. Credo sia stato l'elemento che ha fatto il successo del film. Per la prima volta i genitori sono potuti entrare in classe durante una lezione, fino allora tabù, e capire che si poteva fare una scuola diversa, una scuola interessante, che poteva dare dei frutti e che non annoiava. Ognuno poi aveva vissuto e sofferto sulla propria pelle la scuola tradizionale. Non so se mi spiego. Quello che vorrei dire è che mi sono levato di mezzo anche io come autore. Il maestro leva la predella della cattedra, che viene appoggiata alla parete e diventa una libreria, uno scaffale. E' un fatto simbolico che il maestro scenda dal proprio livello di potere, di autorità, di trasmissione del sapere e si mette al livello dei ragazzi, si coinvolge con loro, non è più lui che orienta e conduce i discorsi, non è lui il promotore, praticamente si disautora. E quindi la classe diventa un gruppo, proprio dove si vive fisicamente, dove i banchi diventano tavoli di lavoro di gruppo e il maestro diventa un collaboratore, un coordinatore dei ragazzi e insieme producono cultura. Perchè quando si parla del furto entra in classe un altro maestro che è l'ex ladro. Io credo che sia questo che ha affascinato, non il talento del signor De Seta che rimane un'espressione astratta. E' stata proprio questa scelta coerente. Così ho scoperto che si può fare un film su un argomento apparentemente noioso, perchè a scuola ci siamo un po' tutti annoiati, e tenere la gente quattro ore e mezzo a vedere questo maestro con i suoi sedici ragazzini e fare un buon documento di istruzione su quello che dovrebbe essere la scuola, e fare anche spettacolo. Se non l'avessi fatto io mi sarebbe sembrato impossibile, pazzesco. Questo è sempre per dire, prima parlavamo della funzione dell'arte…

A prescindere da questa sua esperienza con la scuola, in generale lei quanto ritiene il documentario cinema d'autore e comunque espressione di una soggettività, di uno sguardo particolare sul mondo e quanto invece è valido come documento in sè, fatto in qualche modo anche dalla gente che compare nel film?
De Seta: E' sempre lo stesso discorso. Solo che quando facevo i documentari non lo sapevo. Ho solo sentito d'istinto che dovevo abolire questa tremenda voce fuori campo. Ma perchè? Per tanti motivi. Per cominciare, secondo me, era un elemento distruttivo, ma soprattutto era il punto di vista dell'autore. Cioè è l'autore che ipoteca la verità. L'autore va nei luoghi dove gira il documentario e impone il suo punto di vista. Ecco, torniamo di nuovo alla scuola nozionistica, alla trasmissione del sapere. Mentre invece i documentari che ho fatto io credo che resistano anche a distanza di quarant'ani perchè sono interattivi, perchè il parlato, la voce fuori campo è abolita e il sonoro automaticamente entra in primo piano, e anche perchè è abolita quella musica un po' lagnosa tipica di queste cose. Quindi entra come protagonista il suono. Anche il silenzio è suono, cioè l'assenza di suono. Non so se l'avete notato nei documentari, ma ci sono degli elementi sincronici, c'è un momento veloce, poi c'è la pausa, c'è il silenzio dell'attesa e sono quasi tutti così. Poi l'autore si leva di mezzo, cioè rinuncia a questa pretesa assurda di avere un suo punto di vista che è del tutto inverosimile e anche ingiustificabile perchè che ne so io delle miniere di zolfo o dei pastori di Orgosolo? L'autore poi togliendosi di mezzo, non è che rinuncia al suo punto di vista perchè d'altra parte il documentario lo fa lui, le inquadrature le fa lui, decide lui il montaggio, fa tutto lui, però in un certo senso fa vivere la cultura di un posto. E' sempre autore ma non è impositivo, dittatoriale, è un rapporto simbiotico con la realtà che filma per cui essa ha modo di esprimersi. Quella era una cultura popolare che secondo me era importante vivere. Certo se c'è una festa sei tu quello che decide se riprendere questo o quello, quindi alla fine si parla sempre di film in atto. Parliamo sempre della stessa cosa. Ad esempio, mi ricordo che Moravia mi aveva detto: "Ho quindici giorni di tempo, ti scrivo un soggetto". Allora vado a casa sua, c'era Dacia Maraini in quel momento. Lui non so se c'era mai stato in Sardegna, però dirigeva la rivista Nuovi Argomenti che aveva pubblicato due lunghe inchieste su Orgosolo, e dopo un po' che parliamo capisco che lui non ne sapeva niente. Però era uno scrittore e si sentiva autorizzato a scrivere un soggetto. C'era anche Franco Solinas, un grandissimo sceneggiatore sardo, che però era di Sassari, e anche lui aveva scritto un soggetto, ma non andava bene. Non perchè io fossi difficile. Avevo già fatto un documentario su Orgosolo, e rimasi lì a Orgosolo un mese da solo perchè non avevo voglia di avere a che fare con uno sceneggiatore e mi sono immerso in questa realtà, e in questo seguivo il metodo zavattiniano del pedinamento della realtà. Come si diceva per la mia esperienza nella Guinea Bissau, uno deve sapere tutto e poi da questo tutto viene fuori una storia esemplare…

