giovedì 18 marzo 2010

Gli africani salveranno Rosarno, Italia? Cronache dal Sud del Sud del mondo attraverso un libro e un documentario

Gli africani salveranno Rosarno, Italia?

Cronache dal Sud del Sud del mondo attraverso un libro e un documentario


Antonello Mangano, giornalista autore del libro “Gli africani salveranno l'Italia” (già “Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente, anche l'Italia”) sarà alle 17.30 al Polo Carmignani in Piazza dei Cavalieri per un incontro-dibattito organizzato dai Collettivi studenteschi e preceduto dalla proiezione del documentario “Il tempo delle arance” di Nicola Angrisano. Mentre alla sera, alle 21.15, presso il centro sociale Rebeldìa in via Battisti 51, parteciperà, insieme alla videomaker Ilaria Sposito, ad un'iniziativa organizzata da Emergency, Gruppo Jagerstatter per la nonviolenza e Rete Lilliput all'interno della quale verrà proiettato in anteprima il documentario “La terra (e)strema” di Enrico Montalbano, Ilaria Sposito e Angela Giardina.


Quanto costa il cibo che portiamo in tavola ogni giorno? Cosa c'è dietro certi prezzi dei prodotti agricoli che compriamo ogni giorno nei mercati rionali, ma ancora di più nei supermercati della grande distribuzione? Quanto sangue, quanta disperazione, quanto sfruttamento, quante vite buttate via ci sono nei pomodori, nelle arance o nelle patate che rallegrano le nostre cucine? Questo potrebbe essere il sottotitolo delle iniziative cui parteciperà oggi a Pisa Antonello Mangano, autore di un piccolo libro importante, “Gli africani salveranno l'Italia”, balzato agli onori delle cronache non tanto per la sua indubbia qualità, ma per il tema di cui si occupa, lo sfruttamento degli immigrati stranieri nell'economia agroalimentare della Calabria, esploso sui media dopo i tragici fatti di Rosarno e la rivolta dei lavoratori migranti africani contro i soprusi delle mafie locali. Un libro che non è solo la cronaca di un problema sociale che attraversa il sud Italia (e non solo) da almeno una ventina d'anni, anche se invisibile all'opinione pubblica resa spesso cieca e sorda da un'informazione che non racconta i fatti o che produce narrazioni che non informano, ma che costituisce anche uno specchio deformato di cosa sta diventando oggi l'Italia. Non solo il sud, non solo Rosarno. Il microcosmo di Rosarno, una piccola cittadina calabrese apparentemente marginale, assume infatti nel racconto di Mangano il ruolo emblematico di una scena teatrale in cui sono riprodotti in piccolo tutti gli attori che popolano la scena mediocre e violenta dell'Italia di oggi. Un teatro in cui sono ben rappresentati e riconoscibili in modo, a tratti, perfino didascalico gli oppressori e gli oppressi, chi sfrutta e chi è sfruttato, chi spara e chi viene sparato, le motivazioni per cui lo fa o lo subisce, senza dimenticare però il contesto economico globale che sta sullo sfondo, ma che è il vero deus ex machina del set da film western che si chiama Rosarno, Italia. Con i pistoleri pagati dai poteri politico-economico-affaristici mafiosi che controllano il territorio per seminare il terrore fra i poveri braccianti stranieri che devono sottostare alla legge del più forte, subire le vessazioni più umilianti. Finchè non ce la fanno più, la misura è colma e la classica goccia che fa traboccare il vaso innesca la loro ribellione. Questo copione che potrebbe essere benissimo quello di un film western di Sergio Leone o di Sergio Corbucci è ciò che attraversa le pagine del libro di Mangano che ha il grande merito di non limitarsi all'analisi dello stato di cose presenti, ma di evocare anche quel sud, dimenticato troppo in fretta e messo a tacere, spesso per sempre, che ha lottato nel corso del tempo contro quel potere affaristico-mafioso che ha impedito il suo equilibrato sviluppo sociale, economico e culturale soffocandolo nell'illegalità e nel privilegio. Nell'illegalità del privilegio. Un Sud resistente che forse riuscirà a rialzare la testa e a riacquistare la propria dignità con l'aiuto di quei giovani neri, che molti italiani indegni vorrebbero utilizzare solo per perpetuare nel tempo il dominio della propria ricchezza volgare e ignorante. Come le cose abominevoli che alcuni rosarnesi raccontano con indifferenza e soddisfazione alla telecamera di Nicola Angrisano nel documentario “Il tempo delle arance”, prodotto proprio nel gennaio di quest'anno, a ridosso della rivolta dei lavoratori migranti. Mangano racconta tutto ciò con un linguaggio veloce ed efficace in cui si mischia la sintesi nervosa della cronaca, la rabbia dell'impegno civile, l'analisi dello storico, e la maestria del narratore che con pochi tratti essenziali sa disegnare un paesaggio storico, umano e sociale in cui si concentrano tutte le contraddizioni violente e le ambiguità vischiose della nostra epoca. Un mondo contemporaneo che recita a soggetto sulle scene della cronaca, ma che viene da lontano.

Lontano come l'antica leggenda di Acqua di Cielo che un musicante e attore come Sebastiano Marino racconta all'inizio di “La terra (e)strema”, documentario realizzato a sei mani da Angela Giardina, Enzo Montalbano e Ilaria Sposito e che presto sarà allegato alla rivista Carta. Storia di sogni e illusioni vendute a basso prezzo e pagate molto care, con la vita, da chi si è fatto convincere che dall'altra parte del mare la pesca fosse più buona e la vita più facile e che per questo inganno ha perso tutto, anche sé stesso, prima di accorgersi che tutto era “andato a patate”, cioè in niente, secondo una colorita espressione siciliana. “La terra (e)strema”, ci racconta di un altro microcosmo, al di là dello Stretto di Messina, quello della zona dei grandi centri agricoli compresi fra i comuni di Alcamo, Siracusa, con il borgo di Cassibile, Pachino, Vittoria, Campobello di Mazara dove avvengono le grandi raccolte stagionali. Un viaggio che attraversa trasversalmente da est a ovest la Sicilia e che parte dall'immaginario così ricco e avvolgente della sua cultura per arrivare ad un oggi fatto di sfruttamento del lavoro migrante, ma anche di sfruttamento violento ai danni dei piccoli e medi agricoltori, ridotti spesso in povertà e strangolati economicamente dai prezzi imposti dalla grande distribuzione alimentare che li costringe ad adattarsi, e quindi a sfruttare ferocemente i lavoratori stranieri, oppure a chiudere l'attività. Un meccanismo spietato che non prevede il rispetto di storie e culture, ma solo la sopraffazione del più forte sul più debole. Anche in questo caso una specie di Far West dove nessuno degli attori sulla scena vince ma tutti soccombono, un gioco truccato dove nessuno dei giocatori vince perchè vince sempre il banco che però non sta sulla scena dove scorrono sangue e lacrime, ma dietro le quinte rispettabili dei salotti buoni della finanza e dell'economia (criminale).

C'è una frase di una delle persone intervistate che colpisce molto ad un certo punto di “La terra (e)strema” e riguarda il comportamento dei siciliaani nei confronti dei lavoratori stranieri. Dice infatti l'intervistato che gli anziani li trattano sempre con rispetto perchè ricordano quando loro stessi facevano la loro stessa vita in qualche altra terra straniera qualche decennio fa. Poi c'è una fascia d'età intermedia che oscilla fra l'indifferenza e il fastidio. Quindi i giovani che non sanno nulla né della storia dei lavoratori migranti, né della propria e che sono i più intolleranti. Un vuoto di memoria a cui si potrebbe idealmente contrapporre la scena in cui un lavoratore maghrebino prepara con meticolosità e gentilezza il thè, probabilmente l'unica cosa che possiede, in un accampamento improvvisato e lo serve ai suoi ospiti italiani. Un'antica consuetudine contro un vuoto di memoria e di identità che può generare mostri.

Confrontando le due scene di questo documentario oppure le parole piene di dignità e di indignazione civile dei lavoratori migranti rispetto a quelle violente e vuote degli italiani del documentario “Il tempo delle arance”, viene davvero voglia di dare una risposta positiva al titolo del libro di Antonello Mangano, “Gli africani salveranno l'Italia”. Si, gli africani, e anche tutti gli altri lavoratori immigrati che colorano le strade delle nostre città di nuove sfumature e di nuovi suoni, salveranno l'Italia. Sono davvero la nostra ultima possibilità di restituire dignità al cumulo di macerie morali e materiali della disastrata Rosarno in cui si è trasformata il nostro Paese.

E se anche proprio non riusciranno a salvarci, almeno non ci lasceranno soli a combattere contro le mafie politiche e criminali che ci governano e a morire di noia nella mediocre e volgare Italietta berlusconiana.



Marcello Cella


domenica 14 marzo 2010

Documentario "La Terra (E)strema", Ilaria Sposito e Antonello Mangano a Rebeldìa, giovedì 18 marzo alle 21,15


Giovedì 18 marzo 2010 alle ore 21.15 presso il centro sociale Rebeldìa in via Battisti 51 a Pisa verrà proiettato il documentario "La terra (E)strema" di Angela Giardina, Enrico Montalbano e Ilaria Sposito. Al termine incontro-dibattito con una delle autrici, Ilaria Sposito, e con Antonello Mangano scrittore e giornalista, autore del libro "Gli africani salveranno Rosarno (e, probabilmente, anche l'Italia)". Organizzano Gruppo Jagerstatter per la nonviolenza, Emergency Pisa, Rete Lilliput, Nodo di Pisa e Africa Insieme.

"Il racconto di "La terra (E)strema" si snoda dall'est all'ovest della Sicilia, sui territori delle grandi raccolte stagionali che vede come protagonisti grandi centri agricoli come i comuni di Alcamo, di Siracusa con il borgo di Cassibile, Pachino, Vittoria, Campobello di Mazara. E' u racconto delle "campagne" e dei soggetti che compongono la produzione e il sistema agricolo, soggetti che sono diventati invisibili ai più, al mondo urbano e metropolitano: il piccolo produttore, che diviene bracciante di sè stesso, e il bracciante straniero, che lavora per due soldi, nella maggior parte dei casi senza contratto, senza casa e costretto a ripiegare su un sistema di accoglienza ambiguo e simulatore. La dura giornata di lavoro dei raccoglitori stagionali che inizia all'alba e finisce al tramonto, si inserisce all'interno del quadro complesso della trasformazione del lavoro in agricoltura, in un sistema economico che piega i piccoli coltivatori, che sfrutta i lavoratori stagionali e che, come nelle migliori tradizioni, rende le grandi imprese sempre più irraggiungibili sul piano della competizione. Ma c'è qualcosa che rende "resistenti" le voci di questo film..." (dalla presentazione de "La terra (E)strema").

Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2010 Rosarno è balzata all’attenzione dei media per ben due volte. Sfruttati, ammassati in baraccopoli, emarginati e spesso aggrediti, in un crescendo di tensione e violenza i migranti lottano per il diritto al lavoro ma anche per quello alla vita. In un comune commissariato per infiltrazioni mafiose, la voce degli africani è l’unica a levarsi con forza contro le ’ndrine, e a far paura al sistema.

Il libro di Antonello Mangano è un’analisi storica ed economica che spiega come e perché siano proprio gli stranieri a reagire dove gli italiani si sono abituati ad accettare, vittime del racket e delle intimidazioni. Saranno gli immigrati a salvare Rosarno e forse l’Italia: “Non hanno un tetto, non hanno soldi, vivono in condizioni limite. Al Nord non trovano lavoro, ma un clima di razzismo. Al Sud la situazione è spesso disumana. Indirettamente, in modo forse non cosciente, la loro è una reazione alla mafia, a una situazione che la mafia contribuisce a produrre”. Una tesi coraggiosa, che spiega come le ribellioni di Rosarno siano soprattutto una lotta alla ’ndrangheta, che può dare la spinta a un Paese da troppo tempo rassegnato alla malavita.

"Pochi anni fa, nella primavera del 2006, Alfonso Di Stefano, che allora faceva parte della Rete Antirazzista Siciliana, ci dava brutte notizie da Cassibile, frazione a sud di Siracusa, ex borgo del marchese omonimo, e fiorente appezzamento di terra per la produzione di fragole e patate. Il 4 giugno veniva dato fuoco a uno degli accampamenti di fortuna dei braccianti stranieri, bruciate una ventina di tende, ma fortunatamente senza vittime. Le voci che ci giungevano parlavano di atti intimidatori per allontanare i sudanesi e i marocchini dal paesino, perché oramai la raccolta delle patate era finita. A Cassibile si radunavano diversi stranieri per lavorare alla raccolta stagionale in campagna, accampati un po' alla rinfusa sui terreni a ridosso del vecchio borgo, col consenso del marchese e assistiti dai volontari di Medici senza Frontiere; mal visti però da una parte dei cassibilesi urtati dai braccianti neri e nordafricani che si lavavano alla fontana della piazza al ritorno dai campi.
E' da qui che nasce l'idea del film La Terra (e)strema. Dall'ennesimo atto intimidatorio, come quelli che si ripetevano e tutt'ora si ripetono di anno in anno ad Alcamo per la raccolta dell'uva. E' la voglia di raccontare campo dopo campo le storie di nuovi nomadi, i nuovi braccianti, che da una stagione all'altra si muovono attraverso il sud Italia. Un sud che fa da mappa e calendario per
migliaia di migranti, che si spostano per raccogliere il minimo per la sopravvivenza in condizioni più o meno disumane, tra lavoro grigio e lavoro nero: in inverno in Calabria in primavera in Sicilia in estate in Campania e in Puglia e di nuovo a settembre in Sicilia. Un sud non solo che è campo alla frontiera con i suoi Cie e Cara, cioè con i suoi luoghi d'internamento, ma che diventa campo d'internamento a cielo aperto e senza filo spinato per chi ci vive, lavora e talvolta muore in quelle condizioni.
Il nostro sud, dove il salario dei braccianti al nero è andato negli anni al ribasso. Da una paga giornaliera di 45 euro si è arrivati anche a paghe di 12 euro e 50 centesimi al giorno o, come preferiscono metterla certi padroncini “25 euro per due”. L'avvicendarsi, ma più spesso il venirsi a sommare, di nuovi stranieri, con nazionalità diverse, sul mercato del lavoro in agricoltura ha fatto si che dai tunisini agli africani ai polacchi e poi ai rumeni e ai bulgari si arrivasse a paghe in nero tali da non giustificare forse più il progetto migratorio per il quale si era arrivati in Italia. Lo scorso autunno in un viaggio reportage dalla Sicilia alla Romania su pulman pendolari abbiamo incontrato molti uomini rumeni, lavoratori in agricoltura in Sicilia, che non sarebbero più ritornati indietro: non valeva più la pena. Loro l'hanno potuto fare. Ma ormai in una sorta di circolo vizioso, la paga per 10-12 ore di lavoro si attesta sui 20-25 euro, e non solo perché c'è di mezzo la 'ndrangheta in Calabria o la mafia in Sicilia, ma anche perché tutto il mercato è in mano alle 4-5 grandi catene di distribuzione che decidono il prezzo per tutti. Non ha importanza il costo di un grappolo d'uva o di
un chilo di pomodoro, la grande distribuzione lo compra a quel prezzo. La questione è ovviamente molto più complessa e bisognerebbe fare dei distinguo per il Sud dove gli agricoltori e i piccoli produttori non hanno saputo trovare forme di organizzazione tali da consentirgli la sopravvivenza, dove per molti anni i piccoli produttori hanno costruito la loro ricchezza sull'agricoltura come
seconda attività e tutt'oggi pretenderebbero di mantenere quegli standard a spese di braccianti stranieri pescati all'alba nella piazza del paese, tanto “a loro 25 euro bastano e avanzano”. Di tutto questo parla il nostro film “la terra (e)strema”. Un racconto che si snoda dall'est all'ovest dell'isola, sui territori delle grandi raccolte stagionali, che vede come protagonisti grandi centri agricoli come i comuni di Alcamo, di Siracusa con il borgo di Cassibile, Pachino , Vittoria, Campobello di Mazara. E' un racconto delle “campagne” e dei soggetti che compongono la produzione e il sistema agricolo, soggetti che sono diventati invisibili ai più, al mondo urbano e metropolitano: il piccolo produttore che diviene bracciante di se stesso, e il bracciante straniero, che lavora per due soldi, nella maggior parte dei casi senza contratto, senza casa, e costretto a ripiegare su di un sistema di accoglienza ambiguo e simulatore. La dura giornata di lavoro dei raccoglitori stagionali che inizia all'alba e finisce al tramonto, si inserisce all'interno del quadro complesso della trasformazione del lavoro in agricoltura, in un sistema economico che piega i piccoli coltivatori, che sfrutta i lavoratori stagionali e che, come nelle migliori delle tradizioni, rende le grandi imprese sempre più irraggiungibili sul piano della competizione.
Nel prologo del film il musicista Sebastiano Marino racconta la leggenda di Acqua di Cielo, storia la sua, che va a finire a 'patate'... un modo per dire, in siciliano, il niente, il nulla. E il nulla o niente sembra essere quello che trovano molti protagonisti di questo documentario sul mondo dell'agricoltura e della sua trasformazione in Sicilia. Ma c'è qualcosa che rende 'resistenti' le voci di questo film..."
Ilaria Sposito

martedì 9 marzo 2010

Gli occhi di Mandra e il sorriso di Andreea - Diario di un ritorno negli orfanotrofi della Romania

Gli occhi di Mandra e il sorriso di Andreea

Diario di un ritorno negli orfanotrofi della Romania

di

Marcello Cella


Vivo solo dove vivi tu

E respiro se respiri tu

Non ci sono ma e nemmeno se

Quando scelgo te e tu scegli me


Una casa si costruisce da sé

Solo dentro le favole

Di chi ti vuole far credere

A un mondo che non c’è


Raiz, “Scegli me”


Sono tornato in Romania. Non era scontato dopo l’esperienza abbastanza scioccante di due anni fa. Ancora una volta ho scelto di fare un’esperienza di volontariato in alcuni orfanotrofi di questo paese con la stessa associazione con cui ero andato due anni fa, l’Associazione Bambini in Romania di Milano. Ci sono cose cui non si può sfuggire, è più forte di te. E’ che certe cose, certi volti, certe situazioni scavano dentro, lentamente ma inesorabilmente e al momento giusto tornano fuori come gli improvvisi zampilli d’acqua di una fontana che si credeva in secca. In questi ultimi due anni ho fatto altre esperienze di lavoro nel sociale, in un dormitorio per persone senza fissa dimora della mia città e in un centro di accoglienza per minori stranieri in una cittadina vicina. Ciò mi ha permesso di conoscere meglio le situazioni di marginalità più difficili e le dinamiche che le attraversano. Forse proprio l’esperienza vissuta in Romania due anni fa mi ha aiutato ad avere meno paura ad entrare in contatto con questi contesti sociali che, come si può facilmente immaginare, trovano gli immigrati, spesso proprio dall’est europeo, ai gradini più bassi e più bisognosi di aiuto. Quest’anno sono il referente del mio gruppo, cioè colui che deve coordinare le attività, affrontare le difficoltà interne ed esterne al gruppo dei volontari in missione. Anche il percorso di formazione è cambiato rispetto a due anni fa. L’associazione ha scelto di farci passare un fine settimana di maggio in una parrocchia di Quarto Oggiaro, estrema periferia di Milano, quartiere ‘difficile’ e dove il disagio giovanile (e non solo) è di casa, forse per farci abituare ad una situazione di emarginazione che ritroveremo, in parte, anche in Romania. In questo fine settimana di primavera inoltrata vengono organizzate attività ludiche e di comunicazione per permetterci di conoscere meglio gli altri componenti del gruppo con cui lavoreremo in Romania. C’è Gianluca, avvocato di Arcore, dalla parlantina sciolta e brillante, come il suo lavoro richiede, e dotato di una forte dose di competitività individuale. Ci sono due amiche giornaliste milanesi, Manuela e Alessandra P., bionde, inseparabili e piuttosto estroverse, con una certa dose di narcisismo congenito. Poi Alessandra C. e Raffaele, lei maestra d’asilo e lui operaio, bolognesi simpatici e solari. Infine Chiara, la più giovane del gruppo, piuttosto timida e poco espansiva. Manca solo Federico, giovane studente universitario e teatrante di Sondrio, che conoscerò in un successivo incontro a Milano agli inizi di luglio. Sono tutti alla loro prima missione di volontariato internazionale, a parte Federico che in Romania c’è già stato. Il 31 luglio partiamo da Malpensa, destinazione Brasov, una delle più importanti città della Transilvania. Ci attendono due settimane molto particolari sotto l’aspetto emotivo e, come sempre, ho anche una certa paura dell’aereo, ma per fortuna è una bellissima giornata di sole e il viaggio fila via liscio come l’olio. Mi diverto perfino ad osservare il movimento delle navi sul mare Adriatico, la scia che lasciano dietro di sé sull’acqua luccicante per i riflessi del sole. All’aeroporto ci attende il pulmino della fondazione romena Inima Pentru Inima (“Da cuore a cuore”, in romeno), con cui l’associazione collabora da anni, e la nostra guida, Adelina, una bella ragazza dai capelli corti rossicci e dagli occhi scuri e profondi, che seguirà i nostri passi cercando di facilitarci le cose ed aiutarci a superare ogni eventuale difficoltà per tutta la prima settimana della nostra permanenza in Romania.

All’uscita dell’aeroporto dobbiamo affrontare una folla di uomini e ragazzi dall’aspetto malandato che ci chiedono ripetutamente soldi in cambio di un improbabile aiuto a portare i bagagli. Non sono particolarmente aggressivi, e in cambio di qualche euro ci accompagnano ai due pulmini che ci attendono nel parcheggio senza problemi. Con noi parte anche un altro gruppo che pernotterà con noi, ma lavorerà in un altro orfanotrofio. Non è chiaro se lavoreremo con bambini piccoli o con ragazzi più grandi. So solo che l’orfanotrofio di Brasov cui siamo destinati ospita più di cento bambini piccoli di età compresa fra 0 e 6 anni. Ma, come per altre cose, in Romania non si ha mai la certezza di niente e quando si tratta di orfanotrofi ogni programma o idea precostituita rischia di essere spiazzata e resa vana da qualche repentina novità dell’ultimo momento da parte della burocrazia.

Partiamo quindi in pullmino, o, meglio, un maxitaxi, come vengono chiamati in Romania questi veicoli simili a dei taxi collettivi. Essendo salito per ultimo, per essere sicuro che tutti i bagagli siano stati caricati a bordo, mi tocca il posto fra l’autista, un uomo piuttosto corpulento e dall’espressione poco socievole, e Adelina, silenziosa e con un’espressione indefinibile disegnata sul volto. Quest’anno ho anche studiato un po’ di romeno per essere in grado di dialogare almeno un po’ con le persone con cui verremo in contatto. Ma Adelina non mi sembra molto loquace per cui mi limito ad osservare i paesaggi che attraversiamo, sballottato qua e là a causa delle manovre brusche dell’autista e della vetustà della vettura, ascoltando però con grande piacere le cassette di musica romena che l’autista di tanto in tanto inserisce a tutto volume nello scalcinato stereo del pullmino. Canzoni struggenti si alternano a ritmi furiosamente ballabili secondo le tradizioni di certa musica balcanica. Noto anche che sul cruscotto ci sono svariati piccoli ritratti di santi che rivelano una religiosità immediata e popolare non scevra da una certa superstizione, molto presente in Romania. Dopo aver costeggiato le squallide e inquietanti periferie di Bucarest, con i suoi grigi e cadenti palazzoni di cemento dell’era Ceausescu, ci addentriamo lentamente in un paesaggio molto diverso. Allontanandoci dalla città ci immergiamo sempre più in un paesaggio rurale, fatto di piccoli villaggi dalle casette basse e colorate e distese sterminate di pianura verde. Lungo la strada è facile incontrare banchetti improvvisati in cui i contadini vendono frutta, verdura o cestini di vimini agli automobilisti di passaggio oppure i classici carrettini trainati dai cavalli delle famiglie rom. In tutti i casi la varia umanità con cui veniamo in contatto visivo durante il viaggio non dà mai l’impressione di passarsela molto bene. Dopo esserci fermati per rifocillarci ad un autogrill lungo la strada in cui io ho approfittato della sosta per comprare e sorseggiare avidamente una Fanta ai frutti di bosco che ricordavo molto buona fin dalla mia precedente esperienza, ma che gli altri del mio gruppo schifano palesemente, la strada comincia a salire. Le montagne e le foreste dei Carpazi ci vengono incontro riempiendo la nostra vista di un verde ancora più scuro, intenso e abbagliante di quello delle pianure che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Ad un certo punto incontriamo anche il corteo di un matrimonio: una fila di automobili segue una piccola Dacia gialla, automobile tipica della Romania di un tempo, utilitaria dalla classica forma schiacciata e a punta sul davanti, cui sono attaccati barattoli rumorosi, fiori e nastrini colorati, all’interno della quale viaggiano i due sposi. Li osservo per un attimo e noto il sorriso tranquillo e vagamente malizioso della sposa. Verso le 19.00 giungiamo a Brasov. Le ombre del tramonto di una giornata piovosa si allungano sui quartieri periferici di palazzoni grigi che attraversiamo. Ma la nostra destinazione è un po’ più lontana. Infatti pernotteremo a Codlea, un piccolo centro rurale di origine sassone, ad una quindicina di chilometri da Brasov. Aggirato il centro della città e dopo un’altra ventina di minuti di viaggio su una strada che attraversa un altopiano piatto e dai colori pastello tendenti al verde e al giallo, nella luce calante del tramonto arriviamo a Codlea. Usciamo dalla strada principale e ci addentriamo all’interno del paese lungo una stradina polverosa che costeggia un quartiere di casette basse dai tetti a punta. Poi, vicino ad un altro quartiere di casermoni cadenti di cemento armato, imbocchiamo un viale fino ad arrivare ad una grande costruzione rettangolare con la facciata ricoperta di piccole mattonelle multicolori. Superato un cancello, aperto da un uomo uscito da una specie di guardiola posta su uno dei lati dell'entrata, il pullmino entra in un ampio cortile su cui si affaccia un piccolo giardino con delle panchine colorate, attorniato da altre costruzioni piuttosto ampie. Poco lontano un campo di calcio col fondo di cemento circondato da mura abbastanza alte e filo spinato. In lontananza una piccola torre di controllo si affaccia sulla campagna retrostante. Dalla conformazione della struttura è probabile che un tempo l’orfanotrofio fosse in realtà una caserma. Qua e là, sparse fra il giardino e l’entrata dello stabile ci sono alcune ragazze adolescenti di età variabile che ci osservano con grande interesse. Scendiamo dal pulmino con i nostri bagagli e subito, almeno una parte di loro, si avvicina socievole, si offre di aiutarci, cerca di sapere chi siamo e di coinvolgerci nei giochi che stanno facendo. Poco dopo una parte di noi sta già giocando a pallavolo con alcune di esse, mentre gli altri vengono coinvolti in una partitella di calcio a squadre miste. La prima cosa che notiamo è il calore dell’accoglienza che queste ragazze ci riservano e la ricerca immediata di un contatto fisico con noi, di una relazione affettiva che si esprime nel gesto immediato, nel desiderio di prenderti la mano, di un abbraccio. E’ sempre la cosa che colpisce di più i volontari al momento dell’arrivo in questi centri. Qualche giorno dopo Gianluca mi confesserà di essere veramente sconvolto dalla forza degli abbracci di queste ragazze. Cerchiamo anche di sistemarci nelle camere che sono composte da 4-5 letti ciascuna ed hanno anche un piccolo bagno e una doccia di dimensioni lillipuziane, anche se l’acqua calda c’è solo un’ora al giorno. Non sono pulitissime, ma non ci sono scarafaggi. L’organizzazione lascia subito a desiderare perché le cuoche dell’istituto non ci sono e per mangiare andiamo in un disco-pub poco lontano dove ci conduce Adelina. Il locale, che si chiama “La 2 amici” (Ai due amici) è una specie di bar con un bancone centrale di forma circolare intorno al quale sono posizionati tavolini e sedie di plastica bianca, ombrelloni, un maxi schermo su cui vengono proiettati video musicali e su un angolo la postazione del dj che scarica musica rap e rock prevalentemente romena a volume altissimo. La musica è decisamente trascinante e ci ravviva dalla stanchezza del viaggio. Il locale è affollato di giovani. Mangiamo salsicce, panini con formaggio, birra e acqua con una certa voracità. L’atmosfera è abbastanza rilassata. Ma ad un certo punto salta la corrente elettrica e quello che probabilmente è il proprietario del locale, con maglietta e berrettino con il logo stampato, ci fa alzare con modi spicci per aprire una specie di scalcinatissimo contatore alle nostre spalle su cui armeggia freneticamente con un cacciavite. Penso che sta rischiando una bella scossa, ma lui non pare avvertire il pericolo e dopo alcuni minuti di armeggiamenti conditi con imprecazioni in romeno, la luce ritorna, così come la musica ritmatissima. Verso le 23.00 facciamo ritorno all’istituto camminando nella luce fioca dei lampioni che costeggiano radi le stradine sterrate della cittadina sotto una fitta pioggerella. Prima di andare a letto facciamo una breve riunione per decidere le attività da proporre subito per il giorno dopo ai bambini dell’orfanotrofio dove andremo a lavorare e gli orari dei pasti. Scopriamo anche che l’istituto dove pernottiamo si chiama Centro Albina (Centro “L'Ape”, letteralmente). Prima di andare a dormire, sfiniti, Federico ci rivela che oggi è il suo compleanno e scarta sotto i nostri occhi una meravigliosa torta dolce preparatagli dalla mamma che tagliamo e ci dividiamo avidamente. Il dolce è buonissimo e siamo tutti commossi. E' incredibile come in certe situazioni di privazione e di lontananza dalla rassicurante banalità quotidiana in cui siamo costantemente immersi, come in una specie di anestesia dell'anima, certi gesti cui altrove concederemmo un'attenzione distratta e superficiale, appaiano all'improvviso come un regalo bellissimo ed incomparabile. Il più bel regalo che possiamo mai aver desiderato. Quello di un'amicizia e di una vicinanza umana calda e immediata, senza ipocrisie o secondi fini. E' questo uno egli aspetti più belli ed emotivamente forti per chi fa volontariato internazionale. Spesso si crea, anche solo per un breve periodo, una sorta di amicizia e fratellanza fortissima fra i componenti del gruppo che condividono il lavoro della missione. Un sentimento che resiste nel tempo anche se poi i percorsi esistenziali individuali allontanano le persone e magari non si incrociano più perdendosi nella nebbia della vita. Ma certi gesti, certe persone e certi momenti non si dimenticano più e ti restano dentro come un fuoco che ti scalda soprattutto quando la vita ti sembra un lungo inverno senza fine. Dopo il dolce ci scambiamo ancora qualche chiacchiera e poi ce ne andiamo a letto stanchissimi, curiosi e timorosi al tempo stesso di quello che ci aspetterà dal giorno dopo.

Il giorno successivo è domenica ed il mio gruppo non può andare a Brasov perché non ci sono mezzi disponibili, per cui decidiamo di unirci ai ragazzi dell’altro gruppo e andare con loro nell’orfanotrofio cui sono destinati, che si chiama “Casa Prieteniei” (Casa dell’amicizia), situato nel centro di Codlea. Attraversiamo il paese a piedi. Il tempo, come spesso sarà anche nei giorni seguenti, è grigio e piovoso. Solo un sole pallido e malaticcio, ma caldo, ogni tanto fa capolino fra le nuvole. Lungo le stradine sterrate osservo con attenzione le casette che ci fanno da contorno. Sono tutte basse, con i tetti a punta e decorate con colori pastello, molto gradevoli alla vista. Quasi tutte hanno tendine ricamate alle finestre e vasi di fiori e piante che spuntano da piccoli giardini in genere ben curati. Ogni tanto incontriamo gruppi di ragazzini, famiglie rom sui loro carretti, qualche cane. L’atmosfera è abbastanza rilassata anche fra noi. Arriviamo nel centro del paese dove una chiesa gotica svetta nel punto più centrale. Poco dopo arriviamo davanti ad un cancello metallico rossastro. E’ l’entrata del Centro “Casa Prieteniei”. Subito entriamo in un grande cortile di cemento dove già sono impegnati in vari giochi molti bambini e ragazzi, maschi e femmine, di varie età. La nostra presenza viene subito notata dai ragazzi che si avvicinano, ci chiedono chi siamo in inglese, ci osservano con i loro sguardi penetranti, ci toccano, ci prendono le mani, cercano di farsi abbracciare. I maschietti più grandicelli ci chiedono se vogliamo giocare a pallone e quindi la parte maschile del gruppo viene immediatamente coinvolta in una partita di calcio Italia-Romania su un campetto anch’esso di cemento cui si accede scendendo una lunga scalinata. Le ragazze e le bambine coinvolgono invece la parte femminile del gruppo in giochi collettivi e attività di disegno. E’ un buon approccio. I ragazzi paiono averci accettato abbastanza velocemente. Apparentemente sembra anche un centro non particolarmente cadente e invivibile. Ma mentre gli altri si abbandonano ai giochi con i ragazzi, io mi guardo intorno e qualcosa non mi torna. Nel corso della giornata capirò meglio il perché. Conclusa la partita di calcio con un punteggio ovviamente tennistico, torniamo tutti nel cortile dove bambine e ragazze sono molto impegnate nelle attività di disegno. Una cosa che ha molto successo sono le sagome dei personaggi dei cartoni animati da colorare che per fortuna abbiamo portato con noi in grandi quantità. Ognuno cerca di dare un tocco personale al proprio disegno o al proprio personaggio preferito dei cartoni, mostrandoceli spesso con orgoglio. Molti dei ragazzi che avevano giocato a pallone partecipano anche a questa attività. Alcuni di noi cominciano a raccogliere i disegni dei ragazzi man mano che li finiscono e ci viene l’idea di appenderli sulle pareti grigie del cortile, cosa che faremo nel pomeriggio. Anche in questo caso l’atmosfera appare serena. Ma comincio anche a focalizzare alcuni particolari. Prima di tutto la quasi totale assenza delle educatrici e l’indifferenza di quelle presenti, nessuna delle quali si è presentata. Sono poche rispetto al numero dei ragazzi (che a colpo d’occhio non sono meno di 60-70, senza contare quelli assenti per vari motivi e quelli che non sono usciti dalle loro camere) e se ne stanno sedute su alcune panchine laterali senza mai partecipare in alcun modo alle attività, neanche per curiosità. Inoltre il centro appare privo di qualsiasi controllo su chi entra e chi esce, il che, trattandosi di un centro minorile, mi fa sorgere inquietanti interrogativi sul livello di sicurezza personale soprattutto dei più piccoli e delle ragazze. Infatti il centro è misto e ci sono molti ragazzi sui 18-19 anni dall’aria tutt’altro che tranquillizzante.

Poi un episodio conferma i miei dubbi.

Uno dei ragazzi che ha giocato con noi a calcio chiede a Gianluca se vuole fare una partita a biliardo. Gianluca, preso alla sprovvista, accetta. Solo che il biliardo si trova in una specie di cantina chiusa a chiave e Gianluca, un po’ in apprensione, mi chiede di accompagnarlo. La cosa non mi piace molto e sarebbe meglio evitare queste situazioni un po’ imbarazzanti, soprattutto in contesti che ancora non conosciamo bene, ma ormai la frittata è fatta. Poco dopo il ragazzo di prima torna con un amico e la chiave del seminterrato che, ci dice, si è fatto dare dalla direttrice. La cosa mi sembra improbabile e mi pare strano anche il fatto che, dopo averci fatto entrare, il ragazzo richiuda la porta a chiave dietro di noi. Scendiamo una breve scala che ci conduce in una specie di cantina dal forte odore di muffa e illuminata fiocamente da un neon. Si tratta di un paio di ambienti squallidi e umidi, in uno dei quali si trova una specie di minibiliardo che ha sicuramente conosciuto giorni migliori. Più che una sala da biliardo l’ambiente mi ricorda una prigione e cerco di scacciare via i fin troppo facili cattivi pensieri che mi assalgono in quel momento. Facciamo una partita a stecche e poco dopo, mentre giochiamo, la porta chiusa a chiave si riapre e scende nello stanzone anche una giovane educatrice che confabula e scherza un po’ con i ragazzi dimostrando una grande confidenza con loro. Più che un’educatrice sembra una loro coetanea e anche questo comportamento non mi piace molto. Comunque la partita dura poco e alla fine con una scusa ritorniamo nel cortile. Non è successo niente di strano apparentemente, ma la situazione non era del tutto chiara e tranquilla. Quando siamo soli chiedo a Gianluca di fare più attenzione alle richieste dei ragazzi e di non accettare qualsiasi cosa a cuor leggero. In teoria noi non saremmo nemmeno autorizzati ad entrare in certe strutture e quindi dobbiamo muoverci con circospezione per non irritare la burocrazia romena che sovraintende al funzionamento di questi luoghi. Nel pomeriggio avrò modo di confermare questi giudizi, quando assisterò ad episodi di malcelato ‘nonnismo’ da parte di alcuni ragazzi più grandi che si atteggiano un po’ a boss nei confronti di alcuni bambini e di alcune ragazzine. Noto anche che certi giochi di gruppo proposti dai ragazzi hanno il fine neanche troppo nascosto di umiliare i più deboli. Durante i giochi ci sono alcuni dei ragazzi più grandi che non partecipano, ci osservano con una certa aria di ostilità e si avvicinano con atteggiamento vagamente minaccioso solo per chiederci di portargli dei dolci o se abbiamo soldi e telefonini. E poi continuano ad entrare e uscire dal centro persone a noi ignote, forse operatori, forse amici e parenti dei ragazzi, o forse no. In ogni caso mi pare una struttura fortemente a rischio. Ma non tutti i volontari hanno focalizzato la situazione. Infatti i giochi sono andati bene ed hanno ottenuto molto successo con la maggior parte di bambini e ragazzi, soprattutto i palloncini colorati, i disegni della mattina sono stati appesi alle pareti del cortile con soddisfazione di tutti, la merenda è sembrata un momento sereno. La situazione però non mi tranquillizza e lo farò presente durante la riunione serale, suscitando più di una reazione di stupore. Pochi hanno fatto caso sul momento alle dinamiche di gruppo e alla tipologia della struttura che ci ospitava. La maggior parte si è concentrata soprattutto sulle attività. Durante la riunione serale collettiva rischiamo anche l’incidente diplomatico perché nel pomeriggio si è creata una situazione di tensione tra Raffaele e alcuni ragazzi dell’altro gruppo. Infatti Raffaele aveva aperto il sacchetto che conteneva i palloncini prima di un gioco che l’altro gruppo aveva deciso di fare precedentemente con i ragazzi, con il risultato che questi, alla vista dei palloncini, avevano abbandonato l’attività per fiondarsi schiamazzando su Raffaele. Gli altri non hanno gradito e glielo fanno notare con un certo fastidio, ma Raffaele sotto stress emotivo e sentendosi attaccato personalmente reagisce male. Non sta a loro dirgli cosa deve o non deve fare e gli era sembrato giusto assecondare l’umore dei ragazzi per regalargli un momento di felicità, dice lui. Poi manda tutti a quel paese e se ne va. Io e Federico cerchiamo di smorzare i toni della polemica. In effetti Raffaele non è un ragazzino, ma è anche vero che non eravamo noi i responsabili delle attività da svolgere alla Casa Prieteniei. Può sembrare un elemento secondario, ma, come mi sono reso conto negli anni, in tutte le missioni di volontariato la dialettica fra le necessità di un lavoro di gruppo organizzato e corale si scontra quasi sempre con le manifestazioni più generose delle individualità che ne fanno parte, ma che rischiano spesso di sfociare in una sorta di narcisimo che può compromettere facilmente il delicatissimo equilibrio che si costruisce fra i volontari e fra questi e i ragazzi degli orfanotrofi, anch'essi disabituati a qualsiasi tipo di relazione collettiva e portati, dalla necessità della propria sopravvivenza fisica e psicologica, ad armare il proprio ego oltre ogni limite consentito da una civile convivenza. Capisco Raffaele, che ha un carattere generoso ed istintivo, ma gli ricordo la necessità di tenere a freno il proprio ego in certi momenti. Il giorno dopo sono però contento di andare a Brasov.

Per fortuna i risvegli mattutini sono sempre abbastanza piacevoli. I primi raggi del sole che filtrano dalle finestre, lo stormire delle fronde dei grandi alberi del viale su cui si affaccia la nostra camera, lo scalpiccìo degli zoccoli dei cavalli da traino dei carrettini delle famiglie rom e poi soprattutto il canto degli uccelli. Ce ne sono tantissimi, soprattutto piccoli passerotti che volano leggiadri qua e là a centinaia, mai visti così tanti tutti insieme. Insomma, una situazione piuttosto bucolica che certo non mi sarei aspettato alla partenza. Del resto dietro il lungo muro di cinta che circonda il centro che ci ospita c’è l’aperta campagna, con cavalli che pascolano liberi nei prati e qualche carrozzone di legno colorato, come quelli dei film western, in cui immagino vivano alcune famiglie rom. Girando lo sguardo solo di pochi metri ci si imbatte però visivamente nei classici palazzoni di cemento sdruciti e cadenti di uno dei tanti quartieri cittadini in cui il dittatore Ceausescu aveva deciso di far abitare il proprio sfortunato popolo, abbattendo interi quartieri storici e di ben altro valore estetico. E anche Codlea in questo senso non fa eccezioni e a pochi metri da noi sorge uno di questi orribili quartieri fatto di cubi di cemento storti e cadenti, attraversato da strade sterrate e piene di erbacce incolte, dove gruppi di bambini e di cani, anziani solitari e giovani dall’aria spavalda e aggressiva, quanto male in arnese, condividono la stessa sensazione di abbandono ai nostri occhi. Poi la colazione, che per me è sempre uno choc, perché sono abituato a farla dolce, mentre invece qui in Romania usa salata, a base di formaggi e salumi dal sapore forte accompagnati fortunatamente da un thé dal sapore aromatico, il ceai, molto buono e di cui soprattutto le ragazze del gruppo diventano subito ghiottissime.

Alle 9.00 usciamo a piedi dalla struttura e ci avviamo verso il centro del paese da cui partono i maxitaxi per Brasov. Questi pulmini piuttosto angusti sono quasi sempre affollati della più svariata umanità: studenti, contadini, operai, famiglie in visita a parenti e amici. Gli autisti tengono la radio sintonizzata sulle frequenze di varie emittenti locali che trasmettono musica pop romena ma anche molte canzoni italiane (Eros Ramazzotti, Tiziano Ferro, Nino D’Angelo i più gettonati, oltre a Celentano di cui circola una incredibile versione tecno di “Azzurro”), a volume sempre piuttosto sostenuto. Mentre il pullmino sfreccia sulle strade trafficate osservo il paesaggio che attraversiamo. Ci troviamo su un vasto altopiano che separa Codlea, che è situata ai piedi di una catena di montagne, dalla città di Brasov. In questa quindicina di chilometri la vegetazione è piuttosto bassa e il verde delle foreste dei Carpazi lascia il posto al giallo e al marrone dei campi coltivati. Lungo la strada è facile incontrare persone che fanno l’autostop. Quando arriviamo alle porte della città noto un cartello con su scritto in romeno “Brasov oras martir”, “Brasov città martire”. Infatti qui a Brasov già nel 1987 c’erano state grandi manifestazioni di protesta di lavoratori e cittadini contro l’insostenibilità della vita quotidiana, il carovita e la miseria dilagante soprattutto negli ultimi anni della dittatura di Ceausescu, manifestazioni che erano state duramente represse dalla temibile Securitate, la polizia politica segreta alle dirette dipendenze del dittatore. Giunti alla periferia di Brasov scendiamo vicino ad una stazione di autobus piuttosto cadente. Adelina, che ci ha accompagnato, ci indica quello che ci porterà a destinazione. Anch’esso è affollato di persone che vanno al lavoro. Attraversiamo una parte del centro della città, che ci appare subito molto bella con case basse che ci ricordano quelle di certe città austriache, palazzi ottocenteschi, giardini e chiese ortodosse dalle forme eleganti. Niente a che fare con i ‘bloc’ di cemento armato tipici della Romania di Ceausescu. Penso che per fortuna il dittatore non è riuscito a devastare del tutto le città con la sua follia urbanistica. Dopo un quarto d’ora di viaggio scendiamo lungo una via cittadina molto trafficata su cui si affaccia una piccola chiesa protestante ad angolo con una stradina a fondo chiuso. In fondo a questa stradina si trova il Centro Micul Print (Il Piccolo Principe) che ospita oltre cento bambini. All’ingresso il cancello ci viene aperto da un uomo che esce dalla tipica guardiola che sempre accompagna gli orfanotrofi romeni. Al loro interno si alternano 24 ore su 24 uomini e donne addetti alla sorveglianza di queste strutture. Due anni fa a Vulcea mi aveva colpito il fatto che nel centro dove pernottavamo il personale che faceva i turni in queste piccole casupole giorno e notte era costituito totalmente da donne e da ragazze spesso molto giovani. Avevamo fatto amicizia con una di queste ragazze che quando non era impegnata nei giri di sorveglianza studiava di notte per superare un concorso in polizia. Oltepassato il cancello ci troviamo su un vasto piazzale circolare al centro di un piccolo giardino con alcuni alberi molto frondosi, su cui si affacciano varie strutture a due piani. Adelina ci spiega che si tratta dei vari padiglioni in cui si trovano le camerate all’interno delle quali vivono suddivisi i bambini dell’orfanotrofio. Ci premuriamo su sua sollecitazione di attaccarci in bella vista sulle nostre magliette i pass, “legitimatie” in romeno, che ci autorizzano a muoverci ed a lavorare all’interno dell’orfanotrofio. A colpo d’occhio non sembra una struttura particolarmente cadente. Qualche giorno dopo mi spiegheranno che questo orfanotrofio è il frutto di una donazione dell’allenatore del famoso tennista Boris Becker. Dopo qualche minuto di incertezza ci facciamo coraggio ed entriamo in quello più vicino a noi. Una rampa di scale su cui si affacciano alcune librerie colme di volumi di pediatria ci conduce al primo piano della struttura. Adelina ci guida nella camerata più vicina, all’interno della quale si trovano i bambini più piccoli, da quelli di pochi mesi ad alcuni che hanno solo pochi giorni. Apriamo la porta a vetri ed entriamo con discrezione. Il senso immediatamente assalito dal contesto in cui ci troviamo è l’olfatto. Non si può dimenticare l’odore degli orfanotrofi romeni, un misto di detersivo scadente, minestra andata a male e urina che non ha mai abbandonato i miei ricordi nel corso degli anni. Lo ritrovo esattamente uguale in questa camerata. I lettini sono disposti su tre file, due accostate alle pareti della stanza e una centrale. Ogni lettino è sormontato da cartellini su cui sono scritti nomi, cognomi e data di nascita dei bambini. Nella stanza ci sono anche tre o quattro operatrici che ci guardano diffidenti e ci salutano appena. Chiediamo se possiamo stare un po’ nella stanza con i bambini e loro annuiscono senza particolare entusiasmo. Ci aggiriamo con circospezione e osserviamo questi bambini piccolissimi e dall’aspetto fragilissimo. Alcuni dormono ancora, mentre qualcuno alla nostra vista sorride, si agita e cerca di farsi prendere in braccio. Cosa che facciamo dopo un ulteriore cenno di assenso delle operatrici. I bambini sembrano abbastanza puliti come anche la stanza, ma non può non colpire emotivamente chi si trova davanti ad un simile spettacolo, una quindicina di bambini così piccoli già condannati ad una vita di abbandono. Osservo le reazioni dei miei compagni e noto che tutti celano a stento l’emozione prendendo in braccio questi bambini. Anch’io mi avvicino ad un lettino e ne prendo in braccio uno, ma ho troppa paura di far male a questa creaturina per tenerlo a lungo. Cerco di giocare con qualcun altro, ma non ottengo grandi risultati. I bambini sono ancora piuttosto insonnoliti. In ogni caso non possiamo restare per molto perché i bambini devono essere accuditi e rifocillati dalle operatrici e comunque non è con loro che dovremo lavorare nelle prossime due settimane. Questa impatto iniziale, come altri momenti in questa prima mattina, servono soprattutto a darci un quadro complessivo della situazione. Usciamo dalla camerata e, dopo aver percorso un lungo corridoio, entriamo in un’altra. La stanza è più ampia della precedente e sparsi per terra su un grande tappeto colorato che ha conosciuto senz’altro giorni migliori ci sono 12-13 bambini di età compresa fra i due e i tre anni. Alcuni stanno in braccio ad alcune giovani operatrici che ci guardano ostili, mentre gli altri gattonano qua e là fra i giocattoli sparsi anch’essi per terra. In alto, su una mensola di legno ad angolo, una televisione trasmette una soap opera americana in inglese con sottotitoli in romeno. Nei giorni seguenti avrò modo di notare spesso questo elemento all’interno delle camerate dei bambini. Quando non c’è una radio con la musica sparata a tutto volume è la televisione che la fa da padrone con video musicali e soap opera americane in funzione di ‘alleggerimento’ e di ‘evasione’ per chi in questi luoghi è costretto a lavorare o vivere. I bambini, dopo un attimo di sorpresa per l’inattesa visita di questi sconosciuti, si avvicinano e si litigano l’un l’altro le nostre attenzioni. Anche in questa stanza lo spazio ludico centrale è circondato dai lettini accostati l’uno all’altro con gli immancabili cartellini identificativi. Non rimaniamo molto e dopo poco proseguiamo la nostra visita che ci condurrà attraverso la maggior parte delle altre camerate e degli altri padiglioni. In tutti gli ambienti che visitiamo la situazione ci appare sempre molto simile a quella appena descritta. Le stanze sono divise secondo uno standard abbastanza evidente fra lo spazio dei giochi e quello occupato dai lettini dei bambini. Il momento più forte emotivamente per tutti è quello in cui entriamo nella stanza dove vivono i bambini disabili. Non sono molti, 10-12, però impressionano per lo stato di catatonia in cui è immersa la maggior parte di essi e per il fatto che quasi nessuno di loro è in grado di muoversi con le proprie gambe. Quelli che ci colpiscono di più sono una bambina dai riccioli biondi e dalla pelle chiarissima, abbigliata con un vestitino scuro quasi ottocentesco, di circa 7-8 anni, che non cammina, ma ci accoglie con grandi sorrisi che la fanno assomigliare ad una bellissima bambola, e un ragazzino più o meno della stessa età immobilizzato su una sedia a rotelle e con un viso spigoloso che sembra uscito da un quadro del Picasso cubista, che si muove a scatti improvvisi. Scopriamo anche un piccolo giardino sul retro di uno dei padiglioni, in cui vengono portati a turno un po’ tutti i bambini dell’istituto. E’ diviso in due parti: nel primo c’è un prato verde, alcuni alberi da frutto e qualche gioco sparso qua e là, mentre nell’altro, separato da un piccolo cancelletto e una rete metallica, su un fondo asfaltato, ci sono alcune altalene, alcuni piccoli tricicli e una casetta colorata. Facciamo anche la conoscenza di alcune volontarie inglesi che rimarranno a Brasov tre mesi e si sono pagate di tasca loro la missione. Verso le 12.00 i bambini vengono fatti rientrare per il pranzo. Ci offriamo di aiutare le educatrici a somministrare loro la pappa. Cosa che viene accettata di buon grado. Il pasto è costituito dall’immancabile ciorba, una minestra con le verdure o con le patate che è una specie di piatto nazionale per la Romania, e da pollo arrosto con purè. Da bere un bicchiere di ciai. I bambini mangiano, chi più chi meno, la pappa. Quello che però notiamo con una certa apprensione è che il tempo dedicato al pranzo è troppo poco. I bambini infatti vengono ingozzati senza troppi complimenti e chi tentenna o non ha molto appetito rischia di mangiare pochissimo. Mentre si sa che per i bambini il momento del pasto dovrebbe essere piacevole e rilassato. Le operatrici invece di questo non si curano e cercano di velocizzare il più possibile le operazioni per mettere immediatamente i bambini a letto. La situazione non mi è nuova e anche due anni fa questa era stata una delle cose che più mi avevano colpito nell’orfanotrofio di Vulcea dove avevo lavorato. Quando usciamo dal padiglione e ci ritroviamo nel cortile alberato dell’orfanotrofio per riprendere la via di Codlea, verso le 12.30, siamo emotivamente molto provati per quanto non molto stanchi fisicamente, dal momento che l’unica attività che siamo riusciti a fare è stata quella di partecipare ai giochi che i bambini ci proponevano, fare bolle di sapone o qualche palloncino colorato, che ai bambini romeni piacciono come a tutti i bambini del mondo.

Al nostro ritorno nel centro Albina di Codlea ci rechiamo subito nella sala dove pranziamo, un grande stanzone con grandi finestre e lunghe tende bianche, abbastanza pulito. La sala è suddivisa in alcune lunghe tavolate dove i nostri due gruppi di volontari si riuniscono e si mescolano al momento dei pasti, mentre sul lato opposto al nostro mangiano le ragazze ospiti del centro. La sera prima abbiamo deciso che nel pomeriggio una parte di noi si unirà all’altro gruppo che andrà alla Casa Prieteniei, mentre l’altra metà rimarrà con le ragazze del centro che, a quanto abbiamo appreso, non sono state oggetto di particolari attenzioni da parte dei gruppi di volontari che ci hanno preceduto e che hanno utilizzato la struttura un po’ come un ‘albergo’. La cosa ci era parsa strana perché in questo centro ci vivono in modo stabile almeno una ventina di ragazze adolescenti e non ci pareva giusto trascurarle. Così abbiamo deciso che io, Gianluca e Federico rimarremo nel centro per cercare di conoscere meglio queste ragazze e coinvolgerle in qualche attività socializzante. I primi giorni non è facile, perché le ragazze, o almeno una parte di loro, ci vedono con una certa diffidenza. Ma scopriamo che hanno quasi tutte una vera passione per il calcio e per i giochi con la palla in generale, per cui i pomeriggi passano soprattutto in interminabili partite a calcio sul campo di cemento o a pallavolo nel cortile davanti al centro. E passando la palla di mano in mano anche le parole cominciano a rimpallare fra noi e le ragazze, prima in modo scherzoso e superficiale, poi più curioso. Così le ragazze cominciano a raccontarci qualcosa di loro e a farci domande sulla nostra vita in Italia. Facciamo amicizia soprattutto con Maria, forse la vera leader del gruppo, una ragazza di 19 anni, dagli occhi profondi e lo sguardo intelligente che parla bene anche l’inglese e si comporta in modo un po’ materno nei confronti delle sue compagne, soprattutto di quelle più piccole. Gira sempre con un berrettino da baseball e tute da rapper e fa spesso da mediatrice quando c’è qualche problema di incomprensione con il gruppo. Josephina, piccola morettina anche lei di 19 anni, invece è un po’ la ‘dura’ del gruppo e ha l’aria di averne passate parecchie. Anche lei è molto collaborativa con noi e molto affezionata ad Adelina, ma probabilmente poco diplomatica perché abbiamo la sensazione che si scontri spesso con le educatrici. Florentina e Monica sono due gemelle rom, anche loro più o meno dell’età di Maria e Josephina, cicciottelle, scure di pelle e dallo sguardo penetrante. I primi giorni non sembrano molto socievoli, e se ne stanno un po' in disparte, ma dopo qualche giorno si sciolgono e si dimostreranno anche molto generose quando cercheranno di dividere il poco che hanno con noi, i ‘bogati’, i ricchi occidentali, termine con cui spesso ci apostrofano un po’ scherzando e un po’ no. Mariana è invece una ragazza di sedici anni che gira sempre con un cagnolino bianco e che ogni volta che mi vede mi chiede con entusiasmo “jucam la mingea?”, “giochiamo a palla?”. Capisco che è solo un pretesto per entrare in confidenza con me che vede forse come una figura paterna e appare davvero molto bisognosa di affetto e di attenzioni. Mi chiede spesso se torneremo a Natale o il prossimo anno. Io non le prometto mai nulla di preciso, forse deludendola un po’, ma preferisco non vendere illusioni e fare promesse che probabilmente non potrei mantenere. Uno dei nostri ultimi giorni di permanenza la troverò sola, appoggiata ad un muro dell’orfanotrofio con uno sguardo di una tristezza che non ho mai visto negli occhi di un adolescente; cercherò di rincuorarla con una carezza e dicendole, forse stupidamente, nel mio stentato romeno che in fondo la vita non è poi così male: lei mi sorride un po’ riconoscente, un po’ disillusa. Questo è uno degli aspetti più strazianti delle missioni per chi fa volontariato all'estero, soprattutto per chi lavora con bambini e adolescenti in condizioni di disagio. E' difficile entrare in confidenza con loro, ma quando ti accettano e ti danno la loro amicizia si crea una condivisione emotiva che è poi difficilissimo interrompere alla fine del periodo della missione. Sia per loro che per noi. Con scene di pianti dirotti e abbracci e promesse che sembrano non voler finire mai. Rivivrò lo stesso sentimento lavorando l'anno dopo per tre mesi con i ragazzini stranieri, albanesi e marocchini, di una casa famiglia messa in piedi da una cooperativa della mia zona. Tre mesi passati fra insulti, incazzature, problemi di ogni genere, notti insonni e improvvisi attimi di confidenza reciproca e di amicizia interrotti solo dalla scadenza del mio contratto. Vissuta nonostante tutto da entrambe le parti con infinita tristezza e come una specie di tradimento. Consumato per cause indipendenti da noi. C’è poi Ramona, una ragazza robusta sui 16-17 anni un pochino ritardata che vuole essere presa in braccio da qualcuno di noi ogni volta che ci vede, e ama la musica ad alto volume. E, infine, le più piccole, Magda, Madalina e Loredana. Magda è uno scricciolo di 10-11 anni sempre in movimento e dalla verve comunicativa travolgente. Loredana e Madalina invece sono due sorelline sui 12-13 anni un po’ timide, ma anch’esse estremamente bisognose di affetto e di attenzioni. Riusciamo a rompere definitivamente il ghiaccio con le ragazze il terzo giorno quando decidiamo di andare al mercato del paese e comprare delle angurie per fare merenda all’interno del centro. Quando ritorniamo con le nostre grosse angurie veniamo avvistati da Monica in cortile che comincia ad urlare con entusiasmo a tutte le altre ragazze “pepene, pepene!”, “anguria! anguria!”. E’ evidente che non sono abituate a questi ‘lussi’ e la nostra idea ristoratrice ha avuto subito successo. Alla sera, prima di uscire un po’ fra noi a bere qualcosa e a scaricare le pile della nostra emotività, passiamo sempre un po’ di tempo con le ragazze nei corridoi del centro suonando la chitarra, cantando qualche canzone, chiacchierando e facendoci qualche scherzo bonario. Niente di eccezionale, ma la gioia che leggiamo negli occhi di queste ragazze, improvvisamente consapevoli del fatto che possono essere importanti per qualcuno, ci fa spesso riflettere su quanto sia falsa la ricerca spasmodica di sempre nuovi divertimenti da consumare, su cui misurano la loro infelicità i nostri ragazzi, a confronto di cose apparentemente ‘povere’ come queste, eppure così antiche e ricche di fascino. Una sera facciamo anche una gara di canto fra le ragazze e improvvisamente la timida Loredana ci canta una canzone romena con una tale passione che ci lascia senza fiato. “Multe lacrime cristaline, am versat pentru tine” (molte lacrime cristalline ho versato per te) recita l’attacco di questa struggente canzone pop e Loredana la intona come se fosse un suo personale blues in cui riversa tutta la sua voglia di vivere e tutta l’amarezza per la condizione in cui si trova.

Alla mattina continuiamo ad andare a Brasov in pullmino. L’autista, che noi chiamiamo ‘baffo’ per i suoi baffi folti e ben curati da seduttore, è diventato più socievole ed è più disponibile ad accettare i nostri cambiamenti di programma. Il lavoro al Micul Print è sempre emotivamente forte, perché la condizione di abbandono di questi bambini piccoli non può lasciare indifferenti. Riusciamo spesso ad andare in giardino con i bambini, ma qualche volta il permesso ci viene negato e non ne capiamo il motivo, come per i frequenti repentini cambiamenti di comportamento da parte del personale interno nei confronti nostri o dei bambini. E’ in questi primi giorni che faccio la conoscenza di alcuni dei bambini con cui starò maggiormente durante il mio periodo di permanenza, come il piccolo Ioan, che soprannominerò 'topino’ Ioan per la sua dentatura sporgente e le sue ridotte dimensioni, che ama giocare a nascondino e farsi inseguire nelle camerate, o Kozmina, una bimba sui 4-5 anni, autistica, con cui è molto difficile giocare perché piange e morde ogni volta che ha un contatto fisico con qualcuno e quindi è necessario molto tatto e molta pazienza, o la paciosa Larissa, piccola bimba rom scura di pelle e socievolissima o la triste Denisa, una bimba di 4 anni dagli occhi chiari bellissimi, ma di una tristezza infinita; ma soprattutto come Mandra, una bambina di 6 anni ma che ne dimostra non più di 3, che non cammina, non parla e mangia con grande fatica a causa di una malattia che le permette di masticare solo molto lentamente, ma dagli occhi grandi, intelligenti ed espressivi. All’inizio non richiede molte attenzioni e si limita ad osservare molto ciò che accade intorno a lei, ma dopo averti osservato per un po’, ti sorride con gli occhi, alza le sue piccole mani verso di te per farsi prendere in braccio e, dopo, ti indica col dito la direzione da prendere o gli oggetti che le interessa toccare. E’ un po’ come essere teleguidati, ed è molto stancante tenerla in braccio tutto il tempo, ma dopo un po’ dimentichi la fatica e sorridi insieme a lei per il suo stupore nel toccare la corteccia di un albero o nell’afferrare un frutto, gesti apparentemente banali, ma che per lei non lo sono affatto.

Alla fine delle nostre mattinate al Micul Print, nell’attesa di essere prelevati dal maxitaxi e riportati a Codlea, scopriamo un’ottima pasticceria nelle vicinanze del centro dove mi abbuffo regolarmente di ottimi dolci alle mele ed enormi cannoli alla vaniglia, mentre sfoglio il quotidiano Adevarul (“La verità”) che compro spesso per vedere se riesco a capire qualcosa di più della realtà romena. A confronto con i bazar coloratissimi e ricchissimi di riviste e ogni tipo di oggetto in cui si sono trasformate le nostre edicole quelle romene fanno un po’ tristezza: poche riviste e pochi quotidiani stampati in una foliazione piuttosto ridotta e su carta di pessima qualità. Però ci sono diverse riviste letterarie (addirittura settimanali!) molto lette. Impensabile in Italia. Qualche volta decidiamo di rimanere a pranzo a Brasov per visitare un po’ la città che, almeno nel suo centro storico medievale è molto bella, ma fatichiamo a trovare ristoranti romeni. Scopriamo con orrore, almeno per ciò che mi riguarda, che il centro di Brasov è infestato di pessimi ristoranti italiani e di McDonald e non è facile riuscire a trovare un ristorante locale. Un giorno, presi dalla fame, entriamo in una pizzeria che apparentemente sembra gestita da romeni. In realtà scopriremo poco dopo che anche in questo caso il proprietario è italiano. Infatti a metà pranzo, accortosi della nostra nazionalità, un uomo grassoccio e dall’aspetto volgare, dall’apparente età di 60-65 anni si avvicina al nostro tavolo e si presenta. L’uomo è il classico prodotto del nostro nord-est, tutto impresa-soldi-lavoro-sfruttamento, parla male dei lavoratori romeni che “non hanno voglia di lavorare e non capiscono nulla” (ma vorrei vedere i loro contratti!) e poi ci saluta per raggiungere una bella ragazza mora sui 18-19 anni che potrebbe essere sua nipote, ma che sbaciucchia e palpa volgarmente davanti a tutti prima di allontanarsi dal locale scortato da una guardia armata. Mi vergogno per lui e giuro a me stesso di non mettere più piede in posti come questo.

Al pomeriggio continuiamo le attività con le ragazze più grandi a Codlea e anche qui le difficoltà non mancano perché, se apparentemente il rapporto con loro è più facile, in realtà ci rendiamo spesso conto che hanno problemi relazionali piuttosto evidenti. Anche organizzare una semplice partita di calcio a volte sembra un’impresa. Mi rendo conto che l’idea del gioco di squadra non è così scontata e che far capire alle ragazze che ‘calcio’ vuol dire anche passare la palla ai compagni di squadra e non solo tirare in porta da qualsiasi posizione è una fatica non indifferente. Infatti ognuna di queste ragazze ha in genere un approccio estremamente individualistico ai propri problemi, al proprio stare al mondo. Spesso sono tanti ‘io’ in competizione fra loro per catturare la nostra attenzione e con grande difficoltà riescono a diventare dei ‘noi’, ed è questo processo dall’io al noi che in qualche modo la nostra presenza dovrebbe favorire. Un paio di volte ci viene anche in mente di organizzare delle cene per le ragazze cucinate da noi volontari, dopo aver ottenuto il permesso dalle educatrici e la collaborazione dei cuochi, a base di pasta, patate fritte, macedonia e bibite, che hanno molto successo sia perché tutte le ragazze vengono coinvolte nei preparativi della cena, nell’addobbo della sala, nella scelta dei vestiti e dei trucchi da mettersi, sia perché per la prima volta riusciamo a mischiarci con loro durante il pasto, a stare ai loro tavoli, a scherzare, a chiacchierare e a mangiare con loro. Molto divertente è anche la spesa che facciamo al mercato aggirandoci fra i banchi della frutta e della verdura comprando un po’ di cose dagli uni e dagli altri per non fare torto a nessuno e in un tentativo, forse molto primitivo, ma dotato di una sua logica, di redistribuzione economica delle risorse

Col passare dei giorni entriamo in confidenza con alcune signore dell’amministrazione, che lavorano in un ufficio a piano terra ticchettando con le dita su vecchie calcolatrici lontane anni luce dai nostri computer. C’è soprattutto una signora di mezza età molto gentile e disponibile verso ogni nostra esigenza e dal sorriso cordiale. Un giorno ci offre il caffè in ufficio e ci mostra le foto della sua famiglia, in particolare quelle di sua figlia, una bella morettina sui vent’anni che vive a Livorno e fa la badante. Ci dice anche che conosce molta gente della zona che lavora in Italia. Poi abbassa la voce e distoglie lo sguardo mentre mi dice che ci sono anche molte famiglie che hanno avuto parenti morti sul lavoro in Italia. Non mi vuole accusare di nulla, ma io mi sento comunque un po’ in colpa. Le educatrici invece non sembrano particolarmente socievoli. Passano gran parte del loro tempo in una stanza in fondo al nostro corridoio a chiacchierare e a fumare. Solo una si mostra più disponibile nei nostri confronti ed è decisamente la più bizzarra: avrà sulla sessantina d’anni e si presenta sempre vestita con dei completi stile western con tanto di cappello texano, frange e stivaletti. Scopriremo che oltre a lavorare in quel posto da più di trent’anni, è anche una specie di maga e di massaggiatrice. Ci offre anche di farci dei massaggi sul divano dell’ufficio, cosa che alcune ragazze del gruppo accettano, ma che invece a me imbarazza molto e quindi svicolo volentieri altrove. L’8 agosto, sabato, scade il periodo di permanenza con noi di Adelina che deve fare ritorno a Vulcea sostituita da Doina, una signora simpatica e molto preparata che avevo già conosciuto nella mia prima missione in Romania. E’ un giorno triste per noi, che avevamo fatto amicizia con questa bella ragazza dai modi gentili e dagli improvvisi scatti d’ira che ci ha molto aiutato in questa prima settimana allietandoci le serate con le sue battute ironiche, ma lo è soprattutto per le ragazze del centro che l’avevano avuta come ‘chioccia’ per tutto il mese precedente. In particolare Josephina appare la più disperata, non riesce a trattenere le lacrime e insiste per accompagnare Adelina aiutata da me, Federico, Raffaele e Gianluca per le valigie. Quando arriviamo in centro a Codlea, alla fermata dei pullman, Josephina piange a dirotto, abbraccia Adelina e sta attaccata alla sua mano fino alla sua partenza. Noi cerchiamo di sdrammatizzare la cosa scherzando un po’ con entrambe, ma non otteniamo grandi risultati. Dopo che Adelina è partita torniamo a piedi al centro, ma nessuno ha voglia di parlare. Il 9 agosto è una delle giornate più impegnative perché abbiamo deciso che nel pomeriggio porteremo tutte le ragazze del centro a mangiare il gelato in una bella caffetteria del paese, ma non abbiamo fatto i conti con le educatrici, particolarmente maldisposte quel giorno, che ci negano il permesso di uscire con loro. Anzi, si sono asserragliate nell’ufficio a fumare e non ne vogliono proprio sapere di ascoltarci. La tristezza e il disappunto serpeggiano fra le ragazze che erano molto contente di questa nostra proposta. Tutto sembra perduto, ma ad un certo punto mi viene un’idea. Torno nell’ufficio delle educatrici, cerco di avanzare nella stanza facendomi strada in una nuvola di fumo e, nel mio ridicolo romeno, propongo anche a loro di accompagnarci. La proposta le stupisce un po’ e cominciano a confabulare fra loro finchè accettano e due di loro vengono con noi. Il gelato è salvo! Usciamo quindi tutti dal centro in una sorta di corteo vociante, colorato e un po’ sgarrupato e ci avviamo finalmente allegri verso la caffetteria, elegante nella sua dignitosa povertà. Ed è lì che faccio la conoscenza di Andreea. Mentre entriamo nella caffetteria la mia attenzione viene attratta da una casetta le cui pareti esterne sono interamente dipinte di rosso, giallo e blu a strisce come una bandiera. Decido allora di fare una foto con la mia macchinetta ‘usa e getta’, quando mi sento chiamare da una ragazza che non avevo notato. Avrà all’incirca 15 anni, ha i capelli un po’ scarmigliati, un paio di jeans militari lisi e un maglioncino rosso a righine piuttosto misero. E poi dei grandi occhi castani sopra un sorriso aperto. Aiutandosi con i gesti mi chiede di fare una foto anche a lei. Sorride un po’ timida e un po’ maliziosa di fronte alla mia titubanza. Poi la inquadro nel mirino della mia macchinetta e scatto. Le sorrido un po’ stupito mentre mi avvio all’entrata della caffetteria sempre seguito dal suo sguardo sorridente. Mentre sto per entrare mi si avvicina e continua a gesticolare per farmi capire che ha fame e se posso comprarle qualcosa da mangiare. Mi stupisce perché non ha la tipica sfrontatezza e aggressività dei ragazzi di strada e ciò che mi chiede lo fa con una grande timidezza e quasi scusandosi per il disturbo. La invito ad entrare con me e davanti al bancone dei dolci le faccio segno di scegliere quello che vuole. Mi sorride sempre imbarazzata ma contenta e indica una grossa pasta al cioccolato che la commessa le consegna in un piattino. Mi ringrazia e fa per uscire, ma penso che forse ha anche sete e le chiedo nel mio romeno stentato se vuole anche una bibita. Mi guarda stupita allargando il suo sorriso e chiede un’aranciata. Mi ringrazia nuovamente e fa di nuovo per uscire, quando penso che forse non è bello lasciarla andare a mangiare da sola in strada. Le faccio segno se si vuole sedere ad un tavolino del bar. Ancora una volta allarga il suo bellissimo sorriso e si siede in quello più vicino alla porta come per non disturbare e farsi notare il meno possibile. Siedo un po’ con lei mentre la osservo mangiare avidamente la sua pasta e sorseggiare la sua bibita, con quel sorriso sempre stampato sul volto e negli occhi. Sembra ringraziare la vita per ogni momento buono, e devono essere veramente rari per lei, che le concede. Non ha la minima ombra di tristezza o amarezza negli occhi, né cerca di approfittare della situazione. Le chiedo come si chiama. “Andreea”, mi risponde. Le chiedo poi quanti anni ha e se va a scuola. “Tredici”, e fa cenno di si alla seconda domanda. “Hai i genitori?”. Mi dice di si, ma certo non devono navigare in buone acque se lei passa il suo tempo davanti alla caffetteria per farsi offrire qualcosa da mangiare. Purtroppo non ho il tempo di approfondire il discorso perché Magda, Madalina e le altre ragazzine del centro strepitano contente e mi chiamano nell’altra stanza dove regna l’allegria dei gelati e delle bibite. Le faccio cenno se vuole venire anche lei e unirsi a noi, ma mi risponde di no con la testa. E’ troppo timida o forse affiora un po’ di imbarazzo per la sua condizione di ragazzina povera, costretta a chiedere la carità agli sconosciuti per sfamarsi. Ho paura di umiliarla e non insisto. La saluto e raggiungo gli altri. Lei continua ad osservarmi sempre sorridente sorseggiando la sua bibita. Quando usciamo dalla caffetteria non c’è più. La incontrerò nuovamente, qualche giorno dopo nel centro del paese. Ha un paio di pantaloni azzurri rotti sul ginocchio destro e una maglietta bianca a righe rosse. Quando mi vede mi riconosce e mi sorride, con lo stesso sorriso aperto e disponibile della prima volta. Mi chiede a gesti di fotografarla nuovamente. Forse è un modo per richiedere attenzione. La inquadro nel mirino e scatto. Poi mi chiede timidamente se posso comprarle qualcosa da mangiare. La accompagno ad un baracchino che vende bibite e hot dog. Le compro un hot dog e una Coca. Rimango un po’ con lei mentre mangia e mi osserva. Poi devo raggiungere i miei compagni e la saluto. Mi chiede se la settimana successiva posso farle una copia delle foto. Non ho il coraggio di dirle che la settimana successiva non ci sarò più. Le sorrido facendole un cenno di assenso. Lei mi ringrazia con gli occhi. Mi allontano. Non la vedrò più.

Una delle sere più divertenti è quella in cui le ragazze ci invitano nella sala della televisione per la visione collettiva del derby calcistico di Bucarest, Steaua-Rapid. Quasi tutte tifano per lo Steaua, ma Federico decide per gioco di fare il bastian contrario e dichiara preventivamente che tiferà per il Rapid. E’ bello vedere queste ragazze partecipare con entusiasmo alla partita. Noi abbiamo comprato patatine e pop corn che distribuiamo fra tutte le ragazze. Io ho già mangiato e non ho fame, ma la silenziosa Madalina mi si siede accanto e insiste per dividere le sue patatine con me. Passerà la serata accoccolata sotto il mio braccio, mentre il Rapid batte lo Steaua 2 a 0 con grande disappunto delle ragazze e la gioia scherzosa di Federico.

Intanto continua anche il nostro lavoro a Brasov e il giorno della partenza si avvicina. I giochi in giardino si alternano alle merende e i bambini appaiono abbastanza sereni. L’ultimo giorno compriamo bavaglini per tutti, dato lo stato pietoso in cui versano quelli che hanno in dotazione e li regaliamo alla direttrice dell’istituto che ci ringrazia anche per il nostro lavoro in queste due settimane. Negli ultimi giorni noto alcuni genitori andare a trovare i propri figlioletti ospitati nell’orfanotrofio di Brasov. Sono scene sempre molto tristi e strazianti. Non posso dimenticare un padre, vestito miseramente, che passa tutto il tempo concessogli abbracciato stretto stretto al figlioletto, così, in silenzio, senza dire niente per almeno un’ora, come se ogni parola fosse inutile per descrivere il suo dolore e il suo amore disperato per il suo bambino. Quando siamo con i bambini non dobbiamo fare preferenze e cerchiamo di distribuire le nostre attenzioni fra tutti loro perché tutti hanno bisogno di affetto, anche se è una faticaccia perché è umano che nascano simpatie e affinità. Gli ultimi giorni però cerco sempre di ritagliarmi qualche spazio maggiore per stare con Mandra. Ho notato che gradisce molto stare con me e farsi portare a spasso per le stanze del centro e in giardino, e anche a me piace stare con lei, tenerla in braccio e condividere il suo stupore e il suo sorriso dolce e misterioso nell’indicare col dito e toccare alberi, frutti, giocattoli, persone. E’ un linguaggio fatto solo di gesti e sorrisi, e anche se io le dico qualche parola in romeno non sono sicuro che mi capisca. Al momento della pappa cerco di essere sempre io quello che gliela somministra per evitarle i modi bruschi delle educatrici che spesso non hanno la pazienza di attendere il suo lento modo di masticare e passano oltre senza curarsi troppo se ha mangiato o meno. L’ultimo giorno mi sorprende perché, a differenza degli altri bambini che in qualche modo forse avvertono l’imminenza della nostra partenza e appaiono agitati, Mandra è di una tranquillità solare. Mi accoglie con un sorriso aperto e accogliente seduta sul letto nel suo vestitino a fiori, un sorriso ancora più radioso degli altri giorni. Passiamo la mattinata insieme nel giardino e al momento del congedo, quando io sono distrutto dal dispiacere di doverla salutare, si apre in un nuovo, misterioso, sorriso particolarmente luminoso, come se volesse ringraziarmi di qualcosa.

La sera prima della partenza organizziamo una piccola festa in cortile particolarmente ricca di dolci, bibite e musica con le ragazze dell’istituto. Noi volontari recitiamo anche una scenetta sulle note di “Alla fiera dell’est” di Branduardi. Le risate, la musica, le chiacchiere, gli scherzi, i giochi sono più rumorosi del solito, ma è normale che in certi momenti si cerchi di scacciare la tristezza in qualche modo, anche alzando il volume della voce o della musica. Continuiamo a ridere, a scherzare, a giocare fino a tarda sera in cortile e poi nei corridoi e sulle scale del centro. Nessuno ha voglia di andare a dormire e le chiacchiere e i discorsi sul nostro presente e sul nostro futuro ci fanno fare le ore piccole. Potremmo parlare all’infinito.

Dopo esserci abbracciati e salutati affranti e sfiniti mi affaccio a una finestra, mentre ancora risuonano nei corridoi e nella mia mente le canzoni e le voci delle ragazze. E’ una bella notte stellata e i placidi rumori della campagna sterminata e illuminata dalle lanterne appese ai carrozzoni delle famiglie rom risuonano nel buio. E’ uno spettacolo meraviglioso. Rimango per qualche minuto in contemplazione solitaria e silenziosa di tutta quella misteriosa bellezza che mi lascia senza fiato. Prima di andare in camera a fare i bagagli penso che sarebbe bello se improvvisamente l’orfanotrofio si trasformasse in un’astronave e potesse volare via e abbandonare questa terra dura e spietata con tutti noi al suo interno, con tutti i canti, le lacrime e i sorrisi di questi giorni, con Mandra, Andreea, Mariana, Josephina e tutte le altre, per raggiungere quelle stelle. Mi ripeto ossessivamente, come un mantra, che tutto andrà bene. Deve andare bene. Forse pensarlo servirà a renderlo possibile.


2004


lunedì 8 marzo 2010

Marius ride alle nuvole - Un’esperienza di volontariato in un orfanotrofio della Romania

Marius ride alle nuvole

Un’esperienza di volontariato in un orfanotrofio della Romania


Ho perso le parole (…)

si son nascoste bene

forse però

semplicemente

non eran mie

Luciano Ligabue


Riascolto per la millesima volta “De dorul tau” (più o meno “Nostalgia di te”) canzone pop dal sapore amarognolo del trio techno pop romeno 3SE (Trei Sud-Est). Me lo hanno fatto ascoltare alcune ragazze, ospiti di un orfanotrofio di Ramnicu Valcea, città di provincia situata ai piedi dei Carpazi sul versante centro-settentrionale della Romania, quello che confina con la Serbia. Le ho conosciute durante il campo di volontariato organizzato dall’Associazione Bambini in Romania di Milano cui ho partecipato nell’estate del 2002. E mentre nella mia stanza risuonano le note melanconiche seppur ritmate della canzone non posso fare a meno di ripensare alle parole di Marina, una mia giovane compagna in questo viaggio un po’ angosciante nel mondo dell’infanzia abbandonata di questo paese così bello e disastrato. Rivedo ancora il suo volto stanco, seduta accanto a me nella grande sala d’attesa dell’aeroporto di Bucarest mentre aspettiamo l’aereo per ritornare in Italia, e dentro di me riecheggiano le sue parole: “Ho troppe immagini in testa. Devo metterle in ordine”. Non è facile metterle in ordine. Nemmeno a due mesi di distanza dal ritorno. Fa ancora male al cuore.

Flashback.

Il primo contatto visivo con la difficile realtà sociale romena avviene mentre, appena scesi dall’aereo, aspettiamo di partire in pullman per la nostra destinazione, Ramnicu Valcea, che dista circa 200 chilometri da Bucarest. Mentre aspettiamo di partire giocherelliamo con un pallone in un parcheggio quando, girando lo sguardo, la mia mente ha un tuffo negli anni Cinquanta. Una famiglia, madre, padre, figlio piccolo e una signora anziana, vestiti con quelli che sembrano gli abiti dismessi dei nostri nonni più indigenti, salgono su una piccola utilitaria malandata parcheggiata poco lontano e se ne vanno. Il secondo approccio visivo lo abbiamo quando, attraversando le periferie di Bucarest, veniamo letteralmente scaraventati dal centro di quella che potrebbe essere una qualunque grande città europea in un altro mondo. Le sterminate periferie di Bucarest infatti trasudano miseria e degrado da ogni angolo. Gli enormi quartieri fatti di casermoni di cemento squallidi, cadenti, circondati da erbacce e rifiuti di ogni tipo sono popolati da mendicanti e frotte di bambini e adolescenti che sniffano colla dai sacchetti in pieno giorno sotto lo sguardo indifferente dei passanti e quello appena più curioso dei turisti. Sembrano due mondi che convivono ignorandosi l’un l’altro. Il terzo “contatto” con la realtà sociale della Romania, il più simbolico forse, lo abbiamo a Pitesti, una cittadina a tre quarti del cammino in cui ci fermiamo per rifocillarci. La nostra guida, Doina, una signora sui 45 anni che sarà il nostro riferimento a Valcea, fa fermare l’autista davanti ad un McDonald's. Noi scendiamo, ma preferiamo comprare qualche dolcetto e qualche bottiglia d’acqua in un piccolo bar romeno che dà sulla strada accanto. Poco lontano un gruppo di ragazzi seduto su un prato pieno di erbacce e detriti ci osserva. Sul momento non ci facciamo caso. Poi però si

avvicinano e ci rendiamo conto che si tratta sì di giovani, ma dall’età indefinibile, coperti di stracci e che tengono in mano sacchetti di plastica. Quella che una volta forse era una ragazza si avvicina più degli altri e ci chiede una sigaretta. Subito interviene un uomo della sorveglianza del McDonald's, che allontana la ragazza con tono minaccioso spingendola e insultandola finché questa non si siede per terra tenendo le mani sulla testa e sghignazzando al suo indirizzo. È con tutta evidenza sotto gli effetti della colla che ogni tanto sniffa da un sacchetto. L’uomo le sorride cattivo e le sussurra qualche minaccia più da vicino. Penso subito che se non ci fossimo noi, gli “stranieri occidentali” che si impressionano di fronte a certe scene, la situazione finirebbe in modo ben diverso. Sono passate circa tre ore di viaggio quando arriviamo alla nostra destinazione, Ramnicu Valcea. Mentre i colori della sera cominciano ad imbrunire in mezzo al verde intenso della campagna e delle foreste, si staglia imponente il tipico grigio squallido dell’architettura che il regime di Ceausescu ha imposto a gran parte delle città della Romania, demolendo interi quartieri storici per far spazio ai casermoni tutti uguali di cemento armato. In pochi giorni capirò che i colori dominanti del paesaggio rumeno sono due, il verde intenso delle foreste e della vegetazione e il grigio delle città “al cemento armato”. Le contraddizioni di un paese sintetizzate in un contrasto cromatico.

Giungiamo in un quartiere popolare all’interno del quale alloggeremo in un istituto che durante l’anno ospita bambini e adolescenti abbandonati. In questo periodo però o sono in vacanza altrove o sono tornati momentaneamente in famiglia, o in quello che ne resta. Scendendo dal pullman carichi di valigie che per la maggior parte contengono giocattoli e materiali da

disegno, che utilizzeremo nei giorni seguenti nelle nostre attività di animazione, veniamo subito attorniati da frotte di bambini che ci guardano e ci seguono curiosi fino all’edificio che ci ospiterà. Dopo la magra cena a base di un unico piatto (cotoletta e purè di patate) veniamo accolti dai responsabili dell’associazione, Don Gino Rigoldi, il fondatore, e Paolo Storini,

responsabile di tutta la parte logistica. Dandoci il benvenuto non ci nascondono le difficoltà che dovremo affrontare e ci raccomandano la massima diplomazia con il personale interno agli orfanotrofi. In pochi giorni ne capiremo il motivo. Distrutti dal viaggio cominciamo a sistemarci nelle camere, ma subito capiamo che dovremo condividere il nostro spazio con altri numerosi, sgradevoli, ospiti, gli scarafaggi. Ce ne sono dappertutto, sui letti, negli armadi, sui muri. Inoltre i bagni cadono letteralmente a pezzi e le loro condizioni igieniche sono, per usare un eufemismo, alquanto approssimative. Capiamo subito con angoscia di dover abbandonare i nostri altissimi standard di benessere e di igiene personale. Quanto agli scarafaggi ne ammazziamo subito a decine. Dopo qualche giorno capiremo che è una battaglia persa. Ce ne sono troppi e non possiamo ammazzarli tutti. Meglio condividere democraticamente lo spazio. A noi lo spazio al centro delle stanze, a loro i muri e la superficie esterna degli armadi. Il giorno dopo inizia subito il nostro lavoro. Nel grigio di una pioggia battente che ci accompagnerà costantemente per i primi tre giorni, il quartiere in cui abitiamo appare ancora più squallido e tetro. In tutto siamo 18 persone, divise in due gruppi di 9, che opereranno rispettivamente in due istituti della città che ospitano bambini e ragazzi in parte effettivamente orfani, in parte, soprattutto, abbandonati dalle famiglie o perché troppo povere o perché

troppo disastrate per poter garantire loro una vita dignitosa. Al mio gruppo è toccato l’istituto n. 2 che accoglie bambini piccoli da uno a tre anni “normali”, e bambini fino a 10 anni disabili. Mentre l’altro gruppo andrà al n. 5, dove invece vivono ragazzi più grandi, dai 13 ai 22-23 anni. Per rendersi conto delle dimensioni del problema bisogna sapere che a Ramnicu Valcea, una cittadina di provincia di circa 110.000 abitanti, ci sono undici istituti di questo tipo che accolgono rispettivamente in media 100-120 fra bambini e adolescenti. Quindi più di un migliaio in totale. Senza contare i bambini di strada, meno visibili rispetto a Bucarest e dal numero incerto. In tutta la Romania i bambini e gli adolescenti che vivono in queste strutture sono quantificabili all’incirca fra 100.000 e 120.000, ma c’è chi dice che la cifra sia più alta, oltre alle migliaia che vivono in strada e pernottano nei cunicoli sotterranei delle città dove passano i tubi del riscaldamento, o in altri rifugi di fortuna. Il mio gruppo è formato prevalentemente da persone di sesso femminile. Daniela, una giovane fisioterapista milanese, cela a stento la sua grande sensibilità sotto una patina di scetticismo meneghino. Claudia, che ha una grande responsabilità perché è la nostra

responsabile, è una persona spiccia e di personalità, è invece una persona di grande intelligenza e disponibile al dialogo e anche al gioco quando è il caso. Ha sette anni di esperienza di volontariato alle spalle (Bosnia e Guatemala oltre alla Romania). La sua migliore amica, Paola, ha movenze eleganti e un’apparenza distaccata e aristocratica anche nelle situazioni peggiori. La gioviale Velia, è anch'essa una persona estremamente competente perché lavora quotidianamente con i disabili psichici. E poi Mariangela, lunatica e divertente cinquantenne milanese, le giovanissime Marina (18 anni), dal sorriso caldo e solare, e Alice (18 anni ancora da compiere ma già alla sua seconda esperienza di volontariato in Romania), buffa e clownesca, praticamente la mascotte del gruppo, e Antonio, l’unico della mia età (42 anni), insegnante di origini lucane, insofferente alle regole e alla disciplina di gruppo, ma simpatico e dalla capacità comunicativa contagiosa. Nella seconda settimana si aggiungeranno a noi la fragile e vulcanica Elena (l’unica che dichiara di votare a destra e per questo oggetto di benevoli sfottò da parte di noi tutti) e Annamaria, di origini venete, ma brianzola di adozione, dallo scetticismo acuminato anche se accompagnato da un’intelligenza viva e da una razionalità lucida e ferma. La nostra giornata tipo si apre tutte le mattine con la colazione (in genere salata e immangiabile, niente caffè, niente cappuccino, quasi niente latte, ma salame e formaggio salato, pane, burro e tè). Partenza alle 8.30 a piedi verso la nostra destinazione, circa 20 minuti. Entrata nell’istituto verso le 9.00 e lavoro con i bambini più piccoli fino verso le 10.30 – 11.00, ora della loro pappa. Poi passiamo in un’altra ala dell’istituto dove lavoriamo con i più grandi, disabili, fino alle 13.00, dopo aver aiutato le inservienti romene a dare da mangiare ai bambini. Ritorno a piedi presso il nostro istituto, pranzo che, come la cena, è spesso a base di ciorba, una zuppa tipica della Romania con le verdure, ma spesso talmente liquida e inconsistente da farci dubitare che sia in realtà acqua calda e quindi un paio d’ore di libertà fino alle 16.00 – 16.30, quando dobbiamo tornare all’istituto e continuare il nostro lavoro con i bambini disabili fino alle 19.00 circa. Ritorno al nostro alloggio, cena, doccia e riunione quotidiana del gruppo per

analizzare il nostro lavoro durante la giornata con i bambini e organizzare le attività del giorno successivo. Quindi il tempo di una passeggiata nei dintorni (ma spesso rinunciamo perché la vita sociale della città, nonché i luoghi di ritrovo si avvicinano pericolosamente allo zero) e di una birra, qualche chiacchiera e poi a letto completamente sfiniti. Questo potrebbe sembrare

anche un impegno accettabile per chi non conosce la realtà degli orfanotrofi romeni; in realtà lo stress nervoso, psicologico, fisico ed emotivo al quale siamo sottoposti quotidianamente è spesso quasi insostenibile.

Il primo giorno di lavoro ho la tentazione di fuggire a gambe levate. Entriamo in questo istituto circondato dal filo spinato (altra frequente caratteristica architettonica di questi luoghi, tragicomico simbolo di un paese prigioniero di sé stesso) e da un giardino spoglio, disadorno e con l’erba alta. Ad accoglierci la direttrice, una donna di mezza età minuta ma dallo sguardo

deciso, e Maria, uno dei nostri due “angeli custodi”. Il compito di Maria (la mattina) e Nadia (al pomeriggio), due signore rotondette gentili e dallo sguardo buono, che parlano un po’ di italiano, è quello di fare da mediatrici e risolvere qualsiasi eventuale problema si presenti con il personale interno. Dopo i saluti di rito veniamo accompagnati presso le stanze dove

alloggiano i bambini. Aperta la porta, lo spettacolo che ci si presenta ci lascia senza fiato. Dieci-dodici bambini dall’età approssimativa di due o tre anni stanno in uno stanzone abbastanza spoglio sdraiati o adagiati alla meglio qua e là, avvolti in tutine logore e sporche. Qualcuno è intento a maneggiare qualche raro giocattolo. Nessuno parla. Quasi nessuno cammina. Al massimo qualcuno gattona un po’. Inoltre l’odore che aleggia nella stanza è di quelli che non si dimenticano, un misto di candeggina di pessima qualità e urina. L’inserviente, oltre ad ignorare i bambini, non pare avvertire la puzza, dato che tiene le finestre chiuse. Dopo qualche minuto mi avvicino alla finestra e furtivamente la apro. Intanto Mariangela dopo cinque minuti si sente male e corre in bagno a vomitare. Non sappiamo letteralmente che fare. I bambini ci osservano timorosi e con curiosità diffidente. Buttiamo nel cesso dell’anima l’angoscia che ci attanaglia, sfoderiamo il nostro migliore sorriso e proviamo a giocare con loro. Non combiniamo molto, ma quando arriva l’ora della pappa l’angoscia ritorna a farsi sentire opprimente. Arriva un vassoio pieno di bicchieri contenenti una sorta di sbobba liquida e giallastra con qualche rarissimo pezzo di biscotto dentro. Non è la cosa peggiore. Il modo in cui viene somministrata questa specie di colazione è allucinante. Dopo aver applicato ai bambini i bavaglini, logori come le tutine, le inservienti somministrano la pappa senza nessun tatto, né gentilezza, un po’ come dare da mangiare ai maiali. Chi mangia mangia (in media il pasto di ogni bambino non dura più di due minuti) e chi tentenna o non ha molto appetito viene ignorato o nutrito a forza. Su questo punto però ci toccherà vedere ben di peggio più tardi, durante il pasto dei bambini disabili che vengono abbuffati come animali, spesso in piedi e alla velocità della luce. In meno di un quarto d’ora il pasto è finito e i bambini vengono messi a letto (“gettati a letto” è un termine più appropriato dato il modo con cui le inservienti eseguono questa operazione). La prima cosa che decidiamo di fare è di rallentare progressivamente i tempi della somministrazione del pasto, cosa che farà infuriare le inservienti. E poi, appunto, i bambini disabili. La scena che ci si presenta è, se possibile, ancora peggiore di quella precedente. Su un totale di 12 bambini nessuno cammina e nessuno sa esprimersi a parole, ma solo con suoni onomatopeici oppure piangendo o urlando. Anche in questo caso sono abbandonati a sé stessi qua e là nello stanzone che puzza ancora più del precedente (e sempre con le finestre chiuse). Tutti sono affetti da gravi patologie psichiche o motorie o entrambe, che siano autistici, down, paraplegici, spastici o altro poco importa. La piccola Helèna, autistica e aggressiva (morde chiunque le si avvicini e nei primi due o tre giorni ci riempie di lividi, poi improvvisamente smette), scheletrica e con un’espressione negli occhi da bambola impazzita,

mi ricorda con forza le immagini dei prigionieri ebrei ad Auschwitz. Poi c'è Daniel, ipovedente, magrissimo anche lui e dalla gestualità a volte elegante, a volte frenetica (per questo motivo lo soprannomineremo “l’acrobata”). Invece Marius, un bimbo di sette anni dalla corporatura massiccia, non cammina (per questo motivo le inservienti lo legano alla sedia quasi tutto il

giorno) e l’unica azione che fa è metterti le mani su tutta la faccia per poi avvicinare la sua bocca al tuo orecchio per fare un grido persistente che mi ricorda quello dei dinosauri cinematografici. Laurenzio, un bimbo paffuto e dall’aria simpatica, gattona per la stanza e si posiziona quasi sempre vicino a noi per osservarci in silenzio ed esprimere con gli occhi quello che non è in grado di fare a parole. Mirèla, una graziosa bambina rom, sorride sempre con lo sguardo perso in un mondo per noi insondabile, Anche Cristina una bambina di circa 10-11 anni non cammina, ti guarda con lo sguardo sorridente e implorante una qualsiasi attenzione.

Ogni sera, facendo il punto della situazione, programmiamo attività ludiche e ricreative con ogni tipo di giocattolo e materiale a nostra disposizione, cambiando o tralasciando tutte quelle cose che non sembrano attrarre l’interesse dei bambini. Soprattutto con quelli disabili è difficile trovare attività stimolanti perché quasi nessuno di loro cammina con le proprie gambe. Ciò che accomuna i due gruppi di bambini, quelli piccoli e quelli disabili, è l’enorme e confuso bisogno di affetto che essi esprimono. In entrambi i casi spesso l’unica cosa che vogliono è saltarti addosso per essere abbracciati e basta. Nelle situazioni collettive, quelle in cui i bambini dei diversi reparti che ci sono affidati si mischiano fra loro in giardino o negli ampi corridoi dell’istituto, ce n’è uno che non finisce mai di stupirmi. Si chiama Florian, ha circa 8-9 anni e si muove nello spazio scoordinato come una buffissima marionetta senza fili. Ogni volta che mi vede mi salta letteralmente al collo e mi stringe talmente forte avvinghiandosi a me che, volendo, potrei tranquillamente camminare con lui addosso, come se fosse un

vestito. Nei pochi momenti liberi, vagabondiamo spesso in un vicino mercato dove ai prodotti ortofrutticoli si mischiano merci di ogni genere, comprando frutta, buonissimi dolci a base di mele e bevendo caffè in un curioso bar con annessa sala internet sempre affollata di giovani. Osserviamo molto anche la vita che si svolge intorno a noi e una cosa che ci incuriosisce è il fatto che la maggior parte della gente che lavora è costituita da donne. Le trovi dappertutto, fanno le bariste, le poliziotte, i medici, le tassiste, le commesse, qualsiasi cosa in numero infinitamente maggiore rispetto agli uomini che invece troviamo spesso per strada e nei bar, in genere male in arnese e con lo sguardo terribile di chi non si aspetta più nulla dalla vita. Osservo spesso anche lo sguardo delle inservienti e delle educatrici dell’istituto cercando di capire che sogni possano avere (immagino pochi, dal momento che il loro stipendio non supera i 60 euro) e perché spesso si comportino in modo stupidamente crudele con quei bambini. Non so rispondere. A volte mi piacerebbe instaurare con loro una qualche forma di

dialogo, ma è difficile e non solo per la lingua. Con alcune di loro abbiamo spesso scontri piuttosto duri perché non vogliono cambiare i bambini quando si bagnano, cosa che invece noi cerchiamo di ottenere sempre con la diplomazia, ma anche con energia quando ci sembra il caso. E’ bene aggiungere che i pannolini non vengono utilizzati, troppo cari (come del resto banane, yogurt e altri alimenti che invece sarebbero utili alla dieta dei bambini); al loro posto vecchie stoffe che arrossano la pelle dei bambini impedendo loro anche di camminare correttamente. Quando è possibile e le condizioni meteorologiche lo consentono cerchiamo di portare i piccoli in giardino. Dalle loro reazioni, prima di paura e terrore, e poi di esaltazione una volta provata l’ebbrezza dello stare all’aria aperta, abbiamo la netta impressione che non siano mai stati portati in un giardino in vita loro. Non dimenticherò mai in particolare l’espressione del volto di Marius, il bambino di sette anni che passa gran parte delle sue giornate legato a una sedia e che io mi ostino a slegare e a portar fuori ogni volta che posso, la prima volta che l’ho condotto in giardino. Marius non può camminare, le sue gambe non lo reggono e io cerco solo di stimolare almeno un po’ la sua mobilità sorreggendolo con fatica perché pesa parecchio. Facciamo qualche passo stentato in giardino per poi passare a qualche gioco con la palla seduti su uno dei luridi materassini adibiti allo scopo. Poi provo a metterlo sull’altalena. E’ evidente che non ci è mai salito in vita sua. Prima un’espressione di stupore si disegna sul suo viso, poi Marius comincia lentamente a dondolarsi con le sue povere gambe e a guardare il cielo e le nuvole sopra di noi con una intensità tale che io penso le voglia succhiare via con gli occhi. Quindi scoppia in una sonora risata che mi sorprende come un tuono a ciel sereno. Marius è uscito per la prima volta dalla catatonia inquietante che lo caratterizza e ha avuto una reazione emotiva. Ovviamente non è quasi nulla, una goccia nel mare, ma sono contento perché sono riuscito a fargli vivere

un’emozione positiva, cosa non facile nel contesto in cui vive. Uno degli ultimi giorni della nostra permanenza a Valcea in una situazione analoga, invece di ridere, come ogni tanto fa nel suo modo sgangherato, Marius scoppia in un pianto disperato. Penso che in qualche modo abbia capito che sto per andarmene e la cosa mi dà l’angoscia. Molti di noi l’ultimo giorno non riescono a trattenere le lacrime. Io non so cosa fare. Vorrei piangere anch’io, ma non ci riesco. Mi tengo il mio magone dentro.

Nel pomeriggio, dopo l’ultimo turno all’istituto, mi allontano dagli altri con la scusa di fare qualche acquisto e vago un po’ da solo per la città che scopro avere anche qualche piccolo quartiere fatto di casette basse, con i tetti a punta e piccoli giardini curati. Osservo i venditori di cocomeri sui marciapiedi, i carretti su cui viaggiano le numerose famiglie rom della zona, i baracchini che vendono cassette musicali (i cd sono poco diffusi a causa del loro costo), gli svogliati pescatori sul greto del fiume inquinato, i ragazzi che giocano a ping pong su tavoli di cemento o a calcetto in campetti anch’essi di cemento, le famiglie e i passanti i cui volti esprimono quasi sempre preoccupazione e tristezza e raramente si aprono in un sorriso, e

una sottile angoscia si fa strada dentro di me. Prima di tornare al nostro alloggio compro una bibita nel piccolo supermercato, situato poco lontano dall'istituto dove pernottiamo, che molte volte ci ha visto clienti e comincio a sorseggiarla distrattamente. Quando sono quasi arrivato a destinazione mi si avvicina uno dei ragazzi del quartiere, uno di quelli che vediamo spesso al ritorno dall’Istituto n.2 perché ci chiedono sistematicamente ‘money’, soldi, ma che, non ottenendoli mai, pur tuttavia ci salutano sempre con calore, e guardando la bibita che tengo in mano con uno sguardo che non dimenticherò facilmente mi chiede se posso dargliene un po’. Io, dopo un attimo di stupore, gli lascio la bottiglia e me ne vado. Il giorno dopo ripartiamo in pullman alla volta di Bucarest. Un sole pallido e malato rischiara il cielo e il verde delle campagne che attraversiamo. Non abbiamo molta voglia di parlare. Restiamo tutti in un silenzio assonnato e amaro. Solo Marina e Guido, uno dei ragazzi dell’altro gruppo, dietro di me parlano sottovoce d’amore, fidanzati e progetti per il loro futuro. Nonostante tutto la vita continua. Da allora ogni tanto mi sorprendo a guardare il cielo e mi chiedo se Marius qualche volta ride ancora alle nuvole.


Marcello Cella

autunno 2002