lunedì 6 aprile 2020





Non sognare: fallo!
Storie di punk rock italiano. Quattro documentari (e un libro)

Alcuni documentari più o meno recenti e un libro di Marco Philopat “Lumi di punk” fanno luce su uno dei fenomeni controculturali più  controversi e dimenticati degli ultimi decenni: il punk rock italiano.

A Federica, lunare, enigmatica e perduta punk veneta

“Non sognare, fallo”. Questa scritta campeggiava su alcuni muri della mia città fra gli anni ’70 e gli anni ’80. E forse qualcuna ancora resiste su qualche muro sbrecciato delle sue periferie. Si trattava di uno slogan fatto proprio dalla più famosa punk band della zona, i Fall Out e che esprime bene la filosofia di vita di quell’universo magmatico che è stato il punk italiano. Mi è tornata in mente visionando compulsivamente, in questi giorni di forzata staticità, alcuni documentari sul punk rock italiano, uno dei fenomeni controculturali più mistificati e dimenticati fra tutte le sottoculture giovanili che si sono succedute negli ultimi decenni nel nostro paese. Eppure, al di là degli elementi di autobiografismo, di scarso interesse in questa sede, in quei confusi e violenti semi di rivolta erano contenute alcune riflessioni sulle dinamiche che muovono la  nostra società e sulle sue distorsioni socio-culturali che in qualche modo hanno resistito al tempo e tornano periodicamente in scena come un fiume carsico che ribolle sotto la superficie apparentemente pacificata dei nostri stili di vita occidentali. E’ opportuno però porsi qualche domanda. 



Quando nasce il punk italiano e perché? Si può dire che esso si manifesti chiaramente come tale nella seconda metà degli anni ’70 quasi in contemporanea con l’esplosione eclatante del fenomeno nel Regno Unito e in altri paesi europei. Sulle motivazioni invece il discorso si fa più complicato. Molti lo etichettano come un fenomeno imitativo rispetto al fenomeno cultural-musicale britannico che subito esplose con band diventate poi famosissime come Sex Pistols, Clash, Stranglers, Damned, Siouxsie and the Banshees, e decine di altre. Questa componente non può essere negata anche perché da sempre il pop-rock anglosassone ha goduto di una distribuzione e di una copertura mediatica capillare che ne hanno favorito la visibilità. Ma per quanto riguarda l’Italia il fenomeno si è subito caratterizzato per alcuni elementi che lo hanno differenziato dalla matrice britannica. Intanto la società italiana dei tardi anni ’70 era caratterizzata da una politicizzazione di massa e da una violenza politica sconosciuta in quel momento in Gran Bretagna. Il punk italiano infatti nasce come rifiuto di una politicizzazione fortissima che sul finire di quel decennio aveva assunto il colore livido del terrorismo e delle trame oscure degli apparati dello Stato contro la vita democratica. Ma anche di una ottusa e impersonale visione della vita e del mondo, filtrata attraverso gli occhiali miopi di ideologie consolidate, ma già scricchiolanti sotto i colpi dei mutamenti irreversibili in atto nel mondo della produzione e del consumo di massa. Inoltre in quegli anni erano ancora presenti, nei suoi aspetti più opprimenti, i pesanti condizionamenti etici di una società ancora fortemente pervasa  dalla morale cattolica. Quindi il punk italiano si caratterizza subito per un elemento che segna una netta rottura con questo stato di cose, e cioè l’ironia. 




Questo aspetto emerge chiaramente nel documentario “Il punk italiano. Le radici 1977-1982” di Angelo Rastelli (https://www.youtube.com/watch?v=h2cxE-mZ4-c) del 2005, che non a caso inizia con le immagini di repertorio dell’eterno Giulio Andreotti che entra al senato, ma anche con quelle di scontri di  alcuni manifestanti contro la polizia e di allarmati titoli di giornale in montaggio alternato con quelle di giovani punk, accompagnate dalla canzone “Mamma, dammi la benza” dei Gaznevada, uno dei primi irriverenti gruppi punk italiani dell’epoca. Del resto, come afferma Freak Antoni, leader di un altro gruppo punk icona dell’epoca, gli Skiantos, “furono individuati due bersagli, due protagonisti del periodo che erano da una parte il carabiniere e  dall’altra parte l’autonomo. In qualche modo una presa in giro a 360°: la presa in giro dello stereotipo del carabiniere, ma con altrettanta convinzione e determinazione la presa in giro dello stereotipo del settantasettino, movimentista, autonomista e barricadero. La demenza è una piccola invenzione degli Skiantos, insieme al rock demenziale che è una forma particolare di punk rock”. Ironia, sarcasmo corrosivo, sberleffo situazionista (impagabile la scena in cui gli Skiantos durante un concerto smettono di suonare e, con degli scolapasta in testa, cominciano a cucinare una enorme pentola di spaghetti chiedendo al pubblico come li preferiscono) sono quindi gli aspetti più evidenti di questa prima fase del punk rock italiano, confermato anche dalle altre numerose interviste con giornalisti come Michel Pergolani, Red Ronnie, Claudio Sorge, e con alcuni dei protagonisti musicali più o meno noti di quel momento come Enrico Ruggeri (Decibel), Ivan Cattaneo, Gianni Muciaccia (Kaos Rock), Tony Face (Not Moving), Steno (Nabat), Sandro Raffini (Gaznevada), Helena Velena (Raf Punk), ecc. Anche se non vanno dimenticati altri aspetti  importanti del fenomeno punk di quegli anni come la centralità di una città come Bologna, che, per le sue specifiche caratteristiche (una “metropoli provinciale”, la definisce in ossimoro sempre Freak Antoni) di città universitaria cosmopolita e aperta alle correnti politiche e culturali più avanzate (il movimento del ’77 in fondo nasce e muore lì), senza perdere nello stesso tempo le proprie radici rurali nella sterminata pianura padana, assume subito un ruolo carismatico e catalizzatore. Come anche non va dimenticata la capacità di autorganizzazione sul piano produttivo (il “do it yourself”, uno degli slogan più diffusi all’epoca) che porta alla nascita di numerose case discografiche (la Italian Records di Oderso Rubini su tutte) che sostengono queste prime esperienze musicali. Per non parlare del rivendicato dilettantismo in fatto di formazione musicale, con molti giovani punk che prendevano in mano uno strumento musicale per la prima volta in vita loro poco prima di esibirsi su un palco, contro i noiosi leziosismi sonori e le vuote narrazioni fantastiche dei testi di molti gruppi progressive che andavano per la maggiore in quegli anni e si astraevano da una realtà sociale e culturale che premeva per esprimersi in modo più diretto. Insomma c’era una scena che voleva prendere la parola e fare un bagno di realtà e il punk era una buona arma a disposizione. 



Questa prima fase ironica e spregiudicata, come fanno capire anche alcune delle interviste sul finale del documentario, si conclude però quando la violenza politica comincia a conquistare il centro del palcoscenico, insieme ad altri fenomeni tragici come la diffusione di massa delle droghe pesanti, in particolare dell’eroina, che tagliano le gambe al movimento punk e lo costringono ad esprimersi sotto altre forme e in altri luoghi più chiusi come i centri sociali che si moltiplicano durante tutti gli anni ’80 e anche oltre un po’ in tutta Italia. 
Due documentari, in particolare, raccontano bene questi mutamenti del fenomeno punk italiano: “Italian Punk Hardcore 1980-1989” di Angelo Bitonto, Giorgio S. Senesi, Roberto Sivilia (https://www.youtube.com/watch?v=g2idFNnFhjM&t=10s) del 2015 e “Punx. Creatività e rabbia” di Ermanno Guarnieri (https://www.youtube.com/watch?v=_dthTdF5hcg), realizzato originariamente nel 1984, ma remixato e restaurato nel 2005. 
Italian Punk Hardcore 1980-1989” racconta questa evoluzione della scena punk italiana, in modo quasi didascalico con la sua divisione in nove capitoli (Le origini, Le città e i centri nevralgici, Le band, L’autoproduzione e le etichette indipendenti, Le fanzine e il passaparola antagonista, Il rapporto antagonista tra punk e stampa, I concerti, Le droghe, L’apice e il declino), la sua parabola dalla nascita e dal sogno di autodeterminare la propria vita e di poter esprimere la propria individualità fuori da qualsiasi condizionamento sociale fino al suo declino (“punk is dead”). “Nessuno ha il diritto di decidere la nostra vita”, si legge su uno striscione alle spalle di un gruppo punk che si sta esibendo davanti al suo pubblico in uno dei tanti filmati amatoriali dell’epoca di cui è costellato il documentario, ma il concetto è ulteriormente chiarito dalle varie interviste che si succedono, in particolare in quella di Helena Velena dei bolognesi Raf Punk (“la storia è nostra, la musica è nostra”), in cui la consapevolezza della propria diversità e della sua intrinseca politicità è espressa molto chiaramente. “Il punk è energia, il punk è sicuramente una rabbia a tutto tondo, ma è sicuramente una rabbia a tutto tondo contro il sistema, contro una società autoritaria, repressiva, contro una società che sostanzialmente consegna i propri membri ad una quotidianità fatta di malessere diffuso”, racconta invece con grande lucidità un certo Enrico (cognome non specificato) degli Infezione di Modena. Il documentario ha anche il merito di mettere in luce altri aspetti della scena punk italiana. Per esempio, riguardo ai suoi centri di espressione e divulgazione del fenomeno (capitolo 2 Le città e i centri nevralgici), segnala un’importante novità rispetto alla fase precedente. Se nella prima  parte della sua storia Bologna era il centro riconosciuto del movimento punk italiano, nel suo sviluppo anni ’80 si nota un progressivo decentramento del fenomeno. Quindi non più solo Bologna, ma anche altre città emergono come centri di diffusione di questo humus culturale, anche se Milano, soprattutto con i suoi affollati centri sociali come il Leoncavallo, il Virus, ecc. e la sua politicità intrinseca emerge progressivamente come città leader. Le interviste a molti dei protagonisti dell’epoca lo rilevano chiaramente. Il punk si diffonde come un virus nella sterminata provincia italiana e contamina per la prima volta molte altre città, grandi e medio-piccole, Torino, Alessandria, Ferrara, Modena, Pisa, Napoli, Trieste, Bari, Grosseto, Verona, Macerata, Firenze, Piacenza, Udine, Roma, Palermo, Lucca, La Spezia, ecc. con una miriade di band dai nomi duri e fantasiosi (Raf Punk, I Refusi It,  Nabat, Cheetah Chrome Motherfuckers, Crash Box, Chain Reaction, Rappresaglia, Negazione, Indigesti, Candeggina Gang, Fall Out, ecc.), anche totalmente femminili, che cominciano a realizzare ed a sviluppare criteri e metodi di distribuzione dei propri prodotti culturali mai utilizzati prima di allora. Nascono centri sociali un po’ in tutta Italia (famosi il Mongolfiera di Modena, il Victor Charlie di Pisa, lo Zeta X di Napoli) e un po’ ovunque (perfino le sale parrocchiali non vengono risparmiate) che diventano vettori di una creatività di massa, non solo musicale (in quel periodo si sviluppano moltissimi progetti che riguardano altri ambiti culturali come fumetti, video, teatro, cinema, editoria, ecc.), che si avvale di metodi produttivi e nuovi canali distributivi. Un ruolo decisivo lo assumono le fanzine, cioè le piccole riviste autoprodotte e autodistribuite da parte di chi le realizzava avvalendosi di tecniche basic come la fotocopiatrice, le forbici o addirittura la fattura a mano e il più diffuso dei canali di diffusione dell’epoca, l’ufficio postale, quando non addirittura, la distribuzione diretta da parte di eroici “postini” punk che partivano dalla propria città in automobile o in treno e portavano queste piccole pubblicazioni, ricche di informazioni e articoli riguardanti concerti e band della scena punk, ma anche tematiche nuove come il femminismo, la vivisezione, il vegetarianismo, l’antimilitarismo, ai concerti, nei centri sociali, nei negozi di dischi “amici”, o direttamente nelle case dei simpatizzanti, con cui magari avvenivano scambi di materiale simile da riportare poi nel proprio ambiente di provenienza. Insomma, una sorta di “rete comunicativa” che anticipava concettualmente l’idea di rete affermatasi con internet e i social network. Una comunità di persone che si disgrega alla fine degli anni ’80 sotto i colpi della repressione poliziesca, con lo sgombero dei luoghi in cui questa scena culturale si esprimeva, ma anche a causa di limiti intrinseci alla visione del mondo e della vita dei punk.





Molto significativo in questo senso è il documentario “Punx. Creatività e rabbia” di Ermanno Guarnieri, incentrato sul punk milanese degli anni ’80 e soprattutto sul locale simbolo dell’epoca, il Virus, ma estremamente utile per capire pregi e difetti del movimento punk italiano nel suo insieme, soprattutto se si tiene conto dello sfondo socio-economico sul quale emerge e si sviluppa il punk non solo come musica, ma anche come cultura antagonista. Il documentario di Guarnieri assume un’importanza storica più forte di altri perché realizzato nel 1984 (era allegato ad un libro di Stampa Alternativa sul punk italiano) e restaurato nel 2001. Una fotografia in presa diretta del punk italiano, emblematica fin dalle immagini di apertura, con giovani punk che si aggirano in un capannone industriale abbandonato, che poi diventerà il locale simbolo dell’epoca, il Virus di Milano, come a segnare anche a livello simbolico l’effettivo trapasso in corso in quegli anni dalla fabbrica alla società postindustriale, con i luoghi della produzione manifatturiera sostituiti da centri autonomi di produzione culturale: colonna sonora la musica punk, i conduttori di Radio Popolare, una delle prime radio libere italiane, attiva fin dagli anni ’70, e i giovani che intervengono durante i suoi programmi. Ma al di là dell’aspetto musicale che per larghi tratti del documentario appare marginale rispetto all’esprimersi di una realtà culturale a tutto tondo ed al significato politico fortissimo che essa assume subito, “Punx. Creatività e rabbia” racconta in modo molto efficace l’energia, la voglia di esprimersi incontenibile a tutti i livelli, il dinamismo esistenziale e culturale di una comunità di giovani decisi a ripensare, a rifiutare ed a cambiare i paradigmi etici e sociali, i ruoli di genere, le gerarchie professionali, l’edonismo anestetizzante sparso a piene mani dal potere politico ed economico, dominanti nell’Italia dell’immobilismo democristiano, dello yuppismo craxiano e delle emergenti televisioni di Berlusconi. Uno spazio importante lo assume, rispetto ad altri filmati di argomento analogo, la componente femminile del movimento, con alcune delle analisi più lucide e lungimiranti sui possibili sviluppi e sugli oggettivi limiti del punk e di analoghi movimenti antagonisti contemporanei e successivi. “La donna va un po’ dietro al punk maschio, un po’ macho, cattivo. Le donne punk vengono viste come fighe anche dai punk stessi”, afferma una di loro durante una bellissima discussione a più voci. E poi, più avanti, aggiunge: “Posso fare i più bei discorsi del mondo, però guardo anche la realtà. Anche noi punk siamo contro tante cose, vorremmo fare tanto, e poi…poi non facciamo niente. Per cui non puoi non sentire questa impotenza. C’è il nostro discorso, però c’è il discorso più completo di tutto il resto, di tutti, non solo di noi punk. Che cosa stiamo facendo? (…) Che cosa si riuscirà a fare? La repressione è troppo grande. Per cui mi chiedo: dopo verranno altre cose, o potrà anche non venire niente. E’ questa l’impotenza che sento. Dico no a tutte le ideologie, ma in fondo spero che non ci sia sempre la merda che c’è adesso. Siamo tutti bravi a parlare. Poi alla fine riusciamo a fare ben poco”. Il no del rifiuto, ma anche la difficoltà a costruire quel mondo nuovo che anche il punk, sulla scia dei movimenti giovanili di protesta che hanno attraversato il tardo Novecento, sogna, appare quindi il punto debole di tutto il movimento. Raccontato anche da due momenti che il documentario sottolinea, come la protesta situazionista dei giovani punk che, durante un convegno di sociologi che presentano un lavoro di ricerca sul punk milanese, si tolgono le camicie e si tagliano il petto con le lamette, e lo sgombero del Virus, con il malinconico corteo giovanile che attraversa le vie della città urlando slogan minacciosi sotto le finestre di una Milano sostanzialmente indifferente. 