Questo però accadeva anche in Zola…
De Seta: Si, certo, Zola. Forse stavo inventando l'acqua calda. Fare il cinema vuol dire poi perdere un sacco di tempo. Non c'è neanche il tempo di leggere tanto. A me Zavattini mi elettrizzava perchè l'avevo conosciuto, sprizzava cinema da tutti i pori…Zavattini era generosissimo, veramente un maestro. Mi ricordo, ancora non facevo cinema, il soggetto di Umberto D. che fu proprio meraviglioso…Diciamo che c'erano dei denominatori comuni. Sono balle l'ispirazione, che uno si sveglia di notte e ci ha l'idea, ma a chi la vuole dare a bere! Bisogna solo cercare di capire la realtà, che già è un grandissimo lavoro perchè devi riassumerla, condensarla, ridurla ad una storia di un'ora e mezza.

Però i soggetti dei suoi film sono comunque sempre, ora non voglio usare un termine desueto come gli umili, però sono sempre le culture popolari, i bambini, cioè chi non è in grado di esprimere consapevolmente una propria visione della realtà. Ora che le culture popolari sono praticamente scomparse lei come pensa di continuare e come si porrebbe di fronte ad un eventuale film?
De Seta: C'è sempre una realtà. Basta guardarsi intorno. Ora c'è l'incultura popolare però qualcosa c'è. Quello che c'è uno va a indagare. Qualsiasi argomento, qualsiasi ambiente uno cerca di raccontare si deve sempre rifare alla realtà. Anche se uno deve fare, che so…dico una cosa che non mi interessa per niente, un film sui piloti della Formula Uno, deve stare lì delle ore per capire che cosa è questa realtà. E poi da tutta questa realtà deve tirare fuori degli elementi filmici, cioè deve interpretare una realtà dinamica, che si muove, deve trovare il modo di creare delle situazioni da cui viene fuori la realtà di questi corridori automobilistici.

Ma di questo suo rapporto con la realtà, personalmente ora si sente più vicino in qualche modo a questa formula di tirare fuori la realtà da un film di finzione, cioè la ritiene ancora valida e attuabile anche in futuro, oppure si sente più vicino al documentario puro?
De Seta: Beh, finzione è una parola, anche se è un termine inglese, che non indica necessariamente la falsità, però spesso mi sembra che lo diventi. Su questo, secondo me, bisogna essere molto radicali perchè per esempio, magari ora vi scandalizzo, Casablanca a me non dice proprio niente e quella è finzione perchè non ti dice proprio niente sull'atmosfera di quegli anni, 1941-1942, che cosa poteva essere questa città in Marocco, dove si intersecavano tedeschi e americani. Voglio dire, c'è il ritorno al mistero, c'è Humphrey Bogart, c'è questo amore sullo sfondo della guerra, però Humphrey Bogart truccava la roulette, si capisce ad un certo punto. Non capisco cosa possa avere in comune con la realtà tutto questo. Oggi quando si vede Casablanca non è che ci sia un arricchimento, qualcosa di reale, è solo finzione. E mettiamoci anche Hitchcock se è per questo…Ma forse non sto rispondendo alla tua domanda…

