domenica 28 aprile 2019


Intervista a

Paolo e Vittorio Taviani

Roma, 1993


Questa intervista è stata realizzata nella primavera del 1993 dal sottoscritto, Marcello Cella, e Simonetta Della Croce nella casa romana di Paolo Taviani. Avrebbe dovuto essere parte di una pubblicazione che non venne mai realizzata. Quindi, a parte qualche stralcio, si tratta di un documento inedito che ho il grande piacere di proporre al lettore anche per ricordare la figura di Vittorio Taviani, morto l'anno scorso. E' il ricordo di una grande lezione di cinema, di cultura, di storia, di vita che fece scorrere il tempo lento di quella giornata, mentre la luce calda del sole avvolgeva i palazzi di Roma, come se fossimo tutti personaggi di una favola. O di un film dei fratelli Taviani.


Come avete scoperto il cinema?
Paolo: L'abbiamo raccontato altre volte perchè è stato un avvenimento per la nostra esistenza ed è avvenuto così. E' avvenuto a Pisa in un cinema che all'epoca si chiamava Cinema Italia, nel dopoguerra. Noi avevamo vissuto l'esperienza della guerra da ragazzi, quella storia che abbiamo cercato un po' di raccontare ne La notte di San Lorenzo, eravamo ragazzi e per noi è stato un momento terribile, ma anche grandioso, perchè abbiamo visto un mondo che sembrava immobile ed eterno, cioè il fascismo, che invece si è trasformato nel suo contrario grazie alla lotta degli uomini che hanno preso in mano il proprio destino ed hanno rovesciato quella situazione. Comunque il cinema noi lo scoprimmo al cinema Italia vedendo un film di Rossellini che si chiama Paisà. Noi avevamo vissuto l'esperienza della guerra in Toscana, cioè il passaggio del fronte a San Miniato che è la nostra città in provincia di Pisa. E' stata un'esperienza fondamentale per la nostra vita perchè abbiamo visto una realtà che sembrava eterna, cioè la realtà del fascismo, che si era modificata nel suo contrario, e uomini che hanno preso in pugno il proprio destino, che sembrava ineluttabile, e hanno rovesciato la realtà storica, con la lotta, la Resistenza ecc.. E questo ci ha dato molta forza anche per il resto della nostra vita perchè abbiamo visto che si può lottare e si può anche vincere, da qui il nostro inguaribile ottimismo, anche se in questa epoca diventa sempre più sotterraneo. Bene, entriamo in questo cinema a Pisa per vedere il film, noi eravamo ragazzi, facevamo il liceo, e sullo schermo vediamo quella realtà della guerra che avevamo vissuto pochi anni prima, riproposta da Rossellini. Credevamo di aver capito cos'era la guerra, ma, vedendola sullo schermo, capimmo molto di più, grazie all'arte di Rossellini, quello che avevamo vissuto. Fu uno choc perchè, ci dicemmo, se il cinema ha questo potere enorme di poter rivelare a te stesso una tua propria verità questa è un'arma straordinaria, è il raggiungimento del secolo. Allora ci dicemmo 'noi faremo il cinema'. Devo far presente che in quel cinema Italia eravamo in cinque. Prima di entrare uscivano quelle poche persone e ci dicevano 'non entrate perchè è un film orrendo, una cosa noiosa', ed eravamo solo in cinque a vedere quel film, perchè c'è tutta una mitologia, lo vorrei dire ai giovani d'oggi, quando si parla degli anni d'oro del cinema italiano del Neorealismo, per cui si pensa che fiumane di popolo andassero a vedere questo grande cinema che ha cambiato il modo di fare cinema in tutte le parti del mondo e invece era un cinema che, a causa della situazione politica che vivevamo e anche del cattivo cinema che imperava allora, veniva disertato dal pubblico, da tutti. Ci sentivamo degli eroi ad amare il cinema di Visconti, di Rossellini e in questo senso trovammo dei complici in questo amore nel cineclub di Pisa, in Mario Benvenuti, ma questa è un'altra storia.

Come siete arrivati al cineclub?
Vittorio: E' stato un incontro molto fortunato. Mi sembra che, non vorrei essere impreciso, cominciammo a scrivere qualcosa di cinema sui giornali, mi sembra La Nazione, e qualcuno, quando lesse quei pezzi di cinema firmati da questi Taviani (io ero all'università mentre Paolo faceva ancora il liceo) che erano arrivati dalla provincia e che erano un po' sconosciuti a Pisa, si chiese, 'chi sono questi due?'. E un giorno arriva un signore giovane, molto simpatico, che ci aveva visto andare al cineclub e ci dice, "ma perchè voi che amate il cinema, che scrivete di cinema non ci date una mano?". Per noi veramente è stato il massimo. Arrivare da San Miniato ed essere immessi nell'unica attività culturale possibile a Pisa in quell'epoca che era il cineclub, perchè nel cineclub è vero che il grande pubblico, che era abituato ad un certo cinema brutto durante il fascismo e poi commerciale nel dopoguerra, non andava a vedere il buon cinema italiano, però c'era veramente una parte di gente che, grazie ai cineclub e ad attività di questo tipo, invece seguiva e aveva bisogno di questo cinema. Allora noi accettammo con grande entusiasmo. Per noi però Mario Benvenuti era anche un'altra cosa e perciò era anche più importante. Lui ci mise tutto a disposizione, però noi, devo confessare, non eravamo molto bravi come organizzatori, mentre invece Mario, oltre ad essere un uomo di grande cultura cinematografica, era anche un bravissimo organizzatore e fece l'errore di affidare a noi due, a questi due sconsiderati, questa macchina organizzativa. Ricordo soltanto un episodio che forse anche Mario si ricorda ancora. Nelle varie attività che si svolgevano nel cineclub c'era una certa amministrazione da controllare e che noi controllavamo con molta buona volontà, ma anche con molta incapacità. Un giorno mancava un documento importante, non ricordo cosa fosse, e lo cercammo insieme a Mario che ne aveva bisogno perchè lui era il presidente del cineclub. Cercammo nell'ufficio e non lo trovammo. Allora Mario dice: "vengo a casa vostra e vediamo se lo avete lasciato a casa". Venne a casa nostra, nella nostra stanza, e cominciammo a rovistare disperatamente in tutti i mobili e a cercare questo documento che non si trovava. Ad un certo punto, nella disperazione, nel cercare un po' qui e un po' là io cosa faccio? Alzo un quadro per vedere se, per caso, il documento fosse lì sotto. Mario a questo punto disse: "Basta! Se tu vai a cercare i documenti sotto i quadri vuol dire che sarai anche un bravissimo uomo che ama il cinema, ma certo che come amministrazione mi sembra che ci siamo proprio messi nei guai". Comunque continuammo questa attività, però per noi Mario Benvenuti era anche un'altra cosa che poi ha inciso nella nostra vita. Cioè, non solo Mario Benvenuti era il presidente di questo cineclub per noi così importante, ma era il produttore. A noi ci avevano detto che a Pisa c'era una casa di produzione, cosa che aveva addirittura dell'incredibile perchè per noi il cinema era a Roma. Invece ci dissero che c'erano due produttori, anzi mi ricordo anche il nome della ditta, Benvenuti-Mancianti. Quindi io e Paolo ci dicemmo, bisogna avvicinarci a questi produttori perchè ci hanno soldi, fanno i film, quindi bisogna entrare in tutte le maniere nelle loro grazie. Allora ad un certo punto noi ci presentammo anche sotto questa veste e dicemmo, "voi siete i produttori, cosa potete fare?", e loro, "ma quali produttori? Ma quali soldi? Noi con le nostre mani, con la nostra fatica, creiamo delle piccole cose cinematografiche, ma soltanto con tanta buona volontà". Ma fu quella buona volontà che permise anche a noi di entrare in contatto con la macchina da presa, macchina da presa che per noi era un miraggio.

Paolo: Noi decidemmo che volevamo fare il cinema, però come non si riusciva a capirlo, visto che il cinema era a Roma. C'erano questi grandi 'Selznick' di Pisa che però evidentemente non rendevano e non ci davano questa possibilità. E mi ricordo che ci dicemmo, 'bisogna comprarci una macchina da presa'. Noi non ci intendevamo di niente, però avevamo sentito dire che un ottico che si chiamava Scarlatti, aveva una piccola macchina da presa. Allora rubammo i soldi in casa, ne facemmo di tutti i colori finchè trovammo i soldi per andare a comprare questa macchina da presa. Questo signore allora ce la fece vedere, era una scatoletta nera, e lui ci disse: "ma la sapete usare, vero?", e noi "si, certo, per carità, la sappiamo usare benissimo". Non la guardammo nemmeno, prendemmo questa cosa, pagammo e andammo a casa. Cominciammo a pensare di lavorare con questa macchina da presa, ma non riuscivamo a trovare l'oculare dove si doveva mettere l'occhio. La smontammo, la facemmo vedere, non mi ricordo se a Mario Benvenuti, comunque a qualcuno che se ne intendeva, e ci disse, "ragazzi, ma che avete comprato? Questa qui è una di quelle macchine da presa che gli aerei americani tenevano sotto le ali quando mitragliavano, cieche quindi, per fotografare l'operazione di guerra, ma non è una vera macchina da presa per fare il cinema". Bisognava girare andando a occhio senza l'oculare. Quindi mettemmo da parte anche questa macchina da presa e cominciammo a cercare i soldi per fare il cinema.

