domenica 24 giugno 2012

Workshop aperto a tutti alla Stazione di San Giuliano Terme (Pisa) il 28 giugno 2012 alle ore 17.00. La Romania e l'abbandono minorile. Bambini e adolescenti istituzionalizzati, ragazzi di strada e un fenomeno sociale nuovo e devastante, quello dei cosiddetti orfani bianchi, cioè i bambini lasciati in patria alle cure di parenti e amici dai genitori emigrati all'estero per lavoro. Una situazione che riguarda circa 350.000 minori e che sta diventando un grave problema sociale: abbandono scolastico, suicidi, consumo di sostanze, depressione, devianza il corollario drammatico di questa condizione di disagio. Un incontro aperto a tutti per capire insieme il fenomeno e cosa si può fare per contrastarlo.

sabato 9 giugno 2012

Essendo uno degli autori del documentario forse non dovrei farlo, ma vorrei ringraziare tutti delle bella e commovente partecipazione di giovedì' sera alla proiezione del nostro documentario "Sessantottozerootto - Dialoghi a distanza sui tempi che cambiano". Soprattutto vorrei ringraziare Giuseppe e Francesca che hanno messo veramente l'anima per portare a termine nel migliore dei modi un progetto lungo e complesso come "68-08". Senza di loro, la loro passione, la loro capacità di sognare insieme a me nulla di tutto ciò che avete visto sullo schermo sarebbe stato fatto. Perchè lo abbiamo fatto? Sicuramente per passione, forse per incoscienza e, per quanto mi riguarda, anche per un certo fastidio per la rimozione storica e la falsificazione che circonda il discorso pubblico su quegli anni. Io, per età anagrafica non ho partecipato a quegli eventi, ma li ho vissuti anni dopo di riflesso, durante il '77 che è stata una cosa diversa, un movimento forse più "estetico" che politico, ma comunque "etico" (l'etica è contenuta, non solo terminologicamente nell'estetica). E comunque, non essendo per indole un militante di professione, mi ricordo però sempre uno slogan che campeggiava spesso sui muri della mia città natale (La Spezia) in quegli anni e che, miracolosamente, ancora resiste in alcune viuzze del centro meno battute dai turisti e che recitava: "Non sognare, fallo". Uno slogan che non era contro il sogno dei sessantottini, ma esprimeva l'esigenza che alle belle parole facesse seguito anche qualche buona azione nel tentativo di migliorare almeno un po' questo nostro mondo così diseguale. Io quella frase me la sono sempre portata dentro sia quando ho affrontato temi più prettamente estetici e culturali (sicuramente per questo sono sempre stato attratto più dal cinema della realtà o dai documentari sociali che non dal cinema più prettamente di finzione) che nei miei impegni professionali. In questo senso trovo una certa coerenza nel fare un documentario come "68-08" e occuparmi di adolescenza e infanzia in condizioni di disagio in Italia e in Romania. Non sarà la Rivoluzione, ma se è vero che, come afferma il Talmud e la tradizione religiosa ebraica, "se salvi una vita salvi il mondo intero", noi a questa piccola, lillipuziana rivoluzione delle coscienze abbiamo cercato di dare il nostro modesto contributo. Cercando anche di far assumere a questo nostro documentario un senso di dialogo fra le generazioni che ci premeva molto di più che partecipare alla ricorrenza del '68 come evento mediatico-politico. La lettera del padre che cerca di comunicare almeno un po' della sua vita alla figlia, come la canzone che una figlia, Evelin Bandelli, dedica al padre Alfredo, che di quell'epoca fu uno dei maggiori cantori, alla fine del film, hanno un po' questo significato. Fra l'altro mi piace sempre ricordare un aneddoto che è anche significativo di quanto la realtà entri in un'opera non preconfezionata come è il documentario sociale, per darle un tocco di poesia che essa contiene in sè per chi sappia osservarla con attenzione. La lettera del padre alla figlia all'inizio del film non è un escamotage narrativo, ma è una lettera vera, il frutto di un incontro sorprendente. Infatti anni fa, quando inziai a pensare a questo progetto e ad un'idea che non fosse la rappresentazione audiovisuale di una tesi, durante una mia ricerca all'interno di una libreria dell'usato, venni attratto dalla copertina di un libro, di cui non ricordo nemmeno il titolo, e per qualche motivo, lo comprai. Arrivato a casa cominciai a sfogliarlo e ad un certo punto da una pagina interna cadde per terra un foglio. In questo foglio un padre scriveva questa lettera alla figlia per motivare il regalo del libro. Di quel libro. Mi commosse e decisi che se avessimo realizzato questo documentario l'avrei utilizzata. E così è stato. Fra l'altro è la seconda volta che mi succede. Anni fa, durante la realizzazione di un altro mio documentario a cui tengo molto, "Un sorriso in faccia la mondo", girato in Romania su bambini e adolescenti che avevano vissuto l'esperienza terribile dell'orfanotrofio, un giorno da un libro abbandonato da qualcuno su un tavolo dell'appartamento sociale della fondazione romena che mi ospitava, mi cadde in mano un foglio. Su questo foglio una ignota volontaria cominciava a raccontare la sua esperienza negli orfanotrofi romeni ad un immaginario diario. Quell'ignota volontaria e quella pagina di diario sono poi diventati la struttura narrativa del documentario. Tutto casuale? Può darsi. Ma se ha ragione chi afferma che niente nella vita avviene per caso. ma sempre per una insondabile necessità, voglio pensare che quella pagina di diario come questa bella lettera di un padre alla figlia siano stati un piccolo/grande regalo del dio dei sognatori, un suo incoraggiamento a chi, come noi, cerca di vivere e agire umilmente ma fermamente, pur con tutte le proprie fragilità e contraddizioni, secondo i principi contenuti in quello slogan del '77 vergato da mani ignote su alcuni muri della mia città natale: "Non sognare, fallo". Marcello Cella