…No, no…Ma quello che volevo sapere è se lei ora personalmente si sente più vicino al documentario puro, senza nessun traliccio narrativo, oppure a questa formula di trarre dalla realtà una storia esemplare, come è avvenuto in Banditi a Orgosolo, e se lo ritiene valido anche per il futuro.
De Seta: Beh, nei documentari che ho fatto io non ci sono dei protagonisti identificabili, però un traliccio narrativo c'è, c'è sempre una storia, una storia che si svolge dalla mattina alla sera. Per realizzare un documentario come dici tu dovrebbe essere una cosa asettica, scientifica, bisognerebbe abolire la storia. Ma per quelli che ho fatto io le storie ci sono…I film di finzione dovrebbero sempre documentare qualche cosa e i documentari dovrebbero sempre raccontare qualche cosa. Questa discriminazione fra il documentario e il film di finzione mi sembra artificiosa, non necessaria. Magari ci sono film in cui ci sono storie, però che siano documentari o no per me…io ho sempre cercato di raccontare qualche cosa. Mancava un protagonista, l'eroe perchè erano dei film collettivi, c'era un pescatore, un minatore…Sono categorie in cui non mi riconosco tanto. Bisogna stare attenti perchè altrimenti restiamo ingabbiati in queste cose e quando c'è il film di finzione non c'è il documentario. Io direi che prima di tutto è una questione di cinema.

Lei è anche restio a parlare di tecnica, però in realtà i suoi collaboratori, Tovoli e altri, hanno raccontato anche di alcune invenzioni, per esempio dell'imbracatura della macchina da presa in Diario di un maestro per anticipare la situazione.
De Seta: Ma questa è una questione pratica. Io dico sempre che la tecnica è il 5% del film…

Beh, però la steadycam è stata usata per la prima volta da Kubrick ed è stato un fatto tecnico e di linguaggio fondamentale senza il quale Shining non esisterebbe. Ecco, in Diario di un maestro lei ha inventato una cosa analoga…
De Seta:…Non è importante che ci sia la steadycam. I film di Kiarostami sono fatti di quadri fissi, non c'è carrello. Cioè, prima vengono le cose da dire, poi i mezzi si adattano. Mi ricordo che in Kiarostami usavano una carrozzella da paralitico. Voglio dire, guai a capovolgere i termini della questione. Non si parte mai da questo. Questa è l'ultima cosa.

Si, ma la creatività sta anche nell'uso della tecnica. Non è banale usare una tecnica determinata anche se al servizio di una idea. Certo che non bastava. Però in Diario di un maestro per girare a misura d'uomo in un ambiente chiuso lei aveva bisogno di una certa tecnica senza la quale quel film non sarebbe stato fatto…
De Seta:…Si, certo…mi ricordo che abbiamo perso un sacco di tempo a cercare le tecniche giuste…avevamo anche pensato di mettere dei microfoni sotto i banchi, di nascondere la macchina da presa poi abbiamo capito che sarebbe stato scorretto. Alla fine la risoluzione elementare è che c'era un operatore che per una mezzoreta girava tutto con la macchina a mano e il fonico con un microfono direzionale che ha dovuto imparare a staccarsi dalle regole del film tradizionale, cioè a non registrare per forza nella direzione della macchina da presa perchè la macchina da presa magari stava da una parte e un ragazzo parlava dall'altra, e quindi a svincolarsi da questo sincronismo. Dopo aver fatto un po' di prove il problema si è risolto e ce ne siamo dimenticati, era strumentale, automatico. Non avevamo il carrello, però nessuno mi ha mai detto 'ah, bel film, ma peccato che non c'è il carrello'. Quando c'è stato bisogno di fare quella corsa all'inizio della caccia abbiamo messo un teleobiettivo, abbiamo fatto dei segni col gesso per terra in modo che corressero un po' in circolo e non andasero fuori fuoco e si è risolto.