Vittorio: Prima però con Mario, che era veramente il nostro nume tutelare, facemmo una cosa con la Camera del lavoro quando andammo a riprendere i famosi scioperi a rovescio. Allora, mi ricordo, c'erano dei movimenti popolari, e anche questo va molto ricordato ai giovani, cioè il fatto che il grande cinema italiano e coloro che lo hanno amato, che sono vissuti intorno al cinema italiano, praticamente erano molto legati anche alla forza delle nuove classi che erano emerse, le classi popolari, le classi contadine, le nuove formazioni della sinistra, per cui il Neorealismo era anche in fondo la scoperta di quella grande area socialista, comunista, delle grandi masse popolari. E in quegli anni è stato un tutt'uno, da una parte il Neorealismo, che come fatto di cultura per noi era fondamentale, ma che non per caso si inseriva in un grande movimento di massa. Allora proprio la Camera del Lavoro di Pisa aveva organizzato degli scioperi che si chiamavano scioperi a rovescio. Significava non che gli operai scioperassero, ma che addirittura gli operai licenziati andavano a lavorare gratis per fare strade che invece non venivano fatte, ecc., insomma tutte quelle cose di pubblica utilità che le istituzioni ignoravano e si chiamavano perciò scioperi a rovescio. Bisognava andarli a filmare. Quindi per la prima volta andammo tutti su un camioncino, con Mario e altri, e finalmente con la macchina da presa, questa volta con l'oculare. Mi ricordo che a Pomarance e in altri luoghi fu molto bello l'incontro con la macchina da presa che riprendeva questi personaggi proprio come nel Neorealismo. Cercavamo di filmare la vita, che non era solo quella di questi operai che stavano costruendo una strada di cui c'era bisogno, ma che invece i comuni non facevano. Mi ricordo che entrammo anche in una fabbrica di fiammiferi dove c'erano dei licenziamenti. In realtà non ci fecero entrare, c'era la polizia e finimmo quasi tutti in questura perchè i padroni si accorsero della presenza di quella macchina da presa, che a loro non andava bene, e ci fermarono. Allora riprendemmo questa scena e all'epoca mi sembrava davvero di fare del gran cinema. C'è anche una scena drammatica in cui ci sono delle persone che vogliono andare a fare una certa cosa e c'è invece la polizia che glielo impedisce. Forse è la scena d'azione, di cinema poliziesco più bella che abbiamo fatto nella nostra vita.

Paolo: Un momento, non ti ricordi un particolare. Quando venne la polizia per mandarci via e impedirci di girare, Mario Benvenuti, che faceva il direttore della fotografia e che fece una stupenda fotografia, in parte riprese questa cosa, e, noi pensavamo, anche il momento più cruciale in cui i carabinieri ci spingevano via e io, lui e Valentino Orsini, che era il nostro amico e coregista, sapendo che lui ci riprendeva, facevamo gli attori, cioè resistevamo, protestavamo. Alla fine poi, quando tutto finì, andammo da Mario e gli dicemmo, "hai ripreso?", e lui "si, si". Poi, quando andammo in proiezione, ci accorgemmo che l'emozione sua era stata così forte che quel momento della nostra grande recitazione di guerrieri senza macchia e senza paura era tutto sfocato. Mi ricordo che lui stava per piangere, perchè disse, "ma proprio quella! Porcaccia...". Devo dire però che c'erano anche delle cose che erano state riprese molto bene, ma quel momento lì che oggi mi divertirei a vedere, perchè è la prima scena da attore che noi abbiamo fatto, non c'è. E non credo che ci sia nemmeno più quella copia, perchè so che Benvenuti l'ha cercata e non si è più trovata.

Vittorio: Beh, da allora, per essere brevi, cominciavamo veramente ad avere un certo rapporto con il cinema e la macchina da presa. Noi siamo di origine borghese, nostro padre era avvocato, antifascista, dobbiamo molto a lui, anzi, per quel che siamo, però pensava che noi avremmo continuato la sua strada e infatti all'università abbiamo fatto un po' legge, un po' lettere, ecc., però sentivamo veramente che la scelta, anche se in quei tempi pensare di andare a Roma era una cosa difficile, sarebbe stata questa. Ora è facile pensarla, ma a quei tempi no, nella borghesia no. Vi racconterò un piccolo aneddoto. Quando ci decidemmo ad andare a Roma veramente come eroi balzacchiani, con la valigetta alla conquista di Roma, allora a San Miniato, nella nostra cittadina, c'era un parroco che andava in giro e diceva, "povero avvocato Taviani, una persona così in gamba, una persona onesta, per bene e i figlioli, che delusione! Sono andati a Roma a lavorare al suono del can can". Al suono del can can! Per lui il cinema era andare a lavorare al suono del can can. Vabbè. Noi comunque cominciammo a fare dei documentari, a scrivere delle sceneggiature...

Paolo: Intanto noi a Pisa avevamo conosciuto Valentino Orsini, che era regista anche lui e con cui abbiamo anche stretto un sodalizio che ci ha accompagnato per più di un decennio, e insieme a lui decidemmo di fare un documentario che è San Miniato, luglio '44. Cioè, appena abbiamo avuto la macchina da presa in mano e il denaro, che trovammo grazie al Comune di San Miniato e alla Provincia di Pisa, la prima cosa che noi pensammo fu quella di far parlare di quell'eccidio nazista avvenuto nella cattedrale del nostro paese, che poi appunto sarà l'argomento de La notte di San Lorenzo. Devo dire anche che purtroppo i documentari all'epoca erano legati a una legge imbecille per cui non potevano durare più di dieci minuti, in quanto venivano abbinati ai film e non potevano superare i duecentosettanta metri di pellicola. Noi, che non siamo documentaristi ma registi di finzione, di spettacolo, era una sofferenza enorme dover comprimere in dieci minuti delle storie, e fu così anche per questa storia. Tanto è vero che erano sempre voglie di film e quindi dei documentari sbagliati, ma questo forse venne un po' meglio grazie anche a Zavattini. Perchè, non conoscendo Zavattini, noi decidemmo di andare a Roma a chiedergli consiglio. Partimmo, ricordo, alle quattro e venti di mattina con il diretto per Roma, arrivammo a Roma, scendemmo, andammo a casa di Zavattini in via Sant'Angelo Americi, sapevamo tutto, dove stava ecc., e suonammo il campanello alle nove, nove e mezzo della mattina. Zavattini aprì la porta e noi gli dicemmo, "noi siamo dei giovani che vorrebbero fare del cinema e vorremmo parlare con lei". Lui disse, "ragazzi, potevate almeno telefonare..."

Vittorio:"...o almeno arrivare un'ora dopo..."

Paolo:"...vabbè che sono mattiniero e che soffro d'insonnia, però...". E allora ci introdusse in casa sua. Era un uomo generosissimo, apertissimo, e capì immediatamente tutto. Allora ci disse, "che cosa volete fare?". E noi allora cominciammo a raccontare questo film di tre ore. E lui, dopo un po' che ci ascoltava ci disse, "ma quanto dura questo documentario?". E noi, "dieci minuti". "Allora voi avete parlato per tre ore...Adesso prima lezione. Anche per un film se vale la pena di essere raccontato, e tanto più un documentario, voi ora me lo dovete raccontare in tre parole". Difficilissimo. Noi ne usammo cinque, forse sette, però già da allora questo insegnamento è sempre stato presente in noi. Noi ogni tanto ci diciamo, 'ma, in cinque, sette parole, riusciamo a raccontare questa storia?'. Perchè allora vuol dire che c'è veramente un nucleo fondamentale che chiede di vivere perchè è capace di vivere da solo, è autonomo. Quindi questa è una vera lezione di cinema. E lui poi ci diceva, "questo l'ho imparato da Michelangelo, perchè l'arte del levare è l'arte più grande, non quella del mettere". Vabbè. Zavattini ci diede una mano, ci disse come più o meno avrebbe strutturato il film e noi ripartimmo e andammo a girare questo nostro documentario che fu realizzato e venne anche abbastanza bene, venne presentato a Pisa, e al festival di Pisa vinse anche un premio, però fu bocciato in censura per ragioni di ordine pubblico, in quanto quel documentario poteva creare dei disordini perchè parlava di fascisti, di antifascismo, di tedeschi, allora era soprattutto l'epoca della CED, e quindi era l'epoca terribile della guerra fredda e non si potevano toccare certi argomenti. Quindi il documentario fu bocciato in censura e quella copia che noi stampammo, forse erano due, andò in giro per i cineclub e si è dissolta nel nulla. Il negativo è andato perduto, quindi resta solo un bellissimo ricordo.