Negli anni ’90 il punk non muore, ma si trasforma in un’interessante corrente musicale, che arriva anche ad un certo successo commerciale (basta pensare al successo di punk band d’oltreoceano come Green Day, Offspring, Bad Religion o a quello nostrano, relativo, di band come i CCCP, poi CSI, o come i Punkreas, Persiana Jones, Derozer, Shandon, ecc.), evoluzione che è al centro del racconto di un altro documentario del 2019, “La scena. Il punk italiano degli anni ’90” (https://www.youtube.com/watch?v=FgPtsEnf4cE) dei fratelli Marx (Silvia, Diego e Beppe Marchesi). Il punk sopravvive anche negli anni ’90 continuando a frequentare molti degli stessi luoghi che lo avevano visto protagonista negli anni ’80, come i centri sociali, ma, al di là dell’aspetto musicale, sembra aver perso la sua carica eversiva, la sua caratteristica di espressione controculturale per adagiarsi all’interno del contenitore più rassicurante, più catalogabile e quindi più appetibile commercialmente che potremmo definire come “ribellione adolescenziale”. Lo confermano anche molti dei protagonisti nelle numerose interviste del documentario quando, affermano si di voler azzerare quella distanza fra musicisti e spettatori che è sempre stato uno degli obiettivi intrinseci del punk, ma all’interno di una scena sempre meno politicizzata. “Basta politica! Birre, ragazze, vita!”, dichiara convintamente uno degli intervistati. L’analisi più interessante di tutto il fenomeno è quella espressa da Marco Philopat, scrittore e agitatore culturale milanese, attivo fin dai primi anni ’80, quando afferma: “Lo scrittore americano David Forster Wallace ha fatto un quadro degli anni ’90 come se fosse un grande party nella società. Soprattutto per i giovani dai 16 ai 24 anni che avevano attraversato quel periodo lì sembrava una grande festa. Tutto andava bene. Anche i centri sociali stessi erano pieni di gente, con il fenomeno delle posse che vendevano un sacco di dischi, come i 99 Posse. Quindi c’era questo big party come lo chiamava Forster Wallace. Poi di colpo ci si è resi conto che la festa era finita”. Sta iniziando un’altra storia, quella del movimento no global. “Questo abbaglio che ha colpito il movimento no global e con loro la scena degli anni ’90 si è infranto con il G8 di Genova e il crollo delle Torri Gemelle. La crisi che è venuta dopo coinvolge al scena punk degli anni ’90, ma anche i centri sociali stessi che per tutti gli anni 2000, fino al 2009, vivono dell’eredità della grande esplosione degli anni ’90 e delle tematiche che erano state elaborate dopo il Virus negli anni ’80. Vivono di rendita”. Altri affermano invece che comunque nel fare una fanzine o un gruppo punk continua a sopravvivere un elemento politico. “L’attitudine punk”, continua Philopat, “è molto vicina al pensiero anarchico, al pensiero libertario del non volere un padrone ma anche nel non essere capace di esercitare il potere, nel non essere capace né di comandare, né di essere comandato, credo che sia ancora il denominatore comune dei punk degli anni ’80, degli anni ’90 e di quelli di adesso, perché esiste anche adesso una scena underground. In questa dicotomia esistenziale, il punk è un po’ difficile da omologare o da sfruttare. (…) C’è un autore americano che proviene dall’esperienza controculturale degli anni ’60 che si chiama Hunter Thompson che dice che se un popolo ogni 25 anni non fa una rivoluzione genera mostri omologati e conformisti. (…) Ci sono ancora oggi dei punk ventenni che rappresentano una scena molto simile a quella degli anni ’80 come numero e come radicalità. (…) Chi è stato punk non può far altro che portare dei piccoli mattoni, e io in particolare porto libri, per la costruzione di una rivoluzione futura”. 



Concetti che Philopat esprime anche in un bel libro a più voci da lui curato, e disponibile in rete in libera lettura, che si intitola “Lumi di Punk. La scena italiana raccontata dai protagonisti” (http://www.drexkode.net/PageContents/Saggi/Lumi%20di%20punk.pdf), che racconta in modo chiaro e partecipato la parabola di tutto il movimento punk italiano, dai suoi esordi negli anni ’70 agli anni 2000. Insomma “punk is dead”, il punk è morto, ma finché ci sarà qualcuno che avrà voglia di rivendicare ciò che si è, di esprimere liberamente il proprio immaginario, la propria idea estetica fuori dal coro, il punk resterà un punto di riferimento, anche se magari non si chiamerà più così.
Giovanissime antenne sono forse già attive in appartate cantine per elaborare suoni e concetti estranei alla vita adulta e ai suoi ammuffiti paradigmi, per tentare di cambiare questo mondo. In fondo tutta la scena rap e hip hop deviante molto amata dagli adolescenti di oggi con i loro suoni duri, i testi incendiari, la filosofia di vita ‘contro’, la ribellione che cova sotto la cenere, l’autoproduzione rivendicata e realizzata, lo dimostra. Non è ancora una certezza, ma una luce di speranza in tempi bui come quelli che viviamo.


Marcello Cella

Abbiamo parlato di
- Il punk italiano. Le radici 1977-1982 di Angelo Rastelli (2005)

  • Italian Punk Hardcore 1980-1989 di Angelo Bitonto, Giorgio S.   Senesi, Roberto Sivilia (2015)

  • Punx. Creatività e rabbia di Ermanno Guarnieri (1984-2005)

    • La scena. Il punk italiano degli anni ’90 dei fratelli Marx (Silvia e Diego Marchesi)