Per Diario di un maestro ha anche scritto un'altra sceneggiatura prima del montaggio per questi problemi di sincrono…
De Seta: Per Diario di un maestro con estrema repulsione ho dovuto scrivere una sceneggiatura perchè la burocrazia della RAI la pretendeva. Falsa, cioè con scene campo-controcampo, poi l'ho messa da parte e non l'ho guardata più. Poi con Francesco Tonucci che è stato preziosissimo abbiamo disegnato e previsto questi temi, queste materie. Una volta è successo che siamo usciti e i ragazzini hanno veramente catturato una lucertola e allora la scuola e il film hanno seguito quello che era successo, non il contrario. Non è che ci siamo detti, 'adesso usciamo e prendiamo una lucertola', perchè poteva anche accadere che prendessero delle rane, dei ranocchi. Allora noi ci saremmo adeguati a quello che succedeva. Perciò la sceneggiatura in Diario di un maestro è un ibrido perchè l'80 % era questo happening che si svolgeva nella scuola e poi il quadro del 20% era il diario di quel maestro, con gli altri insegnanti che erano attori. Per quanto riguarda la storia dell'insegnante che arriva e subito si scontra con il direttore, ecco, in quel caso c'erano le scene scritte come nel cinema normale, però recitate liberamente, girate a mano, ma il testo era scritto. Naturalmente quando lo vedeva la gente non si accorgeva che una parte era estemporanea e un'altra invece era scritta perchè quando il direttore entra in aula e fa quelle domande ai ragazzi, quello era un caso ancora diverso: lui sapeva che stava recitando, mentre i ragazzi non lo sapevano. Quindi in quel caso la tecnica era mista. Era come andare in automobile con quattro o cinque marce e dover cambiare le marce a seconda delle situazioni che si presentavano. E i critici questo non l'hanno capito per niente. E' un caso particolare che è potuto avvenire solo perchè i bambini sono disposti al gioco, e in quella situazione erano disposti a giocare a fare la scuola, perchè avevano undici, dodici anni. Se ne avessero avuti sedici non sarebbero stati più al gioco. Non credo che questa tecnica sia molto ripetibile nel cinema-verità fatto dagli adulti.

Lei scrive sempre molto, poi magari la sceneggiatura non viene seguita, però esiste un diario di svariate centinaia di pagine per un progetto su san Paolo che poi non ha realizzato. Ecco, che rapporto istituisce lei con questi testi, con questo bisogno di scrivere il film?
De Seta: Non so. Quando succedeva mi sembrava, e in parte mi sembra ancora adesso, che fosse una mancanza di mestiere. In realtà un film è un racconto di cinquanta pagine ed è già troppo. Perciò prendere un libro e farne un film mi sembra già un'operazione difficilissima. Io scrivevo forse perchè elaborare voleva dire riuscire a centrare quelli che erano i momenti essenziali, filmici. Era una ricerca che poi passava sempre per tre momenti. Il cinema credo che sia anche questo, è come andare nel bosco a cercare dei serpenti con un paniere, prenderne un certo numero e spostarti. Ma mentre ti sposti alcuni escono. Allora ne prendi altri. E questo succede tre volte nel cinema. C'è il momento della sceneggiatura, quello della ripresa e quello del montaggio. C'è una strana affinità. Non si può supporre che tutto quello che hai scritto devi mettercelo per forza, anche se ci sono quelli che fanno così, e non ho mai capito come si riesca a farlo. Chi vuol fare del cinema si deve abituare a questa cosa in senso positivo, senza considerarla una perdita perchè se si scrivono delle cose, quando si va a girare ovviamente cambiano. Vedendo il girato infatti ci si accorge che certe cose hanno una valenza filmica, mentre altre no. A Hollywood ingaggiavano sempre dei grossi commediografi, se li compravano, li strapagavano e poi li mettevano lì in un angolo. Una volta con Meneghetti dovevo girare una scena di un rapporto di coppia che andava male e lui aveva scritto un lunghissimo dialogo per far capire queste cose. Quando è arrivato uno di questi praticoni venuti dalla gavetta di Hollywood si è capito che questo dialogo non funzionava perchè era troppo parlato. Questo praticone gli ha detto allora come avrebbe fatto lui. Questa coppia saliva su un ascensore. Al secondo piano saliva un altro uomo. La donna ad un certo punto guardava questo uomo ed era tutta qui la crisi della coppia, cioè veniva visualizzata con tre inquadrature che valevano più delle sedici pagine di dialogo. Questa è la concretezza del cinema, visualizzare. Quindi può darsi che uno giri sia le sedici pagine di dialogo, sia la scena dell'ascensore. Poi in proiezione si accorge che quella che funziona è la scena dell'ascensore. Certo, poi con il tempo uno ci azzecca di più, però non è detto. Non c'è nessuno che nasce imparato e non vi credete che uno che ha fatto cento film lo sappia. Non è vero. Con questo voglio dire che il lavoro didattico o anche di semplice comunicazione non è poi così importante. E' una ricerca, questa è una verità molto semplice, però è importante. Perchè sennò diventa tutto di testa. Mi ricordo che una volta ho visto un documentario molto bello su Picasso fatto da Clouzot (Il mistero Picasso, del 1956, ndr.) e veniva fuori che Picasso cercava, dipingeva dietro un vetro o una tela e uscivano quattordici versioni diverse di un quadro che magari andavano sempre bene, ma per lui no. Ricominciava il quadro fino a buttarlo via. Aveva lavorato per niente. Questo secondo me dovrebbe confortare perchè relativizza tutto. Si prova, si rischia, ci si espone, si cerca e questo è il secondo paniere. Al montaggio c'è il terzo. A quel punto uno non ha più a che fare con le idee, con la sceneggiatura, non ha più a che fare con una realtà da filmare, ha a che fare con il materiale filmico concreto e deve fare i conti con quello e non più con quello che aveva in testa prima. Cioè, quello che aveva in testa prima deve tornare ad esprimersi con quei mezzi, con quella pellicola impressionata che ognuno ha a disposizione perchè sennò si fa sempre una nostalgia, una recriminazione, 'ah, peccato!'. E poi con quello te la cavi e miracolosamente viene fuori qualcosa di interessante. Mi ricordo che quando feci Isole di fuoco mi sono messo a piangere perchè mi sembrava che non ci fosse niente. Invece alla fine grazie al montaggio anche a distanza di anni quello che avevo sentito viene fuori. Quindi questo dimostra che alla base di questo lavoro più che il pensiero c'è il sentimento. Bisogna sentire le cose e poi miracolosamente, non si sa come, alla fine quello che uno sentiva, se uno lo sentiva veramente, viene fuori. Magari con soluzioni che lui non aveva neanche immaginato.

Lei dice che la realtà non vale, cioè bisogna renderla realtà. Però deve riconoscere nello stesso tempo un ruolo molto importante anche al montaggio. I suoi sono film di montaggio. Non trova che questo fatto sia un po' in contraddizione con quello che ha detto, cioè ricomporre con il montaggio e nello stesso tempo essere il più possibile rispettosi di una realtà su cui intervenire il meno possibile?
De Seta: Beh, ma la realtà non è fatta di una sequenza temporale. Il cinema è una compressione, il cinema, la letteratura sono una compressione del tempo. Infatti è per questo che tante volte trovo che i video paghino un tributo al tempo reale. Mentre noi all'epoca eravamo costretti a fare i documentari di dieci minuti, qualsiasi soggetto o argomento doveva rientrare in dieci minuti. Dovevamo comprimere tutto in dieci minuti e per comprimere tutto in dieci minuti bisogna tagliare. In dieci minuti con un piano sequenza facevi un documentario di tre ore. Che poi magari avrebbe raccontato la realtà della pesca al pesce spada anche meglio, però poi bisognava fare i conti con la stanchezza dello spettatore, con l'esigenza della sintesi. Non ho mai sentito la necessità di un piano sequenza, non ho mai usato un dolly. Se vedete i film di Kiarostami sono semplicissimi, spesso con una inquadratura fissa, una panoramica che segue un personaggio. Io credo che tutta questa macchinosità sia stata messa su da Hollywood. L'importante è quello che si vuole raccontare, i mezzi vengono da soli. Se uno ce li ha li usa, sennò si serve di quelli che ha. Non è mai la povertà…Sappiamo tutti che Cartier Bresson aveva una normale macchina fotografica. Il macchinario rischia di sommergerti. Io penso che per cominciare conviene rimanere attaccati alla povertà.

Senta, ci può parlare anche di Un carnevale di Venezia che è stato il più sfortunato dei suoi film e non se ne sa quasi niente. Come è nato, perchè ha questo trattamento sonoro senza commento parlato, perchè a Venezia…
De Seta: E' stato l'ultimo che ho fatto prima di In Calabria e dopo Hong Kong, città di profughi. Non so perchè mi è venuto questo impulso, perchè quando sono arrivato a Venezia ho capito che non avevo l'ispirazione. Ho registrato il carnevale di Venezia e basta. Non sembra neanche un lavoro mio. Ho sentito di aver toccato il fondo. Anche in questo lavoro succede che uno si consuma un po' e a quel punto lì, secondo me, è meglio fare proprio un altra cosa. Non è che c'è un dottore che ti costringe a fare cinema anche se non hai idee, non hai l'ispirazione, non hai il sentimento…Purtroppo bisogna campare e allora fai una cosa di mestiere. Ma perchè non è un granchè, secondo voi, questo lavoro?