Vittorio: Quindi, fatto il primo documentario serio, ancora una volta con l'intervento di Mario Benvenuti e degli amici di Pisa che riuscirono a darci la possibilità di farlo, con Valentino Orsini, a quel punto facemmo altri documentari in Toscana, chiedendo soldi alle famiglie, ai parenti, agli amici, creando veramente dei momenti difficili perchè per produrli chiedevamo i soldi con la promessa di restituirli, e ce li davano con molta fiducia, ma i documentari venivano sempre bocciati per cui è successo qualche volta che qualche amicizia si è anche un po' offuscata. Noi poi abbiamo ripagato un po' tutti, però insomma è nata così. Era difficile, ma penso che sia sempre difficile cominciare una strada. Intanto, fatti questi documentari, a un certo punto diciamo, 'basta, Pisa ci ha dato tutto, ma addio Mario, addio Pisa, grazie per quello che ci avete dato, siete nel nostro cuore, ma bisogna che vi lasciamo'. Prendemmo il treno e venimmo a Roma. A Roma continuavamo a fare questi documentari che, come diceva Paolo, sono voglie di film e quindi noi non li amiamo molto, però i più brutti che abbiamo fatto, perchè ad un certo punto ci rendemmo conto e dicemmo, 'beh, facciamoli come li fanno un po' tutti', invece vinsero tutti i premi, premi che erano in soldi. A quei tempi mi sembra che si andasse sui venti milioni per tre documentari che a quei tempi erano la possibilità di un inizio di produzione. E cosa successe? Questo è molto importante dirlo. Questi documentari che, ripetiamo, non erano belli perchè sentiamo di non essere dei grandi documentaristi, ci permisero però di andare in giro per l'Italia, in particolare nel sud, in Sicilia, dove facemmo anche alcuni documentari per i sindacati, quindi conoscemmo un po' la Sicilia. Il cinema era uno strumento per entrare in contatto con delle realtà che allora, oggi è diverso, veramente erano lontane, in particolare poi per dei borghesi come eravamo noi, ma comunque un po' per tutti. Veramente le distanze esistevano, non c'erano dei grandi mezzi di comunicazione ed entrare in contatto con tutto un mondo significava veramente avere il polso della situazione del nostro paese e scoprire il bisogno di raccontare le storie che andavamo scoprendo. La storia che scoprimmo è la storia di Salvatore Carnevale, in Sicilia, dove noi andammo, per via di questi documentari, a intervistare la madre, andammo nel paese dove si parlava di questo morto ammazzato che veniva ricordato quasi come Cristo, essendo stato ammazzato quasi come lui, e in ogni storia dove c'è Cristo c'è sempre anche un Giuda, quindi ci indicarono anche chi poteva essere, chi lo avevo tradito, ecc.. Insomma scoprimmo una realtà che arrivava dalla Sicilia molto forte e quando con i nostri documentari fatti nel frattempo, che erano i più brutti, guadagnammo questi venti milioni, dicemmo, 'possiamo fare il film'. Devo dire, questo è un fatto personale e lo vorrei ricordare anche ai giovani, che noi eravamo partiti dalla Toscana per fare i film, ma quando arrivò il momento di dire, 'da domani pensiamo come fare questo lungometraggio', fu come uno choc, una scoperta, come se ci sentissimo impreparati di una cosa che invece era alla base della nostra partenza. Ma, una volta fatto il salto, ci buttammo e facemmo questo film, Un uomo da bruciare, con Valentino Orsini, sulla storia di Salvatore Carnevale. Tornammo in Sicilia, con molte difficoltà e molte fatiche perchè, per esempio, ad un certo punto dovemmo andare dalle banche, e bisognava andare alla banca per ottenere dei finanziamenti, dal momento che riuscivamo ad avere anche un noleggio e un noleggio significava avere trenta milioni di cambiali che poi andavano scontate. Noi, un po' ignoranti, andammo alla Banca del Lavoro, che era quella addetta al cinema, e qui diciamo, "abbiamo trenta milioni della Cino Del Duca", che allora era una buona distribuzione, "poi abbiamo un po' di soldi nostri e quindi possiamo...". Questo signore ci guarda, eravamo noi tre, e ci dice, "scusi, lei quanto alza?". Noi lo guardiamo, "come, quanto alza?". E lui di nuovo a Paolo, "e lei invece quanto alza?". E io, "se lei non ci spiega cosa dobbiamo alzare...". E lui, "no, voglio dire, lei quanti soldi alza di suo per poter garantire?". E io, "io purtroppo non alzo proprio niente". E allora non ce lo vollero scontare. Quindi il film, che nel frattempo era anche cominciato, entrò in crisi, si fermò, e fu un'estate terribile. A parte io e Paolo, anche il fatto di essere con Valentino ci dette forza, noi non volevamo assolutamente demordere e nella nostra disperata ricerca di qualcosa o di qualcuno che ci permettesse di continuare a fare il film avemmo una fortuna, perchè se nella vita c'è la sfortuna ricordatevi che c'è anche il momento della fortuna, bisogna cercarla e continuare a cercarla, e questa fu l'incontro con Giuliani De Negri, che era un produttore che aveva già fatto i film di Lizzani, ecc., era abbastanza solido, ma sempre un produttore indipendente, che vide il materiale, vide la nostra sceneggiatura e disse, "mi interessa questo cinema che fate voi perchè è il cinema che voglio fare anch'io, cioè un cinema che non si pone problemi di carattere economico o mercantile ma che vuole dire anche alcune cose". E con Giuliani facemmo il film, facemmo Un uomo da bruciare che andò al festival di Venezia e da quel momento la nostra vita, pur sempre molto difficile, ha cominciato a produrre qualcosa.

Con Un uomo da bruciare cominciano una serie di temi che torneranno spesso nel vostro cinema, almeno in quello degli anni Sessanta. Per esempio, il primo che salta all'occhio è il rapporto conflittuale fra singolo e collettività...

Paolo: Si, anche se, quando sento dire che i temi ritornano, mi sembra che i nostri film diventino una grande ripetizione di due o tre cose. Perchè quando si fa un film lo si fa perchè si pensa di dire qualcosa di assolutamente nuovo per noi e per gli altri, ed è una molla fondamentale perchè altrimenti un film non lo si può fare. Poi, vedendo negli anni i film tutti in fila e ripensandoci, perchè noi non li rivediamo mai, ma almeno ripensandoci, ci accorgiamo che è vero che la molla era questo desiderio di novità, ma che poi alla fine sono tanti capitoli di un'unica storia in cui è chiaro che tornano i vari temi. Come questo che tu dicevi del rapporto dell'individuo nei confronti della collettività, la lotta dell'uomo contro o per gli altri. Devo dire che in particolare per Un uomo da bruciare a noi interessava riscoprire, in un momento in cui il Neorealismo stava finendo e diventava un bozzetto piccolo borghese, in cui le ideologie erano molto violente e molto radicali, molto manichee, e recuperare la potenza e i limiti di un individuo nei confronti della società era una cosa che sentivamo profondamente. Tanto è vero che prendemmo questo personaggio, che è un sindacalista che lotta contro la mafia e si fa anche uccidere, ma è anche un uomo pieno di difetti. E' un uomo, noi dicevamo, che è bravo, è grande in questo caso, non malgrado i suoi difetti, ma anche grazie ai suoi difetti. E perchè? Noi dicevamo che questo individuo era un po' mitomane, ma parlare di un sindacalista mitomane all'epoca per la sinistra era una cosa molto poco amata, perchè quelli dominanti erano un po' gli schemi che venivano dall'Unione Sovietica dell'eroe popolare che doveva essere buono, generoso. Invece noi, andando a fondo nella verità del personaggio che avevamo studiato, ma anche al fondo della verità nostra, ci rendevamo conto che eravamo uomini con tutti i nostri difetti e debolezze. Allora prendemmo in mano ed elaborammo questo personaggio che è un mitomane e pensa di essere una specie di Gesù Cristo, va al cinema ma non va a vedere La terra trema, va a vedere i film di quart'ordine che arrivavano a Sciara in Sicilia e gli piacciono moltissimo perchè gli piace lo spettacolo (non c'era la televisione in quell'epoca) ed è addirittura un maniaco delle immagini del cinema. Quest'uomo per riuscire a capire cosa fare, per dominare il suo rapporto con gli altri nella sua lotta usa gli strumenti anche di questi, chiamiamoli così, difetti. Tanto è vero che si muove e si rappresenta come quegli eroi cretini dei film che lui vedeva. Per cui contavano le azioni che faceva, però come ci arrivava era un tentativo da parte nostra di scavare profondamente nella verità dell'uomo. E accanto c'è la massa, la massa che allora era sempre vista come un tutto omogeneo, io sto parlando di un certo cinema tutto di un pezzo in cui i contadini che occupavano le terre, gli operai che erano in lotta erano buoni e basta. Tutto questo era vero, e sentivamo che le lotte del movimento operaio erano giuste, e lo dico ancora oggi che le pagine più alte della storia italiana dal dopoguerra ad oggi le ha scritte la storia del movimento operaio. Però erano uomini anche quelli, e allora questo rapporto di uomini con tanti altri uomini, che noi abbiamo affrontato fin da primo film, poi è rimasto, sempre senza perdere una visione, diciamo, di struttura della storia, della società, ma cercando sempre di affondare nella loro umanità. perciò questi contadini che occupavano le terre, in lotta con il nostro protagonista sono contadini anche loro pieni di difetti, di debolezze, di incapacità di dominare la storia. Tanto è vero che quando noi proiettammo questo film ad un gruppo di alti dirigenti del Partito Comunista di allora, alla fine della proiezione ci fu un grande silenzio, nessuno applaudì, ma si alzò Alicata, grande e intollerante dirigente del PCI, che disse, "voi avete usato un simbolo della classe operaia, anzi della classe contadina, per parlare dei vostri problemi borghesi che non ci riguardano. E' un'operazione che la storia condannerà". Devo dire che contro di lui invece Amendola e altri reagirono e quindi ci fu un atteggiamento contraddittorio nei confronti del film. Comunque questi temi uomo-massa, non visti in modo schematico, ma sempre cercando di rappresentarli come noi siamo, come sono gli uomini, è un po' l'avvio del nostro cinema.

Vittorio: Poi, per esempio, pensando ad altri due film, ecco che le cose che tu hai detto sull'individuo e la collettività, si rivelano speculari. Nel senso che in Sotto il segno dello scorpione veramente noi sentivamo che il protagonista era assolutamente la collettività, la massa, era un film corale, con tutte le sfaccettature, ma con tutta la forza di un evento che si svolgeva a livello corale e collettivo. Mentre invece San Michele aveva un gallo parlava sempre del bisogno di trasformare la realtà e di trasformarla in meglio ovviamente, cosa di cui noi abbiamo sempre parlato, di quel bisogno che gli uomini prendessero in mano il proprio destino e lottassero per questo, ma in modo diverso. Quindi il tema era lo stesso ma in Sotto il segno dello scorpione questo avviene a livello collettivo, mentre in San Michele aveva un gallo avviene invece attraverso un personaggio solo, solo perchè avendo tentato un'azione rivoluzionaria con altri uomini vive moltissimi anni in una cella di segregazione, solo con sè stesso. Allora abbiamo cercato di capire cosa voleva dire essere soli e avere in mente invece un disegno non solitario, cioè un disegno per tutti. Vi confesserò che noi ad un certo punto ci siamo resi conto che Giulio, il protagonista solo nella cella con questo suo bisogno di continuare invece ad essere in mezzo agli altri, era in fondo simile a noi perchè era ed è anche la situazione nostra e di tutti i registi come noi, o di autori come noi, che senza avere la possibilità di molti mezzi cercano però di fare con pochissime possibilità un discorso che invece sia grande e generale. Ad un certo punto ci siamo resi conto che stavamo vivendo, anche se in maniera meno tragica, la stessa situazione. E raccontammo questo Giulio Manieri che era un anarchico della fine dell'Ottocento solo in questa cella, che continua invece a voler immaginare di portare avanti in qualche modo la sua rivoluzione. Perciò si inventa addirittura che ci siano gli altri compagni con lui nella cella ed ha tutta una serie di fantasie. E lì arrivammo anche ad un'altra scoperta, dolorosa ma che fa parte del nostro destino di uomini, perchè Giulio vive nella cella, si prepara per uscire un giorno, magari non uscire per sempre, ma se non altro uscire e ritrovare altri carcerati, altri uomini come lui e pensando, una volta ritrovato il contatto con gli altri, di portare il messaggio che lui in questi dieci anni ha elaborato in solitudine. Ma quando lui esce incontra, è vero, altri rivoluzionari giovani che dovrebbero essere i suoi complici, invece si rende conto che la storia è andata avanti in una maniera molto diversa e che il suo disegno in fondo è un disegno segnato proprio dalla sua solitudine, che è un disegno in fondo superato. Ci rendemmo conto appunto allora che non c'è forza di fantasia, di individuo migliore, del più geniale, come era il nostro Giulio, che possa stare al passo con al fantasia della storia e della natura. Allora questo conflitto con la storia del mondo, degli altri, della natura e dell'individuo, questo bisogno sempre di incontrarsi e questa difficoltà di incontrarsi forse è il senso drammatico del nostro vivere.