sabato 26 maggio 2012

Sessantottozerootto Dialoghi a distanza sui tempi che cambiano
di Marcello Cella, Giuseppe Favilli e Francesca Paita Musiche originali di Francesco Celati Canzoni di Alfredo Bandelli, Evelin Bandelli e Vanz Produzione NeOki Film 2012 Verrà presentato il 7 giugno al Cineclub Arsenale di Pisa (ore 18.30) “Sessantottozerootto – Dialoghi a distanza sui tempi che cambiano”, un documentario di Marcello Cella, Giuseppe Favilli e Francesca Paita, che cerca di ripercorrere attraverso 40 interviste e molto materiale documentale inedito la lunga e complessa storia del movimento giovanile del '68 a Pisa. Il lungometraggio è il frutto di 4 anni di lavoro in cui i tre cineasti della NeOki Film, un'associazione culturale pisana di appassionati cultori del documentario a carattere sociale, hanno fatto ricerche a largo raggio per cercare di ricostruire al di là di schematismi ideologici e manipolazioni una storia che sembra lontana, ma i cui risvolti politici, sociali, economici arrivano fino ad oggi e interrogano ancora il presente che viviamo. Cosa è stato il '68 a Pisa? Come è stato vissuto dai protagonisti dell'epoca? E che cosa rimane oggi di quel fuoco, di quella passione che aveva spinto migliaia di giovani a scendere per mesi quasi quotidianamente in piazza, ad occupare le facoltà universitarie, ad espandersi come un'onda in piena in città? Quali sono stati i fatti che hanno contrassegnato questo enorme e complesso movimento giovanile a Pisa? Quando è nato veramente il Sessantotto a Pisa? E quando è finito? Cosa lega la critica anti-autoritaria di quegli anni con le richieste di cambiamento che da almeno 15 anni salgono periodicamente alla ribalta sostenute da movimenti giovanili variegati, dai no global agli indignati? In “Sessantottozerootto – Dialoghi a distanza sui tempi che cambiano”non c'è traccia di nostalgia e di retorica, solo di emozioni raccontate e rivissute molto lucidamente dai protagonisti della storia. Una storia che gli autori hanno voluto far arrivare fino ad oggi intervistando anche alcuni giovani da alcuni anni impegnati a livello politico, sociale e culturale a Pisa per tenere accesa la fiamma del bisogno di cambiamento che pervade loro ed i loro coetanei. Il documentario di Cella, Favilli e Paita è necessariamente parziale data la complessità degli avvenimenti e dei suoi protagonisti, ma ricco di elementi utili ad una riflessione storica, politica e culturale sull'Italia degli ultimi 40 anni e sull'evoluzione avuta dalla stessa città di Pisa in questi decenni. Sullo sfondo di un affresco storico variegato e mobile si muovono i protagonisti-narratori di queste interviste, le loro vicende personali, i conflitti, i luoghi di incontro e di scontro in città, le nuove forme di comunicazione e di socializzazione, il loro intreccio con le vicende politiche nazionali e internazionali che prefigurava già una forma di globalizzazione delle coscienze, prima ancora che economica. Le lotte contro lo sfruttamento, le ingiustizie sociali, l'autoritarismo del potere rimbalzano dal '68 nel vissuto quotidiano e nelle lotte dei giovani di oggi in modo spesso inaspettato. Per trovare risposte nuove a domande che non sono solo di carattere politico o sociale, ma anche esistenziale, per scoprire modi di vita meno distruttivi per l'uomo e per il suo ambiente. O, forse, anche solo per continuare ad inseguire un sogno o un'utopia che possa illuminare ancora il cammino di chi anche oggi lotta per cambiare, anche solo un po', questi tempi difficili in cui viviamo. Le musiche originali di Sessantottozerootto – Dialoghi a distanza sui tempi che cambiano” sono del compositore pisano Francesco Celati, mentre le canzoni sono di Alfredo Bandelli, storico cantautore politico del Canzoniere Pisano negli anni '60-'70, e di sua figlia Evelin, che ne ripercorre le tracce. Nella colonna sonora è presente anche una canzone del gruppo rock maremmano Vanz. Fra i contenuti speciali del dvd una ricostruzione della storia del Mercato Rosso nel quartiere Cep, una sorta di Gruppo di Acquisto Solidale ante litteram, la morte quasi del tutto dimenticata dello studente Cesare Pardini nel 1969 durante una manifestazione a Pisa, ed una intervista inedita ad Alain Krivine, storico leader del Maggio francese, concessa agli autori del documentario dopo un convegno sul '68 tenutosi a Pisa nel 2009. NeOki Film è un'associazione culturale nata nel 2006 per volontà di alcuni cineasti e appassionati interessati alla realizzazione e alla divulgazione di documentari a carattere sociale e culturale, operando a vari livelli sul territorio pisano con progetti originali e organizzando corsi sugli audiovisivi in alcune scuole della zona. Fra le sue produzioni più impegnative “Un sorriso in faccia al mondo” (2006) di Marcello Cella e Fabio Ferracane, girato in Romania in alcuni orfanotrofi e strutture d'accoglienza per minori in situazione di estremo disagio, “Sognando il derby” (2008), sul mondo dell'ippica, e “Ma sempre coraggio” (2010), tratto dai diari di un soldato della Prima Guerra Mondiale, entrambi di Francesca Paita. Info: Marcello Cella web: www.neokifilm.it email: info@neokifilm.it tel. 050-573866 cell. 349-7331156

venerdì 30 marzo 2012


Ho intervistato Antonio Tabucchi nel 1995. L'occasione fu la presentazione del film "Il filo dell'orizzonte" del regista portoghese Fernando Lopes, tratto dal suo omonimo romanzo. Ci incontrammo in un bar del centro di Pisa e fu un'intervista difficile, sicuramente la più difficile che mi sia capitato di fare. Tabucchi non mi conosceva, pensava fossi un giovane cronista un po' superficiale ed ignorante e fu necessaria una buona mezz'ora di monosillabi e la constatazione da parte sua che io i suoi romanzi li avevo letti tutti prima che cominciasse davvero a dirmi qualcosa di interessante. In ogni caso fu una bella sudata per il sottoscritto, una prova di quanto lavoro bisogna fare per realizzare una buona intervista. Ma anche un incontro appassionante con uno dei miei autori preferiti. Saluto oggi il grande scrittore che ho avuto il privilegio di conoscere anche solo per un momento riesumando dai miei cassetti questa intervista fatta in quel grigio novembre di 17 anni fa in un bar spoglio e semideserto e il successivo resoconto della serata in cui fu presentato il film presso il cineclub Arsenale di Pisa. Buona lettura.