No, a me personalmente piace, però pensavo l'avesse girato perchè in fondo è un fenomeno popolare, anche se un fenomeno popolare sui generis, e quindi volesse continuare una ricerca sulla cultura popolare che per lei era consueta. Però mi chiedevo come era nato e come mai lei era così poco soddisfatto.
De Seta: Non sono i temi miei, che poi in gran parte sono di interesse antropologico o riguardano il fatto che la cultura popolare muore e non viene sostituita da nient'altro. Lì c'era un qualcosa perchè c'è un carnevale più raffinato e poi c'è quello della gente semplice. Però non sentivo di doverci mettere niente di mio a parte la capacità tecnica di poter riprendere quello che succedeva e uno sforzo di montaggio per metterlo insieme. Non avevo molte idee, probabilmente.

Ha anche parlato di problemi con i produttori sopravvenuti nello stesso periodo de Il carnevale di Venezia.
De Seta: Più che problemi con i produttori c'erano problemi con la RAI, i distributori…Poi produzione o distribuzione è sempre un condizionamento. Se tornassi indietro mi piacerebbe tornare alle origini, avere i soldi io per fare liberamente quello che voglio senza dover rendere conto a nessuno, tornare ad uno stato di libertà assoluta perchè sennò è quasi un'autocensura e ti sembra di dover rispondere di questi soldi. Quindi uno automaticamente viene condizionato e poi alla fine fai delle scelte sbagliate perchè sai di dover rispondere di questi soldi, che il film deve incassare…Poi magari questo non è capitato a me…Diario di un maestro è stato prodotto dalla RAI ma non mi sono fatto condizionare, anche nell'interesse della RAI fra l'altro perchè è stato un buon successo. Però è un fatto psicologico, di testa. Purtroppo il cinema fra pellicola, sviluppo, e stampa costa molto e allora cedi al condizionamento. Poi c'è il condizionamento del tempo perchè magari una volta i documentari dovevano durare dieci minuti, poi dovevi fare un lavoro di un'ora-un'ora e mezza. Non si può mai fare come uno scrittore o un pittore che sceglie lui la dimensione, cioè prima lo fa e poi sa se la cosa piace o no alla gente. Immaginate se avessero chiesto a Tolstoj un preventivo su Guerra e pace. Che ne sapeva lui? Ha cominciato ed ha scritto per quattro anni di seguito. Come faceva a dire quanto sarebbe stato lungo, quanto sarebbe costato, quanto ci voleva a metterlo in scena? Purtroppo questo è il cinema e siccome costa è un ibrido come quelle figure mitologiche che hanno il busto da uomo e le zampe di capra, perchè le esigenze commerciali, industriali ti scombussolano. Purtroppo non c'è la libertà che c'è in altri campi artistici. Se uno scrittore non è convinto di una cosa la tira fuori anni dopo, dieci anni dopo, o non la tira fuori per niente. Invece quello che noi facciamo deve essere venduto. Questo è un condizionamento forte che spiega poi la nascita e lo sviluppo di tutti i vari generi cinematografici, come la commedia all'italiana, per esempio, perchè i produttori cercano sempre di rifare quello che ha avuto successo.

Io avevo una curiosità sul sonoro. Lei di solito è restio a inserire nei suoi documentari fonti sonore esterne. Mentre invece in In Calabria c'è questa voce fuori campo che commenta e che è molto presente. Volevo chiederle se forse era una scelta dettata dal fatto di voler porre in maniera forte e chiara il problema di questa cultura popolare che va scomparendo.
De Seta: Se lo dovessi rifare non credo che lo migliorerei di molto. Io ho cominciato ad usare la voce fuori campo in Quando la scuola cambia e in La Sicilia rivisitata, ma perchè? Questa è una scella mia di fondo perchè per me è molto importante prima di tutto essere chiari. Allora è meglio compromettere il risultato artistico che non quello della chiarezza e quindi qui per esempio c'è un nesso con l'idea del saggio cinematografico perchè mi sembra che fra l'inchiesta televisiva, immediata, selvaggia ed il film di finzione che ci vuole due anni per farlo ci sia una via di mezzo e potrebbe essere quella del documentario. Probabilmente poi entrano anche altri fattori perchè i miei primi documentari secondo me si dovevano fare così perchè era sottinteso quasi un sentimento di rassegnazione, di nostalgia per questo mondo che scompariva. Almeno io lo sentivo così e quindi c'era la consapevolezza della rassegnazione e della nostalgia per ciò che scompariva, si dava per scontato. Poi, dopo quarant'anni, quando ho fatto In Calabria non ero più convinto di questa cosa, perchè andando avanti, se negli anni Cinquanta pensavo che il prezzo del progresso dovesse essere la morte di questa cultura, dopo quarant'anni mi si è sfaldata fra le mani l'idea del progresso stesso e allora mi ci voleva la parola per dirlo. Credo che non ci ho azzeccato perchè ho capito dopo, chissà la prossima volta, che siccome la parola diventa un mezzo espressivo come un altro, e il cinema è estremamente composito espressivamente perchè ci sono anche l'inquadratura, il colore, il suono, allora credo che la parola dovrebbe diventare una componente poetica quanto le altre. E invece noi ne facciamo sempre un qualcosa di pensato. Non ho avuto il coraggio di inserirla più poeticamente invece di farla dire da una voce canonica come quella di Cucciolla. Forse era meglio che la dicessi io o una collaboratrice del film, però anche lì si va a cozzare contro la resistenza inconscia dei fonici degli stabilimenti che ti dicono che la voce tua non va bene. Mi ricordo che fin dall'inizio io dicevo allo speaker, a Cucciolla, "perchè non parli come con tua moglie?". Poi vedendo i vecchi documentari di Lizzani mi sono accorto che sono tremendi proprio perchè c'è 'la voce della vittoria', c'era uno speaker con una voce come Mussolini, con quel fraseggio, mussoliniano appunto, che ancora sopravvive.

Perchè Banditi a Orgosolo è doppiato mentre invece La Terra trema è in siciliano. Perchè ha scelto di far parlare i suoi pastori in italiano?
De Seta: Intanto La terra trema, quel poco che ne è uscito nei cinema è uscito doppiato…

…però gira anche una versione con i sottotitoli, perchè io doppiato non l'ho mai visto…
De Seta:…Ma mica a Canale 5…Ora credo che doppieranno anche un film di Kiarostami. E in questo siamo all'assurdo, si torna indietro, siamo proprio uno dei paesi peggiori, dove si doppia tutto. La terra trema nel 1948 è costato centoventi milioni e per farlo con il suono in diretta ci voleva dietro il camion con la pellicola negativa che veniva incisa in sincrono con le immagini. Quello era il sincrono allora. Io sui monti di Banditi a Orgosolo come facevo a portarmi dietro tutti questi macchinari? A parte il fatto poi che i pastori non è che erano degli attori professionisti e quindi ogni volta che parlavano dicevano un'altra cosa, cioè aggiungevano, levavano. Poi c'era il problema del fonico. La cosa richiedeva una resa tecnica troppo forte che poi avrebbe compromesso per altri versi il risultato finale. E poi non sarebbe uscito comunque nei cinema, non escono ancora adesso nei cinema i film sottotitolati. Cominciano adesso con qualche film americano in televisione alla notte. E siamo nel 1996. Nel 1961 come si faceva? Il cinema si fa se rientrano i soldi. In questo caso non sarebbero rientrati i soldi, sarebbe stato un atto di eroismo. Ma perchè, vi dà molto fastidio?

No, no, anzi, era per il problema dell'accento sardo…
De Seta: L'accento lievemente sardo non andava bene perchè fa ridere, no? E' diventato una cosa buffa. Nei varietà quando vogliono far ridere fanno i siciliani o i sardi. Addirittura il protagonista è stato doppiato da Gian Maria Volontè che ancora non era conosciuto e molte altre parti le ha fatte un attore di origine jugoslava perchè aveva un qualcosa che andava bene nella voce. Il bambino invece l'ha fatto un'attrice, come anche il ragazzino. Ci siamo arrangiati così, dato che ero al mio primo film senza aver mai fatto un doppiaggio.

a cura di Marcello Cella