Paolo: Dopo aver detto queste bellissime cose che abbiamo detto, anzi, che ci fai dire sui nostri film, vorrei fare un piccolo inciso che noi di solito facciamo. E' vero che nei film ci sono tutti questi temi, questa ricerca, ecc., però per noi un film è giusto, va bene quando lo spettatore che l'ha visto esce fuori dal cinema e dice, 'che bella storia mi hanno raccontato questi due fratelli toscani! Mi è proprio piaciuta questa storia!'. Poi, tornando in macchina, parla con la moglie e dice, 'però mi fa anche pensare, è vero, a questo, a questo, a quest'altro', a quello che stavamo dicendo adesso. Quello che voglio dire è che noi siamo gente che fa lo spettacolo e attraverso lo spettacolo noi cerchiamo di comunicare quello che noi pensiamo di noi stessi, e di noi stessi nel mondo in rapporto con gli altri. Ma lo spettacolo, cioè raccontare una storia, è il compito che la comunità ci ha affidato, e raccontare delle storie è un mestiere meraviglioso. A questa età qui, avendo già fatto molti film, non tanti in verità, ne abbiamo fatti solo tredici, ecco, io pensavo che 'poi quando invecchierò forse non amerò più questo mestiere'. Invece lo amo ancora di più di quando ho cominciato, per il piacere di raccontare delle storie agli altri e comunicargli anche tutti i tuoi pensieri, i tuoi grovigli e tutto quanto il resto. Alcune volte quando facciamo delle interviste si dimentica il nome di quelle verità che si spera siano nel film e che tu stai tentando di mettere in luce, si dimentica questo aspetto, e cioè che l'importante per chi vuole fare del cinema deve essere il grande desiderio di raccontare delle storie agli altri. Come una volta c'erano i grandi racconti orali, come quelli di Omero, ed erano racconti che gli uomini si tramandavano e trasformavano nel tempo quando si riunivano intorno al fuoco e si raccontavano queste storie. Ecco, per noi fare il cinema è questo come prima molla e poi viene tutto il resto.

Vittorio: Vedi, riprendendo il discorso, anche quando ci fu l'avvento della televisione avvenne un fatto importante per tutti quelli che si occupano di spettacolo e di cinema. All'inizio ci fu un momento di rifiuto. La televisione distrugge il cinema, si diceva. Invece a noi ad un certo punto ci sembrò diverso. Intanto andando in giro per l'Italia ci rendemmo conto, per esempio, che in quella Sicilia dove eravamo andati molti anni prima per Un uomo da bruciare, dove non si sapeva nemmeno chi fosse Gassmann, e non esisteva perchè non c'era la televisione, non c'era niente, non c'era il teatro, invece, grazie alla televisione, cominciava ad esserci un patrimonio comune per cui i riferimenti che noi facevamo erano dei riferimenti che venivano capiti e accettati. Addirittura quando andammo a fare Allonsanfan nelle campagne della Puglia, mi ricordo, avevamo bisogno per una scena di massa di molti contadini e com'è che riuscimmo veramente a convincerli a venire, perchè i soldi che gli si davamo erano pochissimi come sempre? Perchè quelli, pochi giorni prima avevano visto proprio nel bar del loro paese San Michele aveva un gallo, l'avevano visto, lo avevano discusso e quando noi arrivammo e gli dicemmo, 'noi stiamo facendo un film così, così e così', che era Allonsanfan, 'e c'è questa scena', loro la capirono e ci seguirono. Quindi allora la televisione aveva intanto questa grande funzione, ma in più a noi ci sembrò che la televisione potesse rappresentare, in una maniera se vuoi un po' utopica, ed è chiaro che io sto parlando della televisione giusta, della televisione bella, di quella televisione che veramente va all'essenziale, quel fuoco che gli antichi accendevano nelle notti di primavera o di estate e intorno al quale la comunità si riuniva e qualcuno raccontava, intorno a questo fuoco, delle storie che riguardavano questa collettività, storie che avevano sentito dal passato e chissà da quali secoli arrivavano, ma che, raccontate in quel momento, assumevano dei significati diversi. Perchè questo oggi possiamo dire ripensando alla storia dell'affabulazione attraverso i secoli, che le storie sono pochissime, alcuni antropologi dicono che ci sono cinque o sei storie e basta, ma ogni volta che una collettività se le racconta riprende quelle strutture ma le modifica secondo le esigenze che in quel momento sono più pressanti. Allora secondo noi la televisione dovrebbe diventare una specie di quel fuoco dove tutti si raccolgono, divisi, certo, dalle case perchè ci sono le famiglie ecc., ma dove in fondo tu senti che altri vivono la stessa esperienza. Io dico la verità, io sono uno che vede la televisione, e quando c'è qualche avvenimento importante mi rendo conto che, anche se l'ho visto nell'ambito della mia famiglia, il giorno dopo andando fuori, al lavoro, per le strade, ecc., mi rendo conto che anche altri l'hanno visto, l'hanno sentito e su questo si discute. Allora quell'anima collettiva che è necessaria per lo spettacolo e che sembra frantumata dalla televisione invece si ricompone in un disegno che ha un raggio diverso. Quando facemmo Padre padrone per la televisione, vi dirò che noi pensavamo fosse un film proprio per pochi, un film su dei pastori e che, con tutti quei film americani d'amore e di passione, questo film non l'avrebbe visto nessuno. Invece quando poi abbiamo saputo che nel tempo questo film tra il piccolo schermo e il grande schermo era stato visto da un miliardo e mezzo di persone, ci siamo resi conto che forse questa nostra idea della televisione era veramente un'idea possibile e concreta. Allora cosa è successo in noi, come penso in altri, con l'avvento della televisione e quindi dell'enorme diffusione anche di un cinema che non sia soltanto mercantile? E' successo che come autori ci siamo sentiti, da una parte, più portati ad essere ancora più rigorosi nel nostro impegno, perchè quello che noi diciamo allora arriva veramente ovunque e quindi deve portare una parola che sia quella che tu pensi sia giusta, e accanto a questo, accanto al rigore del nostro impegno, la trasparenza del tuo stile, cioè non rinunciare a niente della tua ricerca, ma far si che il tuo modo di raccontare sia il più trasparente possibile, possa arrivare in maniera più diretta. Tutto questo è avvenuto in noi a livello incosciente, ma ora, ripensandolo, mi sembra che nel nostro cinema si possa veramente creare uno spartiacque da quando non avevamo ancora capito le potenzialità della televisione a quando abbiamo cominciato a percepire la televisione in questo modo. Non è un caso che dopo l'enorme diffusione della televisione, dopo qualche anno noi abbiamo fatto dei film come Good Morning Babilonia, come La notte di San Lorenzo, dove noi abbiamo cercato veramente di dare acqua, di dare spazio, di dare respiro a questo bisogno, che noi abbiamo chiamato il bisogno della affabulazione. In questo senso allora ritorna il discorso di Omero, non certo per paragonarmi ad Omero, ma per dire che il bisogno della collettività, il diritto della collettività di potersi sedere e vedere vivere la propria vita attraverso lo spettacolo è una cosa fondamentale. Noi pensiamo che lo spettacolo sia uno dei diritti fondamentali della collettività.