Lo scrittore è un ascoltatore

Intervista ad Antonio Tabucchi, aprile 1995

L'intervista che segue è il frutto di un incontro con lo scrittore Antonio Tabucchi avvenuto in un caldo pomeriggio primaverile in un bar semideserto dopo aver assistito alla proiezione di uno dei film della rassegna sul cinema portoghese degli anni Ottanta organizzata dal cineclub Arsenale di Pisa in collaborazione con l'Istituto Portoghese di Arte Cinematografica e Audiovisuale di Lisbona, l'Istituto Camoes di Lisbona, l'Istituto di Portoghese dell'Università degli Studi di Pisa e il Comune di Pisa. Una rassegna alla quale lo scrittore pisano ha partecipato per presentare il film A Linha do Horizonte di Fernando Lopes tratto dal suo romanzo Il filo dell'orizzonte, ancora purtroppo inedito in Italia, e che sta girando con successo anche in altre città italiane. Un incontro in cui l'immagine del cinema che spesso frequenta l'opera di Tabucchi è diventato il pretesto per parlare della sua scrittura e dei temi in essa ricorrenti. E' certo che il rincorrersi di parole e immagini filmiche nei pensieri dei due interlocutori ha influenzato domande e risposte di questa conversazione che altrimenti si sarebbe senz'altro svolta in altro modo. Non so se migliore o peggiore. Ma certamente diverso. (m. c.)

La prima cosa che le volevo chiedere riguarda una affermazione che le ho sentito fare ad un giornalista qualche tempo fa, e cioè che la lettura è una attività più rassicurante della scrittura.
Tabucchi: No, ho detto che è una attività più nobile perchè più astratta. E' una frase di Borges, una citazione. Borges diceva che leggere è una attività più nobile dello scrivere. In realtà per leggere bisogna prendersi il tempo necessario. Sa, nei momenti in cui si scrive si legge anche poco. Perlomeno a me succede così. Fortunatamente ci sono molti periodi in cui non si scrive.

Riguardo al cinema portoghese, lei ne ha una buona conoscenza?
Tabucchi: Molto limitata. Il film che abbiamo visto oggi (Cerromaior di Luis Filipe Rocha, ndr.) mi è piaciuto molto…

…In questo film c'è uno scontro generazionale che però non esplode mai. Questo secondo lei è una visione personale del regista o ha un suo fondamento storico nelle vicende portoghesi?
Tabucchi: Forse in quegli anni lì questo confronto non poteva esplodere. Nel 1938 questo conflitto generazionale era difficile che si potesse manifestare, per quanto nel romanzo di Manoel de Fonseca mi pare che il protagonista maschile prenda posizione, si definisca, si mette contro la sua famiglia (di latifondisti terrieri, ndr.), fa una scelta politica. Nel film questo non avviene. Lui se ne va. C'è l'abbandono. Una distanza. Credo che sia un'interpretazione del regista. Il conflitto, il confronto si sarebbe manifestato solo negli anni Settanta, con la 'rivoluzione dei garofani'. E il Portogallo avrebbe dovuto aspettare ancora molto.

Ieri a Lopes ho chiesto se c'è stato questo scontro con i padri nello stesso modo in cui è avvenuto in altre cinematografie e lui diceva che non è mai esploso chiaramente e che si è preferito scegliere altri padri.
Tabucchi: Non lo so perchè non conosco sufficientemente il cinema portoghese. Per quanto riguarda il confronto con i padri ciò avviene anche prima, negli anni Cinquanta e Sessanta. Basta pensare al surrealismo portoghese che è un movimento tardo per il Portogallo, e che si manifesta alla fine degli anni Quaranta proprio come una rivolta contro i padri. E' una rivolta contro il perbenismo, contro questo clima soffocante della dittatura salazarista, contro le convenzioni. Nasce proprio come movimento anarcoide, come movimento contestatario. Quindi questo conflitto si manifesta. Se non nel cinema perlomeno nella letteratura.

Secondo lei c'è stato uno stacco netto tra l'epoca salazarista e quella di Caetano o c'è stata solo un'apertura parziale?
Tabucchi: Io direi che non c'è stata nemmeno una apertura. Secondo me è stato solo un passaggio di consegne. Caetano era il pupillo di Salazar. C'era sempre lo stato corporativo. La polizia politica è rimasta la stessa. C'è stata solo una apertura apparente.

C'è stato anche un primo utilizzo della televisione in funzione propagandistica.
Tabucchi: Ormai il salazarismo era putrido e non poteva più mantenere il Portogallo nell'isolamento completo come lo aveva mantenuto prima. Quindi non poteva neanche fermare le notizie che arrivavano in Portogallo, la diffusione dei mezzi di comunicazione, gli stessi giornali che facevano la fronda. La censura non ce la faceva più ad arginare un manifestarsi di notizie, di scontento, di voglia di informazione che c'era nel Portogallo degli anni Sessanta. E poi la guerra d'Africa, la guerra coloniale ha fatto esplodere il bubbone.

