mercoledì 21 luglio 2021

 Viaggiatori invisibili 

No borders. Flusso di coscienza 

di Mauro Caputo


Il documentario del cineasta friulano racconta, aggirandosi lungo i sentieri sul confine tra Italia e Slovenia, il dramma dei migranti che entrano in Europa attraverso la rotta balcanica.





Esistono viaggiatori che nessuno vuole vedere e che non desiderano mostrarsi. Esistono viaggiatori che non percorrono le strade più conosciute e che per spostarsi non usano i mezzi di trasporto più comodi. Esistono viaggiatori che preferiscono muoversi a piedi di notte nei boschi sui monti al confine fra l’Italia e la Slovenia. Esistono viaggiatori che quando attraversano il confine per entrare in Europa abbandonano tutto il bagaglio che li ha accompagnati fino a quel momento, tutte le cose che potrebbero riportarli al punto di partenza, tutto ciò che potrebbe rivelare la loro identità. Esistono viaggiatori che, come l’acqua dei fiumi, non possono più tornare indietro ma solo avanzare verso una meta incerta e pericolosa, ma inevitabile perché, come l’acqua dei fiumi, se incontrano un ostacolo troveranno il modo di aggirarlo. E se il modo non si trova la morte è una compagna di viaggio sempre presente, una possibilità da mettere in conto e forse nemmeno la peggiore se l’alternativa è morire di fame o sotto le bombe di una delle tante guerre che insanguinano il pianeta. Questi viaggiatori sono i migranti che percorrono ogni giorno, ogni notte, da anni i confini di Grecia, Montenegro, Macedonia, Bosnia, Serbia, Croazia, Slovenia, che affrontano il “gioco”, “The Game”, il percorso ad ostacoli lungo la rotta balcanica per entrare in Europa. Si stima che siano state oltre 800.000 le persone che hanno utilizzato questo percorso faticoso, difficile e pericoloso per fuggire dalle tante disgrazie che affliggono i paesi che stanno a sud del ricco Occidente. 



No borders. Flusso di coscienza”, uscito quest’anno, ma girato fra il 2019 e il 2020, racconta l’odissea di questi migranti utilizzando un punto di vista inusuale, tutto interiore, un flusso di coscienza appunto (la bella voce fuori campo dell’attore Adriano Giraldi e le musiche fortemente evocative del compositore Francesco Morosini), che accompagna le immagini dei sentieri segnati dalle tracce, dagli oggetti di uso comune, dai vestiti e dai documenti abbandonati da questi invisibili viaggiatori. Oggetti e documenti che raccontano meglio di tanta sociologia spicciola le provenienze e le vite individuali e collettive di questo anonimo esercito di persone in fuga. Del resto, al di là dei drammi legati alla migrazione, si tratta di raccontare una presenza che in realtà è un’assenza. Come afferma il sociologo algerino Abdelmalek Sayad, citato nel libro con cui viene distribuito il documentario, “La porta d’Europa. Il confine italiano della rotta balcanica”, la migrazione non è un fenomeno solo economico o demografico. L’esperienza della migrazione è segnata da una doppia assenza, dal Paese in cui il migrante è nato e nel Paese in cui sceglie di vivere. “Una è l’assenza dell’immigrato dalla propria patria, l’altra è l’assenza dell’emigrato nelle cosiddette “società d’accoglienza”, nelle quali è incorporato ed escluso al tempo stesso. (…) La presenza dell’immigrato è sempre una presenza segnata dall’incompletezza, è colpevole in sé stessa. E’ una presenza fuori posto in tutti i sensi del termine”. 



Il cineasta Mauro Caputo e la sua troupe hanno girato per un anno e mezzo lungo questi sentieri, attraversando villaggi di confine e boschi che in altri tempi sono stati testimoni di altri passaggi e altri scambi fra i popoli che li hanno vissuti, cercando di ricostruire storie e percorsi dei migranti, raccogliendo oggetti e documenti, unici testimoni di queste identità abbandonate.  “La parola d’ordine è “ricominciare daccapo”. - racconta la voce dell’attore Adriano Giraldi - “In quelle radure avviene una sorta di rito individuale: i migranti si rendono invisibili, senza nulla che possa farli identificare. All’apparenza si azzera tutto: la propria origine, i luoghi in cui si è transitasti. Un nuovo spazio e un nuovo tempo cominciano in quei boschi (…). L’identità di ognuno, tenuta stretta per tutti quei chilometri (…) adesso, al traguardo illusorio di quell’invisibile porta d’Europa, è da dimenticare, da nascondere agli sguardi che li incroceranno nel lungo cammino che ancora li attende”.  Ma grazie ai nomi delle persone lasciati nei documenti abbandonati, raccolti dal regista, è come se li avessimo incontrati e conosciuti. Come se avessimo conosciuto le loro storie in cammino dentro gli zaini e le scarpe rotte. 




“No borders. Flusso di coscienza” non è però solo un documentario che cerca di raccontare le storie e la vita dei tanti Omar, Mohamed, Azra che hanno percorso quei sentieri, immaginando i paesi da cui provengono, lontani ma così vicini, vicini a tal punto da far pensare che Trieste non confina solo con la Slovenia, ma anche con la Somalia, l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq, la Siria, l’Eritrea, la Tunisia, il Pakistan, il Marocco, il Mali, la Turchia…Come in uno specchio in cui lo spettatore riconosce le proprie paure e misura la propria indifferenza al dolore altrui, anche noi occidentali siamo tirati in causa perché viviamo a metà strada tra la nostra paura e la curiosità per questi destini diversi che improvvisamente ci si palesano senza bussare alla porta. Fin dall’inizio il documentario di Mauro Caputo mette bene in evidenza i sentimenti in cui tutti ci dibattiamo quando entriamo in contatto con queste persone: la paura e la curiosità. “La paura è uno stato emotivo di forte preoccupazione, di insicurezza e di angoscia che si avverte in presenza o al pensiero di pericoli reali o immaginari. La paura è sempre stata uno strumento di potere, usata spesso come arma politica e di propaganda. (…) La curiosità è un istinto che nasce dal desiderio e dal piacere di accrescere il proprio sapere. E’ la curiosità che ci ha portato in questi luoghi, giorno dopo giorno, tenacemente, come il fluire del tempo, della storia, dell’acqua del Danubio che percorre la lunga via d’Europa, attraversandone liberamente i confini. Perché la curiosità è l’antidoto alla paura. E’ la strada che porta alla conoscenza”. Questi sono i sentimenti che ci definiscono come esseri umani e che definiscono la nostra posizione, il nostro ruolo, il nostro punto di vista, il nostro sguardo rispetto all’umanità dolente, la dimensione etica evocata dallo scrittore Giorgio Pressburger, fuggito nel ’56 dall’Ungheria in Italia con in tasca solo i pochi soldi fornitigli dalla Croce Rossa, a cui il film è dedicato: “Noi non siamo esseri umani se non prendiamo su di noi la responsabilità di un altro uomo e attraverso questo uomo di tutta l’umanità. Appena appare un volto sull’orizzonte della nostra coscienza di quel volto ne siamo responsabili, anche senza sapere nulla di lui. Punto essenziale dell’esistenza di ognuno o di noi è l’assunzione di questa responsabilità”. 



Marcello Cella






No borders. Flusso di coscienza

Regia: Mauro Caputo 

Direttore della fotografia: Daniele Trani 

Produttori esecutivi: Federica Crevatin e Debora Desio 

Musiche e sound design: Francesco Morosini 

Montaggio video: Mattia Palomba

Produzione: coproduzione VOX Produzioni e A_LAB Production

Anno di realizzazione: 2020

durata: 65 minuti 



La porta d’Europa. Il confine italiano della rotta balcanica di Mauro Caputo, Donatella Ferrario, Marietti editore, 2021





lunedì 8 marzo 2021

Daniel Schmid, il “mostratore d’ombre”




Daniel Schmid, il “mostratore d’ombre”  

“Daniel Schmid, un racconto fuori stagione”

di Anna Albertano e Luisa Ceretto


“Odio la luce del sole”

Daniel Schmid


Temo che non molti oggi in Italia conoscano i film del cineasta svizzero di lingua tedesca Daniel Schmid, regista di cinema, di documentari e di opere liriche, pienamente partecipe dagli anni Sessanta del secolo scorso di quella “new wave” del cinema elvetico che faceva riempire i cineclub di cinefili curiosi e affamati di visioni eccentriche sulla realtà con le opere di autori come Alain Tanner e Claude Goretta, solo per citare i più noti, con il loro sguardo critico sulle fortune economiche e sociali del “miracolo svizzero” e sulla sua storia tutt’altro che immacolata. Nello stesso tempo le sue opere venivano accomunate anche a quelle degli amici e sodali Rainer Werner Fassbinder e Werner Schroeter, protagonisti a loro volta del nuovo cinema tedesco. Proprio questo suo essere ai confini di due mondi cinematografici coevi, ma diversi, ha impedito spesso al pubblico di definirlo meglio all’interno di una tendenza e di apprezzare i suoi film. Svizzero, ma non strettamente catalogabile all’interno della cinematografia svizzera, tedesco, ma non abbastanza per vedere le sue opere collocate al pari di quelle degli autori citati, Daniel Schmid si è sempre mosso, da frontaliero qual’era per le sue origini familiari e per cultura, a cavallo di mondi e di linguaggi diversi, sfuggendo ad una catalogazione più precisa delle sue opere che ne avrebbero limitato la libertà espressiva, ma anche ad una popolarità che avrebbe senz’altro meritato. 

Quindi il bel documentario di Anna Albertano e Luisa Ceretto “Daniel Schmid, un racconto fuori stagione”, che nel titolo parafrasa un suo film autobiografico del 1992, “Fuori stagione”, e ne rivendica una diversità radicale rispetto a qualsiasi moda culturale, è particolarmente utile per ricordare un cineasta importante per la cinematografia europea. Ed è anche un modo per riflettere su cosa sia il cinema, il suo linguaggio, la sua ‘necessità’ espressiva, la sua importanza sociale, rispettando anche nella sua struttura quel suo essere sempre al confine fra la luce e l’ombra, quella sua tendenza onirica che si esprimeva anche nei suoi film più realistici. Infatti “Daniel Schmid, un racconto fuori stagione”, pur essendo costruito a partire da una conversazione con l’autore di Luisa Ceretto risalente alla fine degli anni Novanta, svoltasi in un bar e dall’aria apparentemente svagata, su cui si innesta un montaggio di immagini che si accavallano morbidamente le une sulle altre, quasi in un abbraccio onirico, tratte dalle sue passeggiate in città (Bologna), dai suoi film, dalle sue montagne svizzere, dall’albergo in cui è nato e cresciuto, si rivela una riflessione profonda e densissima sul cinema, sull’immagine, e sul loro significato all’interno di un mondo che apparentemente ha sostituito la parola, la memoria, il tempo, la narrazione con un eterno presente visivo privo di profondità (di campo e di tempo). 



Ma chi era Daniel Schmid? L’Enciclopedia Treccani lo ricorda così: “Regista cinematografico, teatrale e televisivo svizzero, nato a Flims (Waldhaus) il 26 dicembre 1941. Autore tra i più rappresentativi del cinema svizzero-tedesco, nella sua filmografia ha alternato opere di finzione e documentarie, per descrivere, con i toni del melodramma, onirici o tragici, passioni d'amore devastanti e relazioni sociali opprimenti. I suoi film sono legati alla memoria e al tempo, a spazi chiusi dai quali si aprono nuovi percorsi della visione e del ricordo. Figlio di albergatori, trascorse l'infanzia nel cantone dei Grigioni, in un grande hotel di montagna. Fin da ragazzo si appassionò al cinema e all'opera e nel 1962 si trasferì a Berlino per studiare storia, politologia, giornalismo e storia dell'arte alla Freie Universität e nel 1966 si iscrisse alla Deutsche Film und Fernsehakademie”. E poi l’incontro con Fassbinder che ne ha segnato il percorso artistico in modo indelebile in una intensa condivisione esistenziale e collaborazione artistica che li ha spesso visti presenti l’uno nelle opere dell’altro, ma con una forte differenza di approccio al mezzo espressivo, alla narrazione e alla riflessione sulla storia contemporanea. Tanto disperatamente pessimista, violento e visionario quello di Fassbinder, quanto inquietante e onirico quello di Schmid, pur non essendo meno critico dell’amico sul suo presente storico. 

E’ che Schmid ha sempre preferito alla critica diretta ad un modo di vivere e di pensare profondamente ipocrita e opprimente, quello della borghesia europea postbellica che cercava di non fare i conti con le ombre della propria storia nascondendole sotto una luccicante patina di modernità e di successo economico, un percorso espressivo e narrativo più deviante che non va inteso come una rinuncia alla lotta, ma come un modo per cercare di prefigurare una via d’uscita esistenziale ed artistica altra rispetto alla visione sociale dominante negli anni del suo agire creativo. Una modalità che gli apparteneva profondamente a partire dalla sua biografia di uomo “di frontiera”. “Io sono una persona di traffico di frontiera, fra nord e sud (…), fra est e ovest (…), senza identità culturale”, dichiara fin dall’inizio del documentario. E poi, più avanti: “Sono nato in un albergo, ho viaggiato come un bambino”. E ancora: “Essere su una frontiera, fra due culture, fra due epoche, fra un mondo di vivi e un mondo di morti”. E’ chiaro quindi come Schmid abbia sempre preferito, diversamente da Fassbinder, un attacco meno frontale, meno diretto alle ipocrisie della sua epoca, prefigurando una via d’uscita esistenziale che faceva del viaggio, della mobilità fisica e mentale, della visione onirica, del vissuto programmaticamente multiculturale dei suoi film (“Nei miei film ci sono sempre tante lingue differenti”), della sua istintiva curiosità per culture lontane dalla sua, non una via di fuga, ma il modo più naturale per lui di spostare lo sguardo, il pensiero, la vita verso un altrove che non si definiva più come critica dell’esistente, trattandosi di un vissuto già altro rispetto ai ‘confini’ etici e culturali dominanti. 



Anche la sua ricerca e il suo amore per la teatralità e il mondo della lirica o il suo rifugiarsi spesso nel passato non assume un ruolo regressivo e non è soltanto un dato biografico, per quanto fondamentale per la sua crescita come persona e come artista (“Io vengo da un milieu di emigranti, cresciuto con tanta gente, con ebrei fuggiti, salvati dai nazisti, dai fascisti. Noi eravamo un albergo di emigrazione, tanta gente passava la guerra nel nostro albergo”). Basta ricordare un documentario bellissimo come “Il bacio di Tosca” del 1984 (https://www.youtube.com/watch?v=YH9XRw2cpbw&t=1842s), girato interamente nella Casa Verdi, una casa di riposo per cantanti e musicisti che abbiano compiuto 65 anni di età, fondata dal famoso compositore nel 1899 a Milano, per rendersi conto che la memoria, il ricordo non hanno niente di nostalgico o di mortifero perché, come afferma Schmid, “il futuro è fattibile solo se il passato è pensabile”, e, ancora, “la presenza dei morti, nella mia famiglia, tanti erano morti però erano molto vivi, nel racconto delle persone vive”. Ma è una rivendicazione artistica, politica, esistenziale della possibilità di conservare un mondo poetico, una profondità emotiva e riflessiva, un’oasi di bellezza e di umanità nonostante il rumore spesso violento e assordante del mondo circostante (e, in questo senso, le riprese iniziali e finali della Milano rumorosa e indifferente che circonda  Casa Verdi, sono estremamente significative). 

Si tratta di conservare, accudire, nutrire, far crescere il pensiero di una vita diversa, di un mondo più accogliente per tutti, la possibilità di uno sguardo bambino sulle cose che le veda per ciò che sono nella loro nuda verità, per poi poterle cambiare. “Spero sempre, ed è molto difficile, di conservare un po’ quello sguardo di bambino, quello sguardo innocente e di fare tutto il possibile per preservare quella innocenza da noi tutti perduta”, afferma Daniel Schmid in un altro momento del documentario. Perché è proprio nella meraviglia contenuta in quello sguardo bambino che risiede il sogno di una vita diversa e il sogno stesso del cinema che si rinnova ogni volta che degli sconosciuti si riuniscono in un cinema e nel buio attendono la meraviglia contenuta nelle sue immagini. 

“Il sogno del cinema è tutto lì, in quel desiderio, in quella necessità di essere meravigliati”. Una meraviglia, quella magica del “mostratore d’ombre”, che la luce del sole, l’apparenza luminescente e vuota di troppa realtà quotidiana può far scomparire e disperdere.



Un’ultima nota, ma necessaria, va detta riguardo alla produzione del film. “Daniel Schmid, un racconto fuori stagione” è stato prodotto dal Fondo Archivio M.C., di cinema e letteratura, in memoria di Mario Ceretto, imprenditore ex partigiano, vittima di mafia, archivio che da tempo raccoglie documenti filmici e fotografici, con la rivista online “Primi Piani” dedica numeri monografici a registi, scrittori e poeti, e che precedentemente ha prodotto i documentari “Tempi di fabbrica” (2015) e “I partigiani alpini della VI G.L.” (2018), riguardanti l’archeologia industriale e la Resistenza partigiana nel Canavese. Come ha dichiarato Anna Albertano, regista di “Daniel Schmid, un racconto fuori stagione”, "l’aver potuto cogliere anche solo qualche momento dell'intensa esistenza di Daniel, sottraendolo all’oblio, risponde all’obiettivo dell’Archivio M.C. di recupero della memoria cinematografica". 



Marcello Cella


Regia e Adattamento: Anna Albertano 

Soggetto e Ricerca iconografica: Luisa Ceretto 

Montaggio e Postproduzione: Davide Pepe 

Riprese: Matteo Degli Enzi

Una produzione Archivio MarioCeretto                                 

(http://www.archiviomc.com)

Origine: Italia, 2020
Durata: 24’