Paolo: Però bisogna aggiungere anche una cosa, che tutto questo desiderio di trasparenza e di affabulazione non significa mutuare allora degli stilemi di racconto che vengono, per esempio, dal cinema americano, perchè in quel senso loro sono certamente dei maestri. Loro hanno una loro realtà, una loro civiltà, hanno un loro grandissimo cinema e contemporaneamente un loro bruttissimo cinema. Noi pensiamo che gli autori europei debbano affondare il proprio lavoro dove sono le loro radici, noi dobbiamo parlare della nostra realtà, della nostra realtà di ieri e anche di quella di oggi, utilizzando certe cose e imparando anche dagli altri, ma trasformando, metabolizzando degli strumenti espressivi cinematografici che tu puoi apprendere, per esempio, dal cinema americano. Quindi non si deve rinunciare alla propria realtà perchè se ti metti a fare un cinema come quello americano lo puoi fare solo all'americana, cioè sicuramente più brutto di quello che fanno loro. Faccio un esempio. Padre padrone è un film che, come diceva Vittorio, è un film di pastori, non c'era una donna, direi che non risponde a nessuno degli elementi del grande spettacolo, ma è il nostro film che ha avuto più successo nel mondo. Quando noi andammo negli Stati Uniti presentavamo Padre padrone e ci dicevamo, 'come l'accoglieranno qua, come faranno a capire questo film?'. Allora andammo a New York, a Manhattan, dove all'università si proiettava questo film ad una moltitudine di studenti. Noi eravamo molto preoccupati perchè pensavamo che questo film, che parlava di una realtà così lontana dalla loro, non l'avrebbero potuto capire. E invece è stato molto amato e agli studenti piacque molto. Ci spiegavano questi studenti che "la solitudine del vostro pastore tra le montagne della Sardegna, è vero che è una solitudine per noi lontana, perchè noi viviamo in questa grande città, in un altro paese completamente diverso, ma è la stessa solitudine che noi proviamo qui fra i grattacieli di Manhattan, quindi è simile il bisogno di comunicazione, il bisogno di entrare in rapporto con gli altri. Questo è quindi un film che ci appartiene". Ecco, allora quando io dico che bisogna essere legati alle proprie radici, alla propria terra, significa che per essere internazionali bisogna essere provinciali, cioè bisogna non copiare, ma cercare di parlare delle verità che gli altri non conoscono. Cioè, la tua realtà non è conosciuta nelle altre parti del mondo e tu crei interesse se racconti questa tua verità. Per esempio, Fellini è il regista più famoso del mondo, andando in giro per il mondo ci siamo accorti che è famoso come la Coca Cola, in molti paesi più del Papa, ma Fellini ha sempre raccontato le storie di Rimini, di queste sue piccole realtà. Con questo non significa non cercare di apprendere dagli altri, parlo ora del cinema americano. Il cinema americano è un cinema che noi amiamo moltissimo e nelle sue punte più avanzate è di un livello straordinario. Io ho visto l'altro giorno Schindler's List e devo dire che, anche se un po' sconclusionato come sceneggiatura, è un film che mi ha appassionato immensamente e ci sento dentro una grande forza, una grande capacità cinematografica di Spielberg, che è uno di questi grandi registi che noi amiamo. Però questo non significa che noi dobbiamo fare un cinema come fanno loro, dobbiamo fare un cinema come sappiamo fare noi. Noi suscitiamo curiosità e interesse quando facciamo il nostro cinema. E poi, dato che siamo in argomento, bisogna batterci perchè il cinema europeo non venga soffocato dal cattivo cinema americano. Io sono andato in America ultimamente e mi hanno detto, parlando di alcuni titoli di film americani usciti in Italia: "Ma questi sono film per la televisione che noi non abbiamo nemmeno visto". Qui invece vengono comprati a pacchi e invadono tutte le nostre sale, per cui siamo un paese colonizzato che subisce l'invasione del cattivo cinema americano che distrugge quelle che sono le nostre possibilità e la nostra fantasia. I giovani che vanno al cinema e vedono solo cinema americano e in televisione vedono solo cinema americano cominciano a pensare, in quanto a vestiti, a cibo, ecc., che il cinema è quello americano e basta. Quindi, quando si fa un film in Europa, magari alcuni lo vedono e gli può anche piacere, ma lo considerano come un fatto diverso, un film alieno che non è il cinema, è una cosa a parte. Questo significa sradicarli dalle loro radici, dalla loro cultura e renderli praticamente vuoti, renderli dei colonizzati che non avranno mai la forza di affrontare la realtà internazionale. Ora c'è stata la battaglia per il GATT e il primo round l'abbiamo vinto, vedremo come si articolerà, però bisogna andare avanti in questa battaglia tenendo sempre presente un concetto, che è per rispetto al cinema americano che noi combattiamo il cinema americano, quello cattivo.

Vittorio: Riguardo al discorso delle radici, che Paolo diceva appunto "ognuno deve stare alle proprie radici", ci viene in mente una metafora. Bisogna affondare le nostre radici nella nostra terra. Perchè? Se queste radici andando veramente nel fondo della terra, scenderanno fino al centro della terra, là al centro incontreranno le radici che vengono dall'altra parte della terra, si incontreranno, si incroceranno e diventeranno le stesse radici. Per cui se tu vai al fondo della tua verità potrai incontrare anche le verità degli altri.

Quello che sorprende spesso del vostro cinema è il fatto di essere un cinema che non è incentrato solo sui personaggi, ma che dà anche una grande importanza agli spazi, ai paesaggi. Come mai, secondo voi?

Vittorio: Dunque, se uno volesse andare a guardare, a cercare di capire sè stesso e trovare delle ragioni di carattere proprio personale...chissà forse è per il fatto che il nostro primo impatto con lo spettacolo e la grande emozione per lo spettacolo è stato con l'opera lirica. In che senso? Quando noi eravamo ragazzini, se andavamo bene a scuola o prendevamo un bel voto, venivamo portati da San Miniato a Firenze a vedere l'opera. Allora il fatto che eravamo là seduti, che c'era quel telone rosso che poi si apriva e avveniva là su questo palcoscenico orizzontale tutto ciò che l'uomo può immaginare, dai sogni ai drammi, dagli amori agli odi, le guerre, questo fatto forse ha inciso chissà come anche dentro di noi, per cui il nostro cinema è spesso un cinema che, come dici, ama veramente questi spazi che in genere sono orizzontali. Questo potrebbe essere un discorso molto psicologico. Su un piano forse più sostanziale noi abbiamo parlato prima, e voi ci avete provocato su questo argomento, del rapporto fra individuo e collettività. Ecco, noi ci sentiamo fortemente anche un altro tipo di emozione, di interrogativo, cioè il rapporto dell'individuo e della collettività con la natura, cioè il grande mistero della natura. Da una parte c'è la storia degli uomini che veramente procede con ritmi vertiginosi, dall'altra c'è l'esserci della natura che invece ha ritmi biologici lentissimi, ma noi siamo uomini biologici e siamo uomini storici. Allora, per cercare di capire da dove nascono la nostra sofferenza e anche le nostre speranze e anche da dove nasciamo, sentiamo il bisogno di interrogarci su questo rapporto così drammatico tra la velocità dello sviluppo dell'individuo, della collettività, della storia e invece la lentezza, quasi l'immobilità del nostro essere uomini biologici e anche riguardo a tutto ciò che non sappiamo. Noi siamo molto fieri di ciò che abbiamo conquistato, della civiltà che abbiamo conquistato, di ciò che l'uomo e la collettività possono veramente fare come protagonisti, ma abbiamo anche la sensazione che ciò che noi sappiamo è infinitamente più piccolo di ciò che noi non sappiamo. E questo che noi non sappiamo è la natura, il grande mistero della natura. Allora ecco perchè nei nostri film, inconsciamente perchè non è un discorso preparato a tavolino, sentiamo il bisogno, da una parte, di andare sul primo piano del personaggio, cercando veramente di carpire con la macchina da presa il segreto di un individuo, di un gruppo di uomini, e poi improvvisamente invece con un campo lungo o lunghissimo immergerli nei grandi spazi della natura sotto un cielo che sai dove comincia, ma non sai dove finisce. Allora in questo drammatico rapporto che c'è fra l'individuo, e l'uomo in generale, e la natura, nasce forse questo nostro cinema che spesso immette i nostri personaggi in paesaggi molto ampi...


Pensando alla narrazione, quanto pesa per voi la cultura popolare, la cultura contadina del raccontare. Per esempio nei vostri film si trovano spesso filastrocche, e questo amore per la terra...


Paolo:...Un po' l'abbiamo detto. Noi veniamo da una città, non si può dire che San Miniato sia un paese, semmai una cittadina di grandi tradizioni, una città di campagna, e abbiamo vissuto, sebbene borghesi, all'interno di una realtà contadina, che poi ora si è trasformata, ma che nella prima parte della nostra infanzia e adolescenza era ancora molto legata a questa prospettiva. Quindi la terra e la civiltà che è nata sulla terra fa parte un po' della nostra formazione. In fondo diciamo che la realtà italiana è stata una realtà rurale fino a poco tempo fa, perchè poi l'industralizzazione è stata una sovrapposizione di un concetto sbagliato di sviluppo che invece di sfruttare la grande sapienza che veniva dalla cultura contadina l'ha massacrata, l'ha distrutta. Perciò noi sentiamo che la cultura italiana deve tutto e nasce tutto dalla realtà contadina perchè il nostro paese era un paese contadino, un po' come era anche la Russia, non dico la Francia perchè invece è un'esperienza completamente diversa dal punto di vista storico. Quindi tutte quelle conquiste della cultura contadina che sono il gusto del raccontare, come dicevamo prima, cioè il gusto della affabulazione, l'uso delle filastrocche, l'uso della musica, l'uso del canto, l'uso di tramandarsi modi di dire e di rappresentazione fanno parte di una cultura che non va dimenticata, che non va riprodotta passivamente, ma va utilizzata proprio in questo nostro mestiere che è il mestiere dello spettacolo. Faccio un esempio. Siamo andati per Kaos in Sicilia. Prima di girare un film noi lo scriviamo, andiamo, facciamo i sopralluoghi, scegliamo gli attori, torniamo a Roma, ce lo riscriviamo sulla base delle emozioni che abbiamo avuto e poi andiamo a fare il film. Tra le emozioni che abbiamo avuto per questo film, mi ricordo che eravamo andati in un paese sperduto su una montagna in provincia di Ragusa, dove c'era un gruppo di filodrammatici, da cui poi abbiamo anche preso degli attori, che facevano degli spettacoli, facevano Pirandello, Marfoglio, ecc., cioè il giorno lavoravano come impiegati, contadini, ecc., e la sera recitavano, era cioè gente che come noi amava lo spettacolo. Una sera fecero una rappresentazione per noi, e in questa rappresentazione, che era l'Aiace, ad un certo punto questi attori si mettevano intorno ad una specie di ara improvvisata e facevano un balletto, un balletto molto strano, cioè si muovevano con i pugni stretti, ad un certo ritmo che ogni tanto si interrompeva, cambiava in velocità e poi ritornava a passi più lenti, che dava una sensazione di grande forza, di grande aggressività e timore degli dei o della natura. Noi volevamo chiamare un coreografo, che era Gino Landi fra l'altro, che doveva venire a fare le coreografie del nostro film. Dicemmo, "no, no, un momento, prendiamo questo balletto, chiamiamo queste persone che insegneranno agli altri a fare questo balletto". E noi a quel punto gli chiedemmo, "ma chi vi ha insegnato questo balletto?", e loro, "lo faceva mio padre, lo faceva mio nonno, è una specie di balletto che nelle nostre rappresentazioni ogni tanto appare e che non sappiamo da dove viene". Essendo in Sicilia evidentemente risale probabilmente alla Magna Grecia. Ecco, allora cosa vuol dire affondare nella cultura contadina, nella cultura della terra, io preferisco chiamarla cultura della terra? Significa recuperare degli elementi ancora forti che tu puoi utilizzare per esprimere il tuo presente. Non dimentichiamo che, lo rileggevo recentemente in Plutarco, quando ci fu una battaglia tra i Greci e i Siciliani, e vinsero i Siciliani, questi ultimi presero prigionieri i Greci che dovevano essere passati per le armi. Allora il capo dei siciliani disse: "Sarà salvato dalla morte quel prigioniero che saprà recitare almeno tre versi di Eschilo". Tu capisci allora che affondando nel passato ritrovi tante delle tue realtà.

Vittorio: Questo non significa che la cultura contadina sia una cultura immobile e che oggi con le trasformazioni della nostra realtà praticamente ci sia bisogno di un ritorno ad essa. Si tratta di costruire il nuovo su basi, su radici che sono di ieri, che ci appartengono. Se noi teniamo i piedi ben fissi su questa realtà concreta possiamo veramente affrontare anche tutte le trasformazioni che oggi sono quelle che più interessano la nostra società.

Paolo: Per esempio, i grandi ci insegnano anche questo. La terza sinfonia di Beethoven, l'ultimo tempo, che poi è una marcia funebre, è una danza popolare straordinaria che viene trasformata da Beethoven e diventa un'altra cosa, ma che nasce proprio da una canzone e un ritmo popolare che lui ha utilizzato per parlare della sua contemporaneità, trasformandola ma utilizzando alcuni archetipi, della musica in questo caso, e noi pensiamo dello spettacolo, che fanno parte della nostra natura di uomini e, in particolare, della nostra natura di italiani.


Vittorio: D'altra parte quando noi siamo andati a preparare Kaos ci siamo resi conto che in questo nostro modo di muoverci in fondo c'era qualcuno ben più grande che ci aveva preceduto, perchè volevamo raccogliere in Sicilia tutto ciò che ci veniva dai racconti di Pirandello e avevamo sul comodino in albergo le sue novelle, che conoscevamo, ma che da tempo non avevamo più letto. E invece, rileggendo le novelle, lì ci siamo resi conto che una grande messe di racconti popolari erano già raccolti da Pirandello. Infatti Pirandello non è che se li è inventati, questi non sono altro che la trascrizione moderna, diversa, pirandelliana, che è tutto dire, dei racconti che Pirandello da bambino sentiva fare dalla sua tata Maristella, una donna del popolo che lo accompagnava a scuola, alla sera lo metteva a letto e gli raccontava le storie della sua tribù, diciamo, che era delle campagne siciliane. Pirandello si ricorda di queste storie e le riimmette in una realtà assolutamente diversa, frantumata che è il mondo di Pirandello, ma la grandezza di Pirandello sta proprio in questo incontro fra questo passato, che è ancora pieno di umori, e la realtà drammatica e tragica del suo tempo. Tutt'oggi quella di Pirandello continua ad essere una realtà che dà molta luce anche se una luce funesta sulla nostra vita.


Paolo: Detto questo il nostro prossimo film sarà un film di fantascienza (risate, ndr.).


Un'altro aspetto importante del vostro cinema mi sembra il rapporto con la musica e l'utilizzo particolare del sonoro...


Paolo:...Si, la musica per noi, un po' per il racconto che faceva Vittorio dell'opera, è sempre stato un elemento fondamentale nella costruzione dei nostri film perchè, e questo è un discorso che vale per noi e non vale come teoria, noi sentiamo il cinema più come erede del patrimonio musicale che di quello delle arti figurative, come accade invece per altri registi, o della letteratura. Noi istintivamente nel costruire un film ci sentiamo portati a seguire più delle strutture di tipo musicale che di tipo figurativo. Tanto è vero che ogni tanto ci offrono di fare delle regie d'opera, in quanto noi amiamo molto l'opera, ma noi preferiamo fare l'opera con i nostri film che venire a fare una regia d'opera. Allonsanfan è un bel melodramma oppure altri hanno detto che San Michele aveva un gallo è un quartetto. Queste cose che sto dicendo, sia chiaro, non sono mai predeterminate. Cioè, voi ci fate una domanda, noi ci analizziamo e ci par di capire quali sono queste strutture, però non c'è mai niente di deciso prima, non è che facciamo un film e diciamo 'ora facciamo l'opera'. No, ci vengono così per la nostra formazione e i nostri amori. Quindi la struttura musicale è fondamentale nella struttura dei nostri film. Poi, detto questo, anche all'interno della costruzione musicale di un film per noi la musica, e quando dico musica intendo dire suono, e quando dico suono si dice anche silenzio, cioè tutto ciò che concerne l'udito, è importante. Noi strutturiamo il commento musicale mentre scriviamo il film. Quando scriviamo la sceneggiatura diciamo, 'andiamo avanti, qui entra questo attore, qui dice questa battuta e qui arriverà la musica', una vaga musica che poi diventerà una concreta musica. Quindi sappiamo che quella zona è affidata espressivamente alla musica, all'elemento suono, perchè appunto diciamo musica, ma diciamo anche suono e silenzio. Perchè pensiamo che il suono, parlo dei nostri film e non in generale, abbia la stessa importanza, lo stesso peso di un attore, della fotografia, cioè degli elementi che compongono i nostri film a livello figurativo. E' chiaro che quando diciamo suono, intendiamo la musica come elemento attivo della narrazione. Faccio un esempio. In Padre padrone c'era una sequenza in cui c'è una processione. Nella processione ci sono dei ragazzi che portano il santo sotto un grande tendone. Questi ragazzi desiderano partire, emigrare, abbandonare questa terra disperata e andare in Germania. Allora, mentre i patriarchi, che seguono la processione fuori, cantano gli antichi, bellissimi canti sardi della chiesa, i ragazzi sotto, ispirati da questo desiderio si mettono a cantare una canzone tedesca. La processione va e quando siamo fuori e si vede il santo si sentono i canti tradizionali, poi quando si va sotto il tendone questi ragazzi cantano la canzone in tedesco. Noi questa sequenza avevamo pensato di girarla, e in parte l'abbiamo anche un po' girata, con tanti primi piani sia dei ragazzi che cantavano in tedesco che dei patriarchi che cantavano i canti tradizionali, i quali si dovevano scontrare in questa lotta tra vecchio e nuovo, tra giovani e vecchi. Ma poi invece, andando in moviola, e anche il montaggio è un momento magico del nostro mestiere, ci siamo resi conto che montando un'unica inquadratura, un campo lungo in cui si vede la processione che cammina e affidando non alle facce dei vecchi o dei giovani, ma solo al suono il racconto di questo scontro, di questa battaglia che avviene tra vecchi e giovani, la scena era molto più forte. Tanto è vero che su questo campo lungo si sentono prima i canti dei vecchi, poi si sente il canto tedesco che emerge e sta per vincere, ma viene nuovamente sommerso dal canto degli anziani, allora sembra che abbia vinto la tradizione, invece a poco a poco ritorna il canto tedesco, sale, sale, cresce, il canto dei vecchi cerca di resistere finchè invece esplode il canto tedesco e hanno vinto i giovani, che infatti poi sceglieranno di abbandonare il paese, di emigrare, di andarsene...

Vittorio:...Con un suono di campane che significa 'bravi, avete vinto!'...

Paolo:...Allora a quel punto, mentre montavamo questa colonna ci dicemmo, 'ecco, questa colonna sonora ha un valore narrativo più di qualsiasi primo piano anche se lo avesse fatto Marlon Brando o un altro grande attore'.

Vittorio: Sarebbe molto noioso vivere se ogni cosa fosse sempre uguale. Invece c'è un continuo evolversi, cambiare sulla stessa strada, ma quante deviazioni devi fare, come cambia il cielo sopra la strada.


Ne I sovversivi c'è questo montaggio bellissimo, quasi jazz. Quale importanza ha il montaggio nei vostri film?


Vittorio: Fu Mario Benvenuti che, fra i primi libri che ci consigliò di leggere Il montaggio di Pudovkin. Quindi diciamo che il montaggio corrisponde a quella che è una pagina musicale con le battute, il bisogno di dare ritmo al film attraverso la sua scansione. Pudovkin diceva che il senso di due inquadrature non sta nelle due inquadrature ma nella giunta che unisce le due inquadrature, che non si vede, ma è lì che scoppia il momento espressivo. Quindi montaggio significa ritmo. Poi noi abbiamo questo rapporto forte con la musica ed è chiaro che musica e montaggio vanno quasi a fondersi in un'unica realtà espressiva. Ma non saprei dirti più di quello che hai detto tu del montaggio jazz de I sovversivi e mi fa molto piacere perchè I sovversivi è un film molto lontano, è vero, è un film che risale a vent'anni fa, ma che chi conosce i nostri film ha visto soltanto ora, e ci dicono sempre 'forse è vero, forse gli altri vostri film sono più belli, ma quel film come ci appartiene, come lo sentiamo nostro!', anche perchè forse c'era questa scansione più violenta. Ecco, per noi l'idea di montaggio non è mai un'idea tecnica di montaggio. Io ricordo che per I sovversivi dicevamo questo, 'noi vogliamo rappresentare una realtà che è andata in frantumi, vogliamo veramente mettere accanto tutti questi frantumi come pezzi di vetro che fanno male nel momento in cui li metti insieme, però è poi da questo male che tu riesci a capire che cosa si è rotto'. Allora quel montaggio probabilmente nasce da un'idea che non è tecnica, ma da un bisogno di riuscire ad esprimere qualcosa che era il senso del film. In altri film invece c'è il bisogno di superare la frantumazione del montaggio per arrivare ad un continuum dove invece la parola assume un ruolo fondamentale; mi ricordo in questo momento Sotto il segno dello scorpione, che è un film in cui il montaggio è abbastanza importante, un montaggio che addirittura prevede fra un'inquadratura e l'altra dei pezzi di coda nera che per noi erano fondamentali, ecco, allora anche lì è solo una questione di montaggio l'aver scelto delle piccole code nere? Si, certo è montaggio, è in moviola che noi abbiamo avuto questa idea, ma da cosa nasceva questa idea? Dal bisogno di dire in quel film, in quel momento, 'ecco, abbiamo presentato un certo momento della realtà, certi sentimenti, l'abbiamo fatto con violenza, ora vogliamo che per un attimo non si passi subito ad un'altra emozione, ma che il pubblico anche solo per un momento debba ripensare a quello che ha visto e poi passare ad altro'. In quel film io mi ricordo che, accanto a questi bisogni di montaggio di questo tipo, ad un certo punto c'è il protagonista, Gian Maria Volontè, che fa la parte del vecchio capo di un'isola che è stata post-rivoluzionaria, che invece vuol parlare di sè stesso. Allora abbiamo detto, 'qui non ci deve essere nessun taglio, la macchina da presa qui si metterà al servizio di questa confessione dolorosa che dura moltissimo'. E poi se nel film, che ha un certo ritmo, improvvisamente questo ritmo si rompe e abbiamo veramente questa lunga linea, io credo che anche quello che viene dopo nel montaggio torna ad essere di nuovo molto aggressivo. Questo nostro atteggiamento è uguale anche per l'uso della macchina da presa. Noi usiamo poche volte il carrello, ma quando lo usiamo sentiamo che proprio perchè non è usato spesso, quando arriva invece dovrebbe avere, e si spera che lo abbia, non so se lo avrà, una grande funzione di emozione, un'emozione che arriva a livello inconscio probabilmente, ma almeno per noi che lo facciamo ha questo valore. Quindi il montaggio cambia da film a film e non nasce mai da un bisogno tecnico, ma dal desiderio di rendere il più trasparente possibile il senso, l'emozione e anche il pensiero che sta dentro un film, non dico dietro un film, ma dentro un film.


Un'altra cosa interessante del vostro cinema è la recitazione degli attori, che non è quasi mai naturalistica, ma in qualche misura rivela sempre la sua origine teatrale. Come mai?


Paolo: Non lo so se è molto teatrale. Molto teatrale è sicuramente Un uomo da bruciare perchè ricordo che prendemmo Volontè che era al suo primo film ed era un attore di teatro. E quando lavorammo con Volontè gli chiedemmo, proprio perchè il suo personaggio si rappresentava teatralmente, di potenziare al massimo gli elementi teatrali, e quindi esaltammo questa teatralità proprio perchè era legata al personaggio. In seguito non so se la recitazione dei nostri attori sia sempre stata teatrale. Noi facciamo un grosso lavoro con gli attori, però cerchiamo sempre di non sovrapporci a quello che gli attori sono. Quando si sceglie un attore lo si sceglie perchè corrisponde all'immagine che tu hai del personaggio, e quindi c'è già una scelta precisa e sai già quello che ti darà quell'attore. In più, insieme all'attore elaboriamo i vari momenti psicologici del personaggio e cerchiamo di non imporgli la nostra idea, ma di dare a lui la curiosità di scavare in sè stesso per trovare e per potenziare quello che lui è e che magari aveva tenuto nascosto fino ad allora dentro di sè e che magari proprio attraverso questo personaggio riesce a tirar fuori. Quindi utilizziamo sempre gli attori cercando di potenziarne le caratteristiche e mai violentandoli imponendogli qualcosa di nostro. E' chiaro che tutto deve poi inserirsi in un disegno generale che è quello del film e che un attore intelligente capisce e in quel senso lì allora il regista è importante perchè può pilotarlo e non farlo uscire dai binari di una certa storia, ma sempre con un grande rispetto degli attori che noi amiamo moltissimo. Ci si innamora dei propri attori perchè, anche se spesso sono tremendi, e non faccio nomi, quando si lavora in un film quelle facce, quei corpi che si muovono sono l'espressione di quella verità che tu vuoi raccontare in quel momento, e allora ci innamoriamo di tutti i nostri attori, tanto è vero che agli attori diciamo sempre 'guardate che noi siamo molto innamorati, non ne approfittate perchè allora sarebbe troppo facile e dovremmo diventare cattivi, quindi assecondate il nostro amore'. Teatrale tu dici? Non lo so.

Vittorio: Io direi questo, che il nostro cinema tende ad essere un cinema molto di sintesi, mi ricordo che agli inizi dicevamo 'raccontare pochi fatti senza stare a spiegare troppi perchè'. E' un cinema di sintesi e allora è chiaro che anche agli attori tu chiedi volta a volta non di disperdersi nella chiacchiera o comunque in un comportamento, diciamo, quotidiano, naturalistico, ma ogni volta di andare al senso più profondo della scena che stanno facendo. Infatti in genere i nostri dialoghi non sono molto lunghi, le scene in fondo sono sempre molto concentrate su quello che avviene e quindi l'attore è portato naturalmente ad eliminare tutto ciò che può essere relativo e di andare proprio al succo della scena. In quel senso allora c'è una recitazione, io non direi teatrale, ma semmai antinaturalistica che tende molto alla espressività più che alla cordialità comunicativa.

Paolo: Comunque la scelta dell'attore è sempre un momento molto bello, ma anche molto angoscioso perchè giustamente diceva Hitchcock che se tu sbagli l'attore, sbagli il film. Invece se tu hai la fortuna di indovinare l'attore, il film fa subito un balzo in alto nella verità e nell'espressività. Il bello di questo mestiere è che non lo si fa da soli, cioè la novità che è il cinema sta proprio nel fatto che per fare un film hai bisogno dell'apporto creativo di tante altre persone, del direttore della fotografia, del musicista, degli attori, ecc.. A volte ci domandiamo, 'ma in un film di John Huston con Bogart dove arriva la creatività di Bogart e dove finisce quella di John Huston'? Non lo so perchè insieme hanno creato questo film o quest'opera d'arte se è un'opera d'arte. E la bellezza di questo mezzo è che tu vivi insieme agli altri e insieme agli altri costruisci una tua realtà. Questa vocazione alla collaborazione, ad usare anche la creatività degli altri in nome di una idea, evidentemente in noi è molto forte. Tanto è vero che quando abbiamo cominciato eravamo in tre e ora siamo in due, per cui fa parte della nostra natura.

Vittorio: E se si crea questa complicità con gli attori, avviene quello che era avvenuto con Giulio Brogi per San Michele aveva un gallo. Noi avevamo molto chiara la storia di questo individuo, che era divisa in tre parti, una parte esterna, una parte nella solitudine e una parte nella laguna. E quindi avendo veramente scandito i vari momenti della sua estroversione e poi della sua solitudine, ecc., parlammo con Giulio. Giulio capì perfettamente quello che noi avevamo pensato, che avevamo immaginato, e subito ci rendemmo conto che lui portava una cosa in più che noi non avevamo prevista, portava cioè la melanconia, una strana melanconia, quasi che facendo quel personaggio Giulio avesse trovato qualche punto di contatto, per noi misterioso e che ancora oggi non so quale sia, fra la sua vita, il suo destino di oggi e di domani e il destino di questo personaggio. Da qui questo senso di melanconia che veramente getta come una dolcissima, drammatica, dolente ombra su tutto quello che il personaggio fa. Ecco, allora in questo caso il rapporto con l'attore diventa un rapporto che non sta più nella chiacchiera, non sta più nell'esibizione, ma cerca veramente di scavare non solo dentro il film, ma di scavare dentro sè stessi.


Un'ultima domanda sull'infanzia, sul ruolo dei bambini nel vostro cinema...


Paolo: I bambini...Dostoievski diceva: "se hai dei problemi da risolvere non andare a chiedere consiglio ad un adulto, chiedi consiglio ad un bambino perchè il bambino nella sua ingenuità avrà la capacità di risponderti". Questo lo diceva credendoci ed è anche un paradosso, però c'è anche una profonda verità. Noi amiamo molto i bambini per questa capacità fantastica, questa ingenuità che hanno e anche questa cattiveria che portano con sè allo stato originale. Abbiamo figli, ci piacciono i bambini e li utilizziamo spesso nei nostri film perchè affidare il racconto alla presenza di un bambino ci dà una particolare libertà. Per esempio, ne La notte di San Lorenzo, quando ci è venuta l'idea che la protagonista dovesse essere una bambina di sette anni che vive l'esperienza della guerra, tragica, terribile, come era oggettivamente, e al tempo stesso potesse anche vederla deformata dalla sua fantasia di bambina, abbiamo capito che questa materia, che è stata così ben trattata dal grande cinema del dopoguerra e che nessuno osava più toccare perchè quei film erano grandi opere d'arte, questa materia che ci urgeva, ci siamo resi conto che se la raccontavamo realisticamente da una parte e al tempo stesso deformata ed esaltata dalla fantasia della bambina dall'altra, allora potevamo veramente fare questo film. Tanto è vero che il film ci pare riuscito anche per questo. Nel film si passa continuamente da una realtà concreta, oggettiva, ed è un po' un atteggiamento che si ritrova in tutti i nostri film, per poi andare nella fantasia e nella fantasticheria, e poi ritornare nuovamente alla realtà, e in questo continuo rapporto sta un po' il piacere nostro del raccontare che è anche nel nostro ultimo film, Fiorile. Per esempio, in Fiorile solamente dei bambini, gli occhi dei bambini potevano rievocare, attraverso le parole realistiche del padre che parla dei francesi che arrivarono in Toscana, le immagini di questi francesi che questa bambina vede camminare in mezzo alla campagna e li vede con gli occhi di un bambino. Tanto è vero che dopo, quando anche il fratellino, inseguendo il racconto del padre su questa famiglia che è diventata ricchissima e che aveva una grande villa e aveva dato una grande festa da ballo, se avessimo voluto seguire semplicemente il racconto del padre dal punto di vista realistico avremmo fatto vedere una festa da ballo con la musica della festa da ballo del primo Novecento. Il bambino invece dice, "ah, era una grande festa da ballo, ballavano con la musica, c'era una grande orchestra". Per un bambino di oggi l'orchestra cos'è? E' la discoteca, è il rock, non certo il valzer. Allora il bambino dice, ""ah! Era musica rock!", e il padre dice, "non è proprio così". Però a noi ha dato la possibilità di entrare con una musica non realistica in un ambiente realistico che è quello della villa dove c'è questa festa da ballo, con la musica rock che dà una deformazione della realtà, ma che, noi pensiamo, esalta la stessa realtà, non la diminuisce.


Passando ai padri nei vostri film, secondo me c'è un padre un po' anomalo, quello de Il prato, che stranamente ancora crede nell'utopia, mentre i giovani sembrano rassegnati...


Vittorio:...Vorrei finire in maniera molto personale senza fare troppe teorie. E' chiaro che noi abbiamo avuto un padre molto importante. Noi vivevamo a San Miniato, nostro padre era l'unico della borghesia che non si era iscritto al fascio, l'unico antifascista del luogo, era mazziniano, amava l'opera, amava l'arte, era molto severo, credeva molto nella scuola e anche quando poi noi siamo cresciuti lui rimaneva mazziniano, con le sue idee, quindi c'erano anche dei contrasti fra noi che invece all'epoca eravamo dei marxisti e anche aggressivi. Quindi per noi questo padre ha contato molto. Allora se ripenso ai nostri film ora...c'è il padre di Padre padrone e il film si rifà all'esperienza di Gavino Ledda, ma è indubbio, e qui non voglio far torto al nostro padre amato, che in qualche modo abbiamo sentito che nella figura di tutti i padri c'è l'elemento dell'autorità e anche dell'autoritarismo un po' violento. Possiamo pensare che alcuni gesti, almeno due gesti che fa il nostro personaggio non sono di Gavino ma sono dei gesti che faceva nostro padre. Per esempio, il gesto di quando nostro padre ci coglieva, fra lo scherzo e no, in qualche momento di errore, ci guardava, alzava la mano in modo minaccioso e poi si grattava la testa, e invece noi facevamo così (si mette le mani sopra la testa come per ripararsi, ndr.), questo gesto torna in Padre padrone nel senso che anche attraverso nostro padre abbiamo sentito che, almeno per una generazione o comunque per una cultura vissuta fino agli anni Sessanta, la figura del padre portava con sè anche una certa violenza tipica dell'autorità, probabilmente necessaria, legata ad un certo tipo di società, ma c'era. Invece, accanto al padre di Gavino, che in qualche modo però non riuscivamo a capire, perchè l'autoritarismo, la violenza del padre di Gavino era veramente un rimbombo rispetto a quella piccola eco che noi sentivamo anche in nostro padre, c'è un altro padre, il padre che più rappresenta il nostro, quello de La notte di San Lorenzo, perchè quella storia in quella cantina è veramente la storia che noi abbiamo vissuto, mio padre era un avvocato e noi l'abbiamo trasformato in un contadino, in Galvano, così come noi due ragazzi ci siamo trasformati nella bambina, perchè è importante tornare alle proprie memorie, ma guai a farsi rinchiudere dentro la propria memoria perchè diventa nostalgia e incapacità di giudizio, mentre invece ci vuole sempre il distacco. Quindi nostro padre è diventato Galvano e fu proprio lui, nostro padre, che nel momento della grande decisione se seguire il consiglio del vescovo e credere nelle promesse dei tedeschi oppure se andare in questo inferno che era la campagna del luglio del 1944, quando uscire all'aperto significava poter essere uccisi dai tedeschi, nostro padre, che pure aveva tutta la famiglia, noi siamo cinque figli e poi c'era tutta la gente che si affidava a lui, disse, "preferisco affrontare il rischio della morte che obbedire all'ordine dei tedeschi e andare in Duomo". Ecco, noi abbiamo raccontato la forza di questo personaggio proprio grazie alla figura di nostro padre. Quindi noi quando parliamo di padre o di nostro padre pensiamo veramente alla figura di Galvano. Riguardo invece all'osservazione che avete fatto sul padre de Il prato è molto acuta, non ci ho mai riflettuto, ma mi domando, però subito ne sono anche incerto, se non è un caso che è avvenuto quando noi avevamo dei figli, non dei figli grandi, ma già ci sentivamo in un rapporto di padri noi nei confronti delle nuove generazioni, e allora questo padre che in fondo ha un passato molto ricco, ecc., e che sente anche la difficoltà del momento, il dramma che sta vivendo non solo la generazione nuova ma coinvolge anche lui, mi domando se per caso in fondo non nasca per il fatto che noi, per la prima volta, sentivamo veramente la responsabilità di essere padri nei confronti dei giovani, perchè c'è una frase che veramente è nostra, che abbiamo sentito e che è una battuta che nasce anche da una nostra sofferenza, quando il padre dice all'inizio al figlio, 'guarda, io soffro dei dolori del mondo e sono abituato a tutto, ma una sola cosa credo che non riuscirò mai ad accettare, quella di vedere invecchiare te che sei mio figlio'. Mi rendo conto che quella frase è una frase che è nata dal nostro rapporto con i nostri figli.


E il vostro rapporto con la Toscana? Nei vostri film sembra che anche se non vivete più in Toscana, essa sia comunque sempre presente nella vostra mente e nei vostri occhi...


Paolo:...anche la Sicilia veramente...Molti mi chiedono, quando vado all'estero, 'ma voi vivete a Firenze, a San Miniato, a Pisa?'. Cioè pensano che noi viviamo ancora in Toscana. Pensa invece che siamo a Roma dal 1955...

Vittorio:...Però devo dire che i ritorni sono sempre molto belli, e questo si deve molto anche al nostro lavoro, nel senso che si và nei luoghi per fare delle cose interessanti. Quando siamo andati a San Miniato per La notte di San Lorenzo, per preparare il film a parlare con la gente, ed ecco una delle ragioni per cui abbiamo fatto quel film, ci siamo resi conto che quel luglio del 1944 così preciso, così storico, ecc., era risultato qualcosa di diverso nel racconto di chi l'aveva vissuto e di chi l'aveva sentito raccontare. Era diventato un mito, ognuno se lo raccontava a modo suo, ma c'era un nucleo centrale ed era che in quel momento chi aveva saputo veramente non essere solo e prendere in pugno il proprio destino, sembrava tutto perduto, invece si è salvato. Questo era ciò che univa i racconti diversi di quei giorni di luglio. Allora da questo modo di sentire un fatto storico già come un fatto di leggenda e di mito che appartiene alla collettività è stato un'altra molla per cui abbiamo deciso di fare La notte di San Lorenzo. Ma anche ora quando siamo andati per Fiorile, avevamo bisogno dei rapporti con la campagna, ecc., abbiamo trovato proprio nella campagna, in chi lavora la terra una collaborazione e una grande cultura anche di cinema. Perchè noi, quando chiedevamo dove trovare certe terre e parlavamo con i fattori, e quando dico fattori magari noi intendiamo quelli di una volta, con i baffoni, mentre invece oggi sono dei giovani che hanno fatto Agraria all'università, che sanno tutto di tecnica, ecc., ci accorgevamo che erano ancora assolutamente legati alla terra da un rapporto di innamoramento e nello stesso tempo erano già uomini di scienza. Da parte loro abbiamo avuto veramente una grande collaborazione di entusiasmo legata anche al fatto che avere un rapporto con il nostro cinema è un fatto vero, creativo. Per cui tornare ogni volta in Toscana, a parte quando si vanno a trovare gli amici che però è una cosa che riguarda la nostra vita personale, è una riconferma che la Toscana sembrerebbe dover autorizzare quella illusione che fra storia e natura forse si può trovare la creatività.

Paolo: Sempre a proposito del paesaggio toscano, Martin Scorsese che ha visto Fiorile in una visione privata a New York, ci ha telefonato entusiasta e allora ha organizzato una proiezione sua personale con cinquanta amici che lui ama e stima, e prima del film ha parlato del film, ecc., ecc., e queste sono state le sue parole: "Vedrete un paesaggio straordinario, il paesaggio toscano, ma non vi illudete, se andate in Toscana quel paesaggio non lo trovate. Dovete andare a chiamare i fratelli Taviani che vi aiutino a trovare quel paesaggio che è certamente la loro Toscana, ma è una Toscana dell'anima più che una Toscana turistica". E queste parole ci hanno fatto molto piacere anche perchè contengono una verità, cioè quando scegli un paesaggio è vero che quel paesaggio può essere oggettivamente bello e suggestivo, ma diventa bello e suggestivo se è al servizio di un'idea più ampia che è quella appunto di una verità che è la verità di ognuno di noi.

Cosa vi sentireste di dire a un giovane regista?

Paolo: E' un mestiere stupendo, lo consiglierei, ma gli direi, 'guarda, se vuoi fare il regista devi sfidare il futuro, come fare cinque anni di guerra, devi mettere in conto di andare in guerra per cinque anni. Può anche darsi però che quella guerra tu la vinca o tu la perda, ma metti in conto anche il fatto che si può perdere. Se hai la forza di affrontare questi cinque anni allora fallo, altrimenti non lo fare perchè sennò è una grande illusione'.

Vittorio: Ci sono molti che dicono, 'vado a fare il cinema e mi dò un anno di tempo'. No, assolutamente, un anno non serve. Noi diciamo per quattro anni e undici mesi e ventotto giorni devi bussare a tutte le porte, devi farle sanguinare le tue mani a forza di bussare perchè nessuno ti aprirà. Forse all'ultimo giorno del quinto anno si aprirà un piccolo usciolino e potrai entrare. Ma se tu non metti in conto questo non venire perchè andrai incontro ad un fallimento e ad un grande dolore.

Paolo: Poi ci sono alcuni giovani che hanno voglia di fare il cinema vero, sentito profondamente e quello è fondamentale. Per molti invece fare il cinema è come fare un po' un'evasione, tanto è vero che noi spesso abbiamo avuto alcune esperienze negative con degli assistenti perchè, alcuni sono diventati molto bravi, ma la maggioranza dei giovani che venivano a fare gli assistenti volontari non immaginavano la fatica inenarrabile che è fare un film e soprattutto fare gli assistenti. Tanto è vero che dopo i primi venti giorni, un mese, in genere cominciano a dire, 'sai, ci ho la mamma che sta male, dovrei andare via', e l'ottanta per cento sono spariti dopo due, tre settimane di lavoro e hanno chiaramente capito che non era un mestiere adatto a loro.

Vittorio: Finale con aneddoto tra vero e non vero, ma forse vero. Mi ricordo che quando noi alla fine abbiamo preso la valigetta e siamo partiti per Roma, ci siamo detti, io penso che sia vero, 'dunque, ci diamo non cinque, diciamo dieci anni, ma se fra dieci anni non siamo riusciti a fare un film, con gli ultimi soldi ci compriamo una pistola e ci ammazziamo tutti e due'. Questo l'abbiamo detto. Se poi l'avremmo fatto non lo so, ma noi partimmo convinti che a questo punto, al decimo anno c'era una pistola nel nostro destino.
Paolo: E io ho sempre pensato che in quel momento sarei stato io il primo a sparare a lui e poi dopo si sarebbe visto (risate, ndr.).

intervista a cura di Marcello Cella e Simonetta Della Croce