In Sostiene Pereira mi ha molto colpito il personaggio femminile perchè mi ha ricordato un altro personaggio femminile già presente in altri suoi racconti, Dolores Ibarruri. Volevo sapere se effettivamente questo personaggio di rivoluzionaria si è diluito nel personaggio di Marta.
Tabucchi: No. Personalmente non amo molto la Dolores Ibarruri. Mi pare un personaggio negativo. Ha combattuto gli anarchici, è stata stalinista, disgraziata e spazzata via dalla storia. Veramente direi che Marta più che una pasionaria è una democratica degli anni Trenta, certo di ispirazione marxista, socialista, però non ha il carattere della grande rivoluzionaria. E' una ragazza abbastanza maldestra, che si è anche messa con un ragazzo maldestro come Monteiro Rossi. Insomma sono due giovani che Pereira definisce 'due giovani ottimisti e senza futuro'. In effetti in un Portogallo come quello era difficile organizzare un vero movimento di resistenza. Marta certo ha un pregio perchè è il personaggio che sveglia Pereira dal suo letargo, mentre Monteiro Rossi tutto sommato si incarna nel ruolo della vittima sacrificale.

I personaggi femminili nei suoi romanzi sembrano sempre un po' complici dei protagonisti ma quasi mai protagoniste. Si tratta di un ruolo in qualche modo subordinato o di una scelta espressiva di altro tipo?
Tabucchi: Non so se è subordinato. Credo che per uno scrittore uomo sia molto difficile affrontare la tematica femminile, il mondo femminile. Scrittori che hanno saputo affrontare, secondo me con molta efficacia, il mondo femminile si contano sulle dita. A me viene in mente Flaubert con Madame Bovary e Tolstoj con Anna Karenina. E non sono scrittori che si trovano tutti i giorni.

In Sostiene Pereira, il protagonista è attratto dalla letteratura francese. E' un modo di astrarsi dalla situazione sua e del suo paese?
Tabucchi: Non è per quello. Direi che Pereira incarna perfettamente il tipico intellettuale portoghese degli anni Trenta che ha fatto i suoi studi a Coimbra e ha una specie di reverenza nei confronti della letteratura francese. Diciamo che la letteratura francese, con riviste come Presença, è entrata fortemente nel Portogallo proprio in quegli anni. E' entrato anche Pirandello sicuramente. Però sono entrati soprattutto Proust, Gide, Valery e tutta la letteratura francese in generale. Per di più Pereira ha una ragione in più di meditare, di riflettere sulla letteratura francese perchè, da buon cattolico come è lui, è attento alla grande letteratura cattolica che in quel periodo ha prodotto la Francia, alla sua testimonianza civile incarnata da personaggi come Bernanos, Mauriac, Maritain. Quindi c'erano molti motivi per fare di Pereira un personaggio culturalmente francesizzante.

Riguardo a Sostiene Pereira qualcuno ha parlato di romanzo storico, ma mi sembra che in tutta la sua opera il rapporto con la storia compaia sempre in qualche maniera, anche quando rimane sullo sfondo. Qual'è il suo rapporto con il presente quando scrive?
Tabucchi: Credo di essere uno scrittore che ha una certa attenzione per la storia. Non credo di essere uno scrittore intimista, egocentrico, che parla solo di sè. Mi piace parlare degli altri e quando parlo degli altri e invento dei personaggi mi piace anche situarli in un ambiente storico. Cioè mi piace anche dargli una fisionomia storica. Pereira è un romanzo che rivisita la storia del nostro passato prossimo, anche per fornire eventuali elementi di meditazione sul nostro presente. Non credo che sarei capace di scrivere un romanzo ambientato nel Cinquecento, per esempio, ma certo questo passato prossimo mi interessa molto come scrittore e come intellettuale perchè vi trovo le radici del nostro presente. Insomma, credo che quello che l'Europa ha vissuto negli anni Trenta non si può considerare un capitolo chiuso. Quando si vede il nazionalismo che ritorna, quando si vede picchiare un extracomunitario, uno deve dedurne che evidentemente certe ideologie che si sono formate negli anni Trenta hanno lasciato un loro strascico....

…Lei è intervenuto recentemente su un quotidiano, L'Unità, riguardo all'attentato ai bambini rom avvenuto a Pisa…
Tabucchi:…Si, ho espresso la mia indignazione, come credo tutta l'Italia, e credo che anche questa città, Pisa, l'abbia espressa organizzando una grossa manifestazione di solidarietà per esprimere il suo orrore di fronte ad un gesto di questo genere…

In alcuni suoi racconti del passato aleggia qualche riferimento al terrorismo. Ha mai pensato di fare come altri scrittori e trattare questa tematica direttamente? Come ha vissuto lei questo periodo storico che ogni tanto riaffiora in vario modo nell'opera degli scrittori italiani contemporanei?
Tabucchi: Naturalmente per uno scrittore della mia generazione che è passato attraverso la visione, la constatazione di quello che stava succedendo nel nostro paese certi segni degli avvenimenti che stavamo vivendo sono stati lasciati. Io non ho mai preso il problema di petto anche perchè credo che se riesco a riflettere sulla storia non riesco a fare cronaca ed ho sempre temuto che affrontando il problema in una maniera diretta potessi fare una letteratura sostanzialmente cronachistica che non mi piace. Naturalmente questi temi, questi motivi affiorano nella mia narrativa perchè non si può mai chiudere gli occhi di fronte a quello che sta succedendo. Oltre tutto io sono, come tutti noi, una persona che legge i giornali, che vede la televisione e fa una constatazione del nostro presente. Dunque questi avvenimenti in qualche modo si possono riflettere nella scrittura ma mai in maniera diretta.

In Notturno indiano c'è il personaggio della fotografa alla quale il protagonista chiede se è necessario vedere tutto e lei gli risponde che è meglio vedere il meno possibile…
Tabucchi: Infatti lo dice la fotografa. Lo dice una fotografa che ha visto l'orrore di Calcutta e che è andata a fotografarlo anche per il gusto un po' sadico e perverso del lettore e dello spettatore occidentale che poi va a vedere quanto è pittoresca la miseria su un libro di fotografie. E allora a questo mio personaggio faccio dire che forse non bisogna vedere tutto perchè dipende dall'utilizzazione che poi si fa di ciò che noi vediamo. E, secondo me, in un certo tipo di fotografia documentaria e miserabilista c'è a volte questo senso di leggera perversione.

Quindi è vero quello che si dice in un altro punto del romanzo che guardare è una forma di sadismo…
Tabucchi: Si, poi un libro sulle sciagure di Calcutta viene visto in un salotto milanese o in un salotto romano e magari sta su un tavolino elegante. Non so. Questa è una cosa che mi provoca un leggero turbamento…

Mi sembra di cogliere spesso anche una certa critica verso i mass-media. Per esempio, sempre rimanendo a Notturno indiano, c'è un altro punto del romanzo in cui si dice, riguardo alla fotografia, che ciò che sta dentro la sua cornice è una cosa, ma la vita fuori dalla cornice è un'altra cosa.
Tabucchi: Io per un certo verso sono anche un appassionato di fotografia. Devo dire che è un mezzo, un'espressione, un'arte che mi ha sempre attratto e inquietato nello stesso tempo. Le ho dedicato anche un largo testo in un mio romanzo, Il filo dell'orizzonte, in cui c'è proprio una meditazione sulla fotografia. Poi è chiaro che quando una persona ha un interesse in questo senso, come è il mio, si mette anche a leggere delle cose sulla fotografia. Allora ci si accorge che evidentemente esiste una filosofia della fotografia, e ci sono testi come, per esempio, quello della Sontag, di una grande profondità su questo mezzo così strano, così problematico il cui fine è quello di cogliere l'immagine per fissarla per sempre.

Pensa che, per quanto riguarda la televisione, questo sia possibile?
Tabucchi: Artisticamente la televisione mi interessa molto meno. Non possiamo certo situare il mezzo televisivo sullo stesso piano della fotografia. Lì il problema è quello dell'informazione ed è un altro discorso. Insomma la televisione se fosse ben fatta, ben utilizzata potrebbe anche essere un mezzo artistico. In questo momento non la vedo su un piano estetico. La fotografia è tutto un altro discorso.

Lei ha anche un grande interesse per la pittura....
Tabucchi: Per la pittura certamente, perchè la pittura fa parte della mia formazione culturale, molto più della musica, arte in cui non sono stato educato e quindi possiedo scarsi mezzi per capire la musica o forse è anche un fatto naturale. Le emozioni mi passano più attraverso gli occhi che attraverso le orecchie. L'emozione estetica me la dà più un quadro che una sinfonia. Questo probabilmente riguarda anche come siamo fatti. Però credo che non vi sia estranea anche la formazione che ho avuto da bambino, il fatto di essere nato in Toscana, di essere sempre stato portato in giro per i musei da mia madre, mio padre, mio zio, soprattutto mio zio paterno che mi portava nei musei fiorentini...Insomma è un'espressione che ho cominciato a capire e ad amare fin da piccolo.....

....E non l'ha mai praticata....
Tabucchi: No, mai. Io non ho mai praticato alcuna altra forma di espressione se non la scrittura in prosa. Il resto credo di non saperlo fare.

Anche se mi pare di capire che lei non ama molto questa distinzione dell'arte e della cultura in generi…
Tabucchi: Si, certo. Ormai credo che siano cadute certe barriere, in letteratura si parla solo del testo letterario. Ma si deve distinguere profondamente tra il testo poetico e il testo in prosa, il romanzo. Credo che sarei incapace di esprimere le mie sensazioni, le mie emozioni nella misura del verso. Per questo non ho neanche mai tentato....

Ma in compenso ha tradotto poesia....
Tabucchi: Si, ho tradotto poesia. Ma tradurre è essere al servizio di qualcuno. Certo io la leggo la poesia, mi piace molto, ma da lettore, non da scrittore.

In Sostiene Pereira c'è questo riferimento parallelo a generi letterari molto aperti, da una parte, e a scrittori come D'Annunzio, Marinetti, molto assertivi, pieni di certezze, dall'altra. Non crede che ci sia anche oggi questo rischio di chiusura linguistica nel testo letterario, questa tendenza ad una certa semplificazione linguistica mutuata dalla pubblicità?
Tabucchi: Non sarei così radicale. La letteratura mi pare che sia anche oggi molto varia e molto vitale. Non sto parlando solo dell'Italia, sto parlando della letteratura che sta venendo fuori anche in altri paesi. Scrivere è sempre un atto molto positivo. Secondo me è sempre meglio scrivere troppo che scrivere troppo poco, meglio leggere di più che leggere di meno. A me piacerebbe che ad ogni angolo di strada ci fosse una libreria e che le persone ci entrassero. Credo che poi la letteratura abbia mille teste e che non ci debba essere una sola ricetta per fare letteratura valida per tutti, anzi è molto bello che ci sia una grande varietà di idee, che ci sia uno scrittore che scrive sul problema del traffico in Italia e un altro che scrive sui fiori del suo giardino perchè tutte le manifestazioni della realtà hanno diritto di essere osservate e raccontate. Quindi quante più voci ci sono, meglio è.

I suoi romanzi sono spesso romanzi di viaggio. Quanto influisce il viaggio nel suo scrivere?
Tabucchi: Credo che dipenda molto dalle situazioni in cui si fa un viaggio. Ho fatto dei viaggi che non mi hanno suscitato niente, forse perchè non mi hanno suscitato l'emozione necessaria o perchè non ho trovato le persone giuste. Ci sono invece altri viaggi, spesso anche in paesi di cui non possedevo la chiave culturale, che mi hanno molto colpito perchè magari ho trovato un personaggio o perchè ho ascoltato una storia. Principalmente credo che un viaggio ha la capacità di suggerire o influenzare un testo letterario solo quando si riesce in questo viaggio a tenere gli occhi bene aperti e a cogliere molti aspetti della realtà; e poi forse sostanzialmente ad ascoltare le storie giuste perchè a me piace molto. E questo può succedere dappertutto, anche a casa mia. E' successo con le storie che mi raccontava mia nonna e che poi sono finite in Piazza d'Italia. Il bello di un viaggio è trovare una persona che non ci si aspettava e che ti dice qualcosa, ti racconta una storia, ti fa una confidenza, ti fa capire forse un brano di vita. Però in realtà questo può succedere dappertutto.

Quindi lo scrittore secondo lei deve essere un buon ascoltatore. Lei a volte sembra ipotizzare la figura di uno scrittore come medium. Anzi spesso nei suoi racconti ci sono persone che a loro volta raccontano delle storie.
Tabucchi: Questo dipende dal fatto che io ho sempre amato molto ascoltare e mi sono anche reso conto che se si è disponibili all'ascolto alle persone piace parlare. Ci sono molte persone che non aspettano altro che raccontarti una storia e a me interessano le vite degli altri. Come diceva Sartre, che quando gli chiesero cos'era secondo lui uno scrittore 'engagé' rispose che era uno che si interessava dei fatti altrui. Io non so se sono 'engagé' ma i fatti altrui mi interessano molto.

Sempre a proposito del viaggio, spesso mi sembra che nelle sue narrazioni le figure dei protagonisti si dissolvano un po' a favore della descrizione dei luoghi, dei paesaggi. Questo ha a che fare con una certa tendenza a dissolvere l'individualità dei personaggi nell'ambiente o vuole semplicemente rendere i luoghi elementi paritari del racconto?
Tabucchi: Oltre che le persone a me interessano anche gli ambienti. Non voglio essere troppo determinista, ma credo che, pur essendo le vicende personali molto importanti, anche l'ambiente contribuisca molto a creare le persone e a determinarle nelle loro scelte, nella loro mentalità. Quindi, anche senza voler fare il sociologo, devo dire che sono spesso sollecitato dalla descrizione degli ambienti.

Sono stati tratti quattro film dai suoi romanzi. Qual'è stato il suo rapporto con il cinema e con questi singoli progetti che sono stati realizzati a partire dalle sue opere?
Tabucchi: Il mio rapporto con il cinema è sempre stato un rapporto di spettatore appassionato. Ho sempre amato il cinema, mi è sempre molto piaciuto e anche oggi lo vedo volentieri. Notturno indiano è stato seguito soprattutto in Francia ed è stato molto poco visto in Italia a causa di una scarsa distribuzione. Questi sono i misteri e i problemi della distribuzione cinematografica in Italia, in cui si rischia di non vedere un film anche importante di un paese vicino per vedere magari Jurassic Park dappertutto. Il mio rapporto con questi film è stato anch'esso un rapporto da spettatore, escluso Sostiene Pereira al quale ho collaborato attivamente. Per Il filo dell'orizzonte invece ci sono stati purtroppo dei problemi che sono sfuggiti al mio controllo. Io avevo molto apprezzato la sceneggiatura precedente perchè avevo avuto la possibilità di leggerla. Poi credo che per motivi economici, di produzione Fernando Lopes sia stato costretto ad accettare un'altra sceneggiatura. Quella purtroppo non ho potuto leggerla e ho visto semplicemente il film finito. Le ripeto, l'atteggiamento che io ho verso i film che sono stati fatti dai miei libri è quello di uno spettatore curioso perchè mi rendo conto che il film tutto sommato è una lettura, una traduzione in un altro linguaggio, è un'interpretazione, a volte è quasi una recensione. E' quello che qualcun altro pensa di te.

La sua scrittura è stata influenzata dal cinema?
Tabucchi: Penso di si, senz'altro. Anzi le posso dire che quando ho scritto Piazza d'Italia ero sotto l'influenza delle lezioni di montaggio di Ejsenstejn che mi hanno dato l'idea di strutturare questo romanzo in una maniera, se non direttamente cinematografica perlomeno a quadretti e secondo delle brachilogie, dei salti temporali che possono in qualche modo ricordare il cinema. Credo che la generazione a cui appartengo non può non aver sentito l'influenza del cinema. E' un'arte troppo forte, troppo importante, troppo presente dagli anni Trenta-Quaranta in poi.

C'è uno scrittore tedesco, Sten Nadolny, che in un suo romanzo, La scoperta della lentezza, ha detto che esistono due tipi di sguardo: uno attento ai dettagli, quindi teso alla scoperta di quanto c'è di nuovo nella realtà, e uno sguardo fisso che segue soltanto un piano prestabilito e rende veloci al movimento. Lei in quale dei due si riconosce maggiormente?
Tabucchi: Ma non lo so fino a che punto queste teorizzazioni sono valide o bisogna crederci. Sono un po' dei filosofemi...

Anche Pessoa in qualche modo pensava di annullare sè stesso nel puro atto di vedere…
Tabucchi: Io credo che la letteratura fatta con le intenzioni, anche con le buone intenzioni può dare dei cattivi risultati. Credo che non bisogna mai mettere la morale o il moralismo prima della letteratura. A me quello che interessa è raccontare. Quindi mi interessa la voce narrante, e ovviamente anche lo sguardo sulle cose. Certo mi interessano anche i dettagli. Credo che i miei libri siano pieni di dettagli. Però, le ripeto, non so se queste teorizzazioni sono valide e se esiste una binarietà dello sguardo. Magari ne esistono molteplici di sguardi. Si può essere in un modo in una pagina ed essere completamente diversi in quella successiva. Questo dipende anche da l'umore che abbiamo quel giorno, dal fatto che piova o che non piova, dal fatto se abbiamo digerito bene o male. Credo che non bisogna credere eccessivamente in queste teorizzazioni. Certo guardare è molto importante.

Sempre riguardo allo sguardo, Wenders dice che in una fotografia si vede ciò che sta dentro la cornice ma anche colui che sta dietro la macchina fotografica. Nei suoi romanzi tende ad annullarsi per mostrare solo le cose o di far prevalere il suo punto di vista su di esse?
Tabucchi: Io credo che il punto di vista si veda sempre perchè è impossibile cancellarlo. Lo ha tentato l'école du regard con dei romanzi che mi sembrano poco godibili, e, letti oggi, mi sembrano proprio il frutto di una stagione, di un'avanguardia che lo ha fatto in maniera molto velleitaria e forzata. E' un esperimento che può essere interessante, ma mi sembra sia stato solo un tentativo. In realtà noi lasciamo sempre la traccia di quello che siamo e di quello che pensiamo, del nostro punto di vista su quello che scriviamo. E' quasi disumana questa oggettività che volevano imporci gli scrittori dell'école du regard. E poi non so a cosa serva questo neo-oggettivismo trasferito in arte, in letteratura.

In alcuni casi però il suo punto di vista si mantiene volutamente separato da quello dei suoi personaggi. Per esempio, in Sostiene Pereira già il titolo suggerisce questa separazione rigorosa del punto di vista del personaggio da quello dell'autore…
Tabucchi: Si, io ho voluto sottolineare il punto di vista di un mio personaggio che non ero io stesso perchè volevo che il mio personaggio si assumesse tutte le sue responsabilità. Forse se fosse stata una storia ambientata nell'oggi contemporaneo non l'avrei scritta così, ma in questo romanzo mi piaceva l'idea di immaginare e sviluppare un personaggio sostanzialmente molto diverso da me per scelte, per formazione culturale e anche per il periodo storico in cui entrambi siamo situati. Mi piaceva che fosse un personaggio che parlava partendo dal suo punto di vista. In Sostiene Pereira probabilmente c'è anche il mio punto di vista, però volevo che ci fosse principalmente il suo. Volevo che fosse lui ad osservare il mondo, a guardarsi intorno, a prendere le sue decisioni, a fare le sue scelte…

…una forma di rispetto verso di lui?....
Tabucchi: Si, una forma di rispetto, ma anche una maniera di descrivere un personaggio che è molto altro da me. Certo in alcuni libri come Notturno indiano io sono più presente perchè è una realtà che anche se non ho vissuto in quel modo, perlomeno l'ho toccata, l'ho sfiorata, l'ho osservata. Invece immaginare un personaggio con i problemi di Pereira che vive nel '38 significava porsi anche dal suo punto di vista.

Spesso nei suoi romanzi aleggia l'ossessione del tempo, del ricordo che, allontanandosi dagli avvenimenti vissuti, li abbellisce e in qualche modo li falsifica.
Tabucchi: Le cose con il tempo possono migliorare o peggiorare. La memoria tende a modificare in peggio o in meglio le cose che noi abbiamo vissuto…

Si avverte spesso il senso di qualcosa che si è perso…
Tabucchi: Si, questo probabilmente è all'origine di molte delle nostre malinconie, questa perdita del tempo, delle cose, della vita. C'è però anche il piacere di sapere che in fondo siamo degli esseri in fieri e, come Pereira, si può cambiare, si possono fare nuove scelte, si può mutare opinione. La realtà può influenzarci in una maniera tale da renderci molto diversi da quello che eravamo.

Un'altro elemento molto presente nei suoi romanzi è la morte, che mi sembra sempre un po' legato a questo senso di qualcosa che si perde...
Tabucchi Si, inevitabilmente. Credo che una delle maggiori malinconie che una persona possa avere è quella di pensare che certe persone che gli sono state care non ci sono più. E' una perdita irreparabile. Resta solo il ricordo che è sempre troppo poco e queste persone mancano. Allora, inevitabilmente, si riflette su questi problemi.

L'Angelo nero mi sembra sia un libro che si distacchi molto dai suoi altri libri per una visione fortemente pessimistica della realtà. Sembra un libro sulle varie forme in cui si materializza il male nell'uomo. Cosa è questo 'angelo nero'?
Tabucchi: Forse era un momento della mia vita in cui avevo infilato gli occhiali scuri oppure credo che fosse arrivato il momento in cui nella carriera, nel percorso di uno scrittore si sente la necessità anche di soffermarci sulle cose negative che ci sono nel mondo e allora il nostro sguardo sulle cose si indurisce.

Nell'ultimo racconto, Capodanno, c'è la figura inquietante di un ragazzino che si fa portatore di una vendetta terribile, e c'è un altro racconto di Piccoli equivoci senza importanza che ha un tema molto simile. I figli in qualche maniera sono condizionati duramente dal passato dei padri, che in questo caso è anche il fascismo…
Tabucchi: Si, è la storia di una vendetta, di una rivolta, e forse anche di un bambino che scopre il male del mondo. C'è sempre una scoperta che prima o poi facciamo nella vita, specialmente quando siamo ragazzi, in cui si perde l'innocenza. Questo voleva essere il racconto della perdita dell'innocenza e del senso di cattiveria che viene quando la si perde nei confronti degli altri, di coloro che ci hanno derubato della nostra innocenza. Questo bambino è stato fortemente derubato della propria innocenza perchè scopre il passato turpe del padre. Forse in fondo c'è anche una leggera metafora, una leggera riflessione sulla nostra storia. Perchè anche la nostra generazione ha scoperto ad un certo punto cosa è successo nel nostro passato prossimo e ha capito di non poter dimenticare che c'è stato un olocausto. E forse il fatto di sapere che lo hanno compiuto anche i nostri padri ci fa sentire colpevoli anche noi.

Recentemente lei ha affermato che i più grandi avvenimenti della nostra epoca sono l'olocausto e la scoperta della limitatezza del mondo con la bomba atomica. In ciò si avverte un senso di responsabilità verso le nuove generazioni.
Tabucchi: Si. Anche la consapevolezza di questa enormità mostruosa che non ha nessuna giustificazione e nessun senso quale è stato l'olocausto che non riesco a vedere in un modo storico, mi sfugge come dimensione, come dimensione del fatto…

Non crede che questa enormità possa anche far crescere un sentimento di impotenza? A volte mi sembra molto diffusa l'incapacità di confrontarsi con dei problemi che sembrano enormi, che sembrano sfuggire al controllo dell'individuo e quindi non affrontabili…
Tabucchi: Questo non lo so. Certo questo dà un senso di grande frustrazione ma tutto sommato anche di grande rabbia. Il senso di impotenza credo che sia venuto a coloro che hanno vissuto questa terribile esperienza, e anche a coloro che l'hanno testimoniato. Se si pensa a Primo Levi c'è da parte sua questa incapacità di capirlo, questo fatto è talmente mostruoso che sembra inconcepibile. E allora quando siamo di fronte all'inconcepibilità nasce un senso di impotenza. Secondo le testimonianze che noi abbiamo oggi, il senso di rassegnazione era calato in quelli che avevano vissuto l'esperienza dei campi di concentramento. E poi se si pensa a I sommersi e i salvati, Levi spiega benissimo la differenza tra i pochi che riescono a testimoniare e gli altri che invece nascondono il passato e che non sono più capaci di parlarne e di rivisitarlo.

Non pensa che questo bisogno di semplificazione oggi presente nella nostra società sia anche dovuto al fatto che la complessità è ormai ritenuta non affrontabile e ci si rassegna a non affrontarla?
Tabucchi: Tutto sommato io credo che la democrazia fornisca le armi dialettiche per affrontare i problemi, fintanto che se ne possa discutere, che si possa avere varie opinioni sui problemi…Magari c'è il rischio di un eccesso di informazione, di un'overdose di informazione, non so come altro definirlo, che appiattisca e annulli sè stessa e ogni possibilità di una riflessione etica sugli avvenimenti. Però mi pare che oggi la dialettica ci sia.

Lei ha detto una volta che l'infanzia ha a che fare con la scrittura…
Tabucchi: Sarà l'influenza del fanciullino pascoliano…

E' anche questa una questione di sguardo, di innocenza dello sguardo…
Tabucchi: Si, una certa fanciullaggine che probabilmente lo scrittore si porta dietro tutta la vita. Tutto sommato il 'manifestino' pascoliano è una bella intuizione.

Requiem è stato scritto in portoghese. Come è stata questa esperienza di allontanamento dalla propria cultura per calarsi in una cultura diversa a tal punto da assumerne anche la lingua?
Tabucchi: Guardi, me lo sono chiesto spesso perchè è stata un'esperienza strana. Evidentemente ho visitato una sponda della mia anima che parla anche portoghese per cui i miei ricordi, o certi miei ricordi, venivano meglio in quella lingua che non in un'altra. Insomma, evidentemente questo fatto linguistico non è un fatto meccanico o un fatto squisitamente cerebrale, è anche un fatto affettivo, un fatto che appartiene all'anima. Non so perchè è successo. Non me lo so spiegare. Ci ho provato, ho anche letto libri di psicanalisi linguistica ma non sono arrivato a nessuna conclusione. So che è stata una bella esperienza, un'esperienza quasi lustrale, come se avessi ricevuto un battesimo, come se fossi stato bagnato da una fonte e mi ha dato molta felicità scriverlo. E' stata una bella esperienza. Però è molto difficile per me descrivere i meccanismi per cui ciò è avvenuto. Credo che per qualsiasi scrittore che ha scritto o abitualmente o sporadicamente, come è successo a me, in una lingua non materna il fatto resta abbastanza inspiegabile.

intervista a cura di Marcello Cella






Fernando Lopes e Antonio Tabucchi

Cineclub Arsenale aprile 1995

Tabucchi: Questo film (Il filo dell'orizzonte, ndr.) è un film molto curioso, molto metafisico, molto ben filmato, con una bellissima Lisbona notturna, con una bellissima regia e con un finale che non rispetta il finale del mio libro ma che è un'interpretazione di Fernando Lopes. Lopes ha pensato che io ero un uomo molto metafisico e molto bizzarro e allora ha fatto un finale bizzarro e metafisico. Un film che mi è piaciuto molto, devo dire, perchè è molto ben girato, molto ben realizzato, ma che purtroppo non si vede nei cinema italiani, non so perchè. Un film con una bella interpretazione di Claude Brasseur, e forse non altrettanto dell'attrice. Però è un film con degli attori molto bravi, molto professionali, che ha soprattutto il merito di non filmare una Lisbona pittoresca. Non c'è una Lisbona pittoresca. Fernando Lopes per fortuna non vede il pittoresco della sua città perchè è portoghese e vive a Lisbona. E siccome c'è una certa tendenza in questo momento a fare di questa città una città pittoresca, Fernando Lopes ha avuto l'accortezza, l'intelligenza, l'astuzia e anche la sensibilità di filmarla in una maniera metafisica e notturna che rende una città come Lisbona per quello che è, perchè Lisbona non è soltanto pittoresca come la vedono i registi del nord. E' anche una città che ha una sua vita enigmatica, strana, bella e anche normale, se vogliamo, come Fernando Lopes l'ha filmata.

Lopes: Questa mia storia del film, non la storia del romanzo di Antonio Tabucchi, ha un punto di contatto con la storia di Spino ed era da moltissimi anni che volevo fare un film tratto dal romanzo di Tabucchi perchè Antonio, oltre ad essere uno dei più grandi scrittori contemporanei, è apprezzato da me come dalla maggior parte dei portoghesi ed è stato in grado di scrivere un libro in portoghese e di farlo tradurre in italiano (Requiem, ndr.). Io non penso di essere tanto metafisico come lui. Devo dire che, realizzando Il filo dell'orizzonte sono caduto nella stessa trappola di Spino. Non è che io sia stato sul punto di morire come il protagonista del film ma solo ora considero che la storia di Spino mi riguarda. Quando Antonio parