lunedì 2 aprile 2018

La Storia dietro la porta chiusa
“The Other Side of Everything (Druga strana svega)” di Mila Turajlić e “When Pigs Come (Kada dodu svinje)” di Biljana Tutorov

Le due giovani registe serbe raccontano la storia di due donne anziane che fanno i conti con la Storia recente e passata del proprio paese senza sconti per nessuno. Una riflessione sulla Serbia, sui Balcani e sull’Europa consegnata alle giovani generazioni.




Il recente Balkan Florence Express di Firenze, giunto alla sua sesta edizione, ci ha proposto, fra le altre cose, questi due bellissimi documentari serbi che ci hanno colpito per le cose che hanno in comune, pur partendo da punti di vista diversi, e perchè, parlando del loro Paese, le due giovani registe serbe consegnano agli spettatori anche una riflessione che riguarda in realtà tutti gli europei alle prese con speranze di cambiamento deluse e pericolosi nazionalismi risorgenti. Due film profondamente politici nel senso più alto del termine. 
“The other Side of everything” di Mila Turajlić, già autrice del fortunato documentario “Cinema Komunisto” sul cinema nella Jugoslavia di Tito, è forse il film più intimo e personale fra i due perché coinvolge direttamente la regista in un confronto appassionato e tormentato con la propria madre, Srbijanka Turajlić, singolare figura di studiosa e attivista politica, sulla scena pubblica del suo Paese fin dagli anni Sessanta. Coprotagonista del film una porta chiusa che da 70 anni divide il suo appartamento da quello accanto, quando nel 1946 le autorità comuniste di Tito, nazionalizzando le proprietà borghesi, decisero che l’appartamento di 240 mq della sua famiglia, acquistato dal bisnonno della regista nel 1929 quando Belgrado faceva parte del Regno di Serbia, Croazia e Slovenia, venne giudicato troppo grande per il suo nucleo familiare e diviso in due, assegnando l’altra parte ad un’altra famiglia. E’ la stessa Srbijanka Turajlić, ex professoressa dell’Università di Belgrado ed implacabile oppositrice del dittatore serbo Slobodan Milošević, a raccontare la sua storia e quella della sua famiglia alla figlia filmaker in fuga dal proprio Paese. Ma la storia intima e personale di Srbijanka si trasforma in uno specchio in cui vediamo riflessa la Storia della ex Jugoslavia e delle speranze che aveva suscitato al suo interno e sulla scena internazionale questo Stato federale nel cuore dell’Europa in cui convivevano pacificamente persone di culture e nazionalità molto diverse fra loro all’interno di un sistema che si proponeva la giustizia sociale come suo orizzonte ideale. Sono i ricordi dell’anziana e lucidissima protagonista del film a tracciare il  suo percorso narrativo a partire dalla liberazione di Belgrado nel 1945 e passando attraverso le rivolte studentesche del 1968, ma anche i materiali d’archivio della stessa Srbijanka, in prima fila negli anni ’90 contro il nazionalismo aggressivo di Milošević e le guerre jugoslave che le costarono il posto di lavoro e l’emarginazione, fino ai bombardamenti della NATO nel 1999 e la caduta del dittatore nel 2000 che la ritrovarono in piazza con i manifestanti e con un ruolo politico di primo piano quando divenne per un breve periodo ministro dell’educazione e dello sport nel primo governo serbo del dopo Milošević. Proprio gli anni ’90 assumono un peso narrativo particolare all’interno del film perché i filmati della Belgrado di quegli anni mostrano come l’opposizione interna contro l’attacco da parte dell’esercito jugoslavo alla Croazia e alla Bosnia fosse molto forte e partecipata, ma anche come le proteste studentesche e civili e le manifestazioni si protrassero per tutto il decennio nell’indifferenza colpevole delle cancellerie europee. Sono impressionanti le manifestazioni in cui Srbijanka parla davanti a decine di migliaia di persone e fa pensare il silenzio che ha circondato questi eventi nel “democratico” Occidente. Ma i ricordi di Srbijanka non sono mai attraversati dall’amarezza e dal rancore, anzi, incalzata dalla figlia, colpiscono la sua lucidità, la sua forza e la consapevolezza che, per quanto perdente, il suo impegno non è stato vano ed è stato speso per una causa giusta, per la libertà, la democrazia e la giustizia per tutti nella ex Jugoslavia come nella Serbia. Il film di Mila è infatti il frutto di cinque anni di conversazioni e di confronto serrato con la madre, cinque anni in cui le domande iniziali di Mila a Srbijanka, “cosa è successo?”, “cosa hai fatto?”, trascolorano in un più intimo “cosa avrei dovuto e potuto fare?” per concludersi in un interrogativo ancora una volta rivolto al futuro, “cosa posso fare?” che come in uno specchio si riflette anche sul percorso esistenziale di Mila, in dichiarata fuga dal proprio Paese (“Non si può vivere in Serbia”, confessa alla madre). Ma poi c’è quella porta chiusa che divide l’appartamento di famiglia, dietro la quale si nasconde forse un’altra parte della storia privata e pubblica della famiglia di Mila e Srbijanka. Essa compare a più riprese durante il film e nei ragionamenti della protagonista, ma non assume mai un ruolo centrale fino a quando, durante una riunione di famiglia, si decide di aprirla. Non un’operazione facile, e non solo per la difficoltà tecnica di aprire una serratura rimasta intonsa per 70 anni. Ma la scena che si apre ai loro sguardi nel momento in cui questa porta dischiude i suoi segreti è per tutti loro un tuffo nel passato della ex Jugoslavia con le immagini di Tito e gli oggetti di quell’epoca conservati e come ibernati dall’anziana signora che ancora vi abitava fino a poco tempo prima. Tracce di un passato che continua in vario modo ad attraversare il presente di Srbijanka, di Mila e forse dell’intera ex Jugoslavia con il suo carico di riflessioni storiche e di malinconie esistenziali, ma anche di rinnovate strategie di resistenza ai conformismi, ai nazionalismi e alla chiusura di muri e porte al mondo e al futuro. In questo senso la casa di Srbijanka diventa una casa/metafora non solo di un percorso esistenziale declinato al passato, ma anche di una riflessione che coinvolge più direttamente la generazione della figlia regista, tormentata tra la sua voglia di fuga e la consapevolezza che una donna come sua madre è riuscita con fatica a cambiare in parte il suo Paese lottando al suo interno e senza essere mai sfiorata dall’idea di abbandonare le sue lotte e le sue difficoltà. Forse le riprese video che Mila realizza delle proteste di piazza e degli scontri dei manifestanti con la polizia nelle vie del centro di Belgrado in cui si trova la casa della madre sporgendosi dalle sue finestre sono anch’esse una promessa silenziosa e attiva di resistenza. 




Anche Dragoslava Aleksic, protagonista di “When pigs come” di Biljana Tutorov, attua a suo modo una propria strategia di resistenza contro i pericolosi conformismi nazionalistici della nuova Serbia. L’anziana Dragoslava ha quattro televisori sempre accesi e sintonizzati sui canali di informazione, tre simpatici nipoti a cui non racconta mai favole, ma storie della vita reale appena trasfigurate dalla sua fantasia per renderle più comprensibili ai suoi giovani interlocutori, due amiche del cuore con cui discute più di politica che di pettegolezzi familiari. E poi un marito silenzioso, ma attento e partecipe, con cui litiga per il possesso del telecomando e per la scelta dei programmi televisivi visto che l’uomo preferirebbe il calcio ai telegiornali propagandistici che esaltano le imprese politiche del nuovo uomo forte di Belgrado, il nazionalista Aleksandar Vučić, amato dall’Occidente, ma con un passato politico macchiato dalla sua collaborazione con Slobodan Milošević e il suo governo negli anni ’90. Dragoslava, sempre vissuta nella sua piccola città di confine in Serbia, ha vissuto in molti Paesi diversi, senza mai spostarsi di un metro, ma vive costantemente immersa nella politica e nei media che la raccontano, con determinazione, ma anche con umorismo corrosivo. Dotato di una fortissimo senso etico, per lei ogni singolo gesto è un atto di responsabilità che contribuisce a cambiare il mondo. Quello di Dragoslava è una singolare forma di attivismo che nella sua apparentemente neutra quotidianità non perde mai il contatto con il mondo e coltiva, insieme alle sue amate piante, lo spirito critico verso il risorgente nazionalismo serbo incarnato dal presidente Vučić, e la speranza di un futuro migliore attraverso i racconti che fa del suo passato e di quello del suo Paese ai nipoti. Le sue televisioni sempre accese sono, insieme ai giornali, le sue finestre sul mondo, ma il suo sguardo non è mai passivo e questi strumenti non costituiscono mai per lei quella specie di sedativo audiovisivo che ben conosciamo nella nostra società. La sua attenzione ai fatti del mondo è pari a quella che lei pone per quello che accade sotto le sue finestre. Dragoslava, come è stato detto, è la tipica donna comune dei periodi di transizione nell’est europeo, quella che mantiene in piedi l’instabile baracca familiare e statale quando gli uomini giocano pericolosamente con il nazionalismo, l’unico punto fermo, anche geografico si potrebbe dire, mentre il territorio in cui vive cambia continuamente bandiera e padroni. Si occupa della dignitosa sopravvivenza familiare ma contesta le autorità, il potere e i media al loro servizio, i ruoli sociali e familiari, praticando e incarnando un ideale civico apparentemente démodé, lontano dagli attuali giochi della politica su internet, sui social. Dragoslava discute di politica con le amiche disilluse, direttamente, faccia a faccia, con passione e humour, per nulla scoraggiata dalle dimensioni minime della situazione in cui si trova a vivere ed operare. Ma con il suo impegno politico e culturale “lillipuziano”, il suo attivismo civico periferico e lontano dai luoghi dove si prendono le decisioni importanti, Dragoslava, esattamente come Srbijanka Turajlić, assume un importante ruolo di specchio rispetto alla società in cui vive ed un esempio vitale e coraggioso di cosa ognuno di noi può o potrebbe fare quotidianamente per cambiare il mondo e cancellare le sue brutture.

Marcello Cella


“The other Side of everything” 
Titolo originale: “Druga strana svega”
Regia: Mila Turajlić
Soggetto: Mila Turajlić
Sceneggiatura: Mila Turajlić
Interpreti: Mila Turajlić e Srbijanka Turajlić
Musica: Jonathan Morali
Produzione: Dribbling Pictures (Serbia) 
Co-produzione: Survivance (Francia), in associazione con ARTE-WDR e il supporto di Serbian Film Center, CNC-Aide aux Cinémas du monde, EURIMAGES, Doha Film Institute
Nazionalità: Serbia
Anno: 2017
Durata: 104’

“When Pigs Come”
Titolo originale: Kad dodju svinje
Regia: Biljana Tutorov
Sceneggiatura: Biljana Tutorov
Fotografia: Orfea Skutelis
Montaggio: Thomas Ernst
Interpreti: Dragoslava Aleksic, Dragan Aleksic, Dusan Bosnjak, Natasa Bosnjak 
Produzione: Biljana Tutorov (Wake Up Films), Dijana Mladenovic (Kinematograf)
Distribuzione italiana: Archfilm (http://archfilm.it)
Nazionalità: Serbia, Croazia, Bosnia-Herzegovina
Anno: 2017
Durata: 72’
         

sabato 31 marzo 2018

L'amore corre sulla strada

I'm in LOVE with MY CAR” di Marco Mellara e Alessandro Rossi

I'm in LOVE with MY CAR” dei giovani filmaker emiliani Marco Mellara e Alessandro Rossi racconta la storia dell'automobile, di come ha cambiato la nostra vita, le nostre città e i nostri cinque sensi, dandoci l'illusione di muoverci liberamente nel mondo da cui in realtà ci ha separato, e creando innumerevoli problemi sociali e sanitari.



C'è stato un tempo in cui l'automobile era la materializzazione di un sogno di libertà e di fuga da una vita grigia e senza sbocchi, lo strumento per evadere da un mondo chiuso nella ripetizione di stili di vita e modalità di pensiero sempre uguali, spesso legati ad un passato che pesava come un macigno sulla/nella testa di chi faceva del movimento fisico e mentale verso un altrove la propria ragione di vita. Era il tempo del sogno americano che sembrava a portata di mano per chi aveva le chiavi di un'automobile. Era il tempo in cui Bruce Springsteen, nella sua epica canzone “Born to run” del 1975, cantava versi come questi: “Di giorno teniamo duro nelle strade/ di uno sfrenato sogno americano/ Di notte sfrecciamo fra case signorili/ su macchine da suicidio/ Usciti dalle bare di cemento verso l'autostrada 9/ su ruote cromate, motori a iniezione/ correndo sulla linea bianca/ Piccola, questa città ti strappa le ossa dalla schiena/ E' una trappola mortale, un invito al suicidio/ Dobbiamo fuggire finché siamo giovani/ Perchè vagabondi come noi, tesoro,/ sono nati per correre”. Poi il sogno americano si è fermato e si è trasformato in un incubo. Le automobili si sono moltiplicate sempre più fino a intasare quelle grandi strade, le vie di fuga verso quell'ignoto carico di promesse e speranze sempre più irraggiungibili. Il nostro paesaggio urbano si è trasformato in una immensa autostrada sempre piena di automobili ferme in qualche ingorgo o in qualche parcheggio (la nostra automobile passa il 95% della sua vita attiva ferma in un parcheggio). E quello che sembrava il mezzo per fuggire si è trasformato in una gabbia a misura umana che ci impedisce di andare da qualsiasi parte. Un oggetto ingombrante e forse destinato ad una progressiva estinzione.




Il documentario “I'm in love with my car” dei due giovani cineasti emiliani Marco Mellara e Alessandro Rossi, già ricchi di esperienze creative nel documentario come nel cinema, nella televisione e in teatro, racconta o suggerisce tutto questo. L'opera dei due documentaristi è la storia dell'automobile, di come questo strumento ha cambiato la nostra vita e le nostre città, sempre più città a misura di automobile e non di noi umani, il nostro modo di muoverci e perfino i nostri sensi. In effetti il film, dopo un prologo esilarante, ma anche a suo modo significativo, girato in una classe di una scuola elementare di Bologna in cui i bambini hanno disegnato la loro idea di automobile e la spiegano ai compagni, si divide in cinque parti, ognuna delle quali è dedicata ad uno dei nostri cinque sensi, vista, udito, olfatto, tatto e gusto, e incentrata sul modo in cui l'automobile li ha progressivamente cambiati. Utilizzando filmati pubblicitari d'epoca e interviste a persone che hanno dedicato la vita all'automobile come il pilota Dindo Capello, tre ricercatori dell'ISFTTAR (Michel Berengier, Judicael Picaut, Arnaud Caen) che indagano su nuovi modelli di città e di sostenibilità dell'auto, un designer di automobili di fama internazionale come Chris Bangle e l'antropologo Franco La Cecla, i due filmaker raccontano l'epopea dell'automobile e le trasformazioni psicologiche, antropologiche, culturali e sociali da essa indotte. Come raccontano nel book di presentazione del film, “la nostra VISTA è occupata da automobili parcheggiate, svincoli autostradali, code di auto in tangenziali o nei boulevard delle periferie. Il nostro GUSTO è cambiato: il rituale quotidiano dei fast-food e dei drive-through ha modificato il nostro rapporto col cibo che sempre più spesso consumiamo sui sedili dell'auto. Quasi non facciamo più caso all'ODORE dei fumi di combustione nelle nostre città, ma sempre più persone sono malate a causa dell'inquinamento atmosferico. Sia che UDIAMO il rumore del traffico dalla nostra macchina, sia che ci lasciamo trasportare dal l'ipnotico rombo dei motori in una gara automobilistica, il suono che produce l'automobile è diventato una fonte di inquinamento acustico. La richiesta di perfezione nello stile e nella forma spinge i designer automobilistici ad innovare costantemente le forme, cercando di creare una speciale connessione tra l'uomo e la macchina. In questo rapporto entra in gioco il TATTO e l'auto diventa un corpo che ci seduce e ci ammalia”.



L'automobile ci ha avvinto in un rapporto talmente stretto da costituire una sorta di “sesto senso”, una specie di facoltà umana aggiunta inconsapevolmente alla nostra natura originaria. “L’automobile” - afferma l'antropologo La Cecla - “fa parte di quel saper fare che costituisce tutti quei meccanismi automatici che noi impariamo e poi dimentichiamo. Camminare fa parte di uno di questi automatismi, di queste tecniche del corpo: come gesticolare, come dormire, come buona parte delle facoltà umane. Allora la cosa impressionante è che guidare è diventata una facoltà, cioè proprio al pari del parlare, del camminare, è diventato una facoltà umana”. Una facoltà/strumento che ci ha permesso di andare ovunque nel mondo, di raggiungere e conoscere i luoghi più lontani e nascosti, di avvicinarci agli altri, di accorciare le distanze fra le nostre diversità o, forse, come suggerisce sempre La Cecla, ci ha fornito solo l'illusione di questo rapporto ravvicinato con il mondo e con gli altri. L'automobile è un oggetto che ha completamente colonizzato anche il nostro immaginario come testimoniano le migliaia di canzoni dedicate ad essa. Per non parlare dei film e di quel ricchissimo genere cinematografico, il road movie, che tanto ci ha fatto sognare mondi lontani, accompagnando le nostre più ingenue utopie di cambiamento e dandoci quell'illusione, così necessaria a noi umani, che tutto sia sempre possibile, che sia possibile fuggire dalla prigione della casa e al tempo stesso portarsela appresso, per poi magari farvi ritorno completamente trasformati.



L’automobile” - continua La Cecla - “è una casa, però è molto di più di una casa, penso che in qualche modo ti libera dalla casa, è una casa le cui finestre sono aperte al mondo. La cosa che impressiona è che il mondo diventa tutto un paesaggio percorribile, tu vedi le cose, sei in mezzo alle cose, ma comunque le vedi attraverso una finestra. L’automobile da questo punto di vista è anche la mamma della televisione. Perché il parabrezza è una finestra sul mondo. (...) L’automobilista è un flaneur, è qualcuno che ha un rapporto col mondo da fruizione disincantata e distaccata, che ha un rapporto con gli altri nel traffico, che non è un rapporto vero, nel senso che poi le persone le vedi attraverso i vetri, ma non è che hai un rapporto umano, diretto. Tutto questo fa parte anche della costruzione dell’indifferenza, che è anche una delle cifre della modernità, cioè tu sei nel mondo, ma sei indifferente al mondo, e agli altri”. Un'ipotesi inquietante che spiegherebbe molte delle contraddizioni tipiche della nostra epoca, quel senso ambiguo di essere dentro la realtà, ma nel contempo di non riuscire a comprenderla appieno, la contemporaneità di presenza ed estraneità dentro noi stessi, dentro i luoghi in cui viviamo e che percorriamo ogni giorno, dentro il nostro mondo perennemente “visibile”, illuminato a giorno e senza ombre apparenti, ma il cui significato continua a sfuggirci. E forse si spiega anche quel vago senso di nostalgia, come di qualcosa che sta finendo, che pervade sottilmente I'm in love with my car”. Forse l'automobile con le sue emozioni artificiali, i suoi sogni perduti e i suoi reali incubi sociali, sanitari, economici e culturali è già uno oggetto del passato, qualcosa da consegnare alla storia, mentre i giovani umani che vivono e attraversano oggi le nostre città accarezzano sogni di fuga e di cambiamento completamente diversi, realizzabili con strumenti più maneggevoli come uno smartphone. Anche se ugualmente illusori nell'idea di colmare distanze e coltivare rapporti nuovi e più ricchi di significato. Forse solo nuovi strumenti per coltivare l'umana indifferenza al mondo e sfamare nuovi incubi, in fondo così simili a quelli prefigurati in un'altra famosa canzone “automobilistica” del 1979, “Highway to hell”, della band americana AC DC: “Vivo tranquillamente, amo liberamente/ abbonato per una corsa di sola andata/ (...) Non ci sono segnali di stop o limiti di velocità/ nessuno riuscirà a farmi rallentare/ (...) Hey mamma, guardami,/ sono sulla mia strada per la terra promessa/ Sono sull'autostrada per l'inferno”.
Marcello Cella


I'm in love with my car
Regia, soggetto e sceneggiatura: Michele Mellara, Alessandro Rossi
Fotografia: Michele Mellara
Montaggio: Marco Duretti, Michele Mellara, Alessandro Rossi
Musica originale: Nicola Bagnoli
Suono: Alessandro Rossi
Operatori: Michele Mellara, Francesco Merini, Umberto Romagnoli, Marco Cavalli
Produttore: Ilaria Malagutti
Produzione: Mammut Film srl con il supporto di programma Media della Comunità Europea, il contributo del Fondo Audiovisivo della Regione Emilia Romagna ed il sostegno della Film Commission Torino Piemonte e della Regione Piemonte
Nazionalità: Italia
Anno: 2017
Durata: 72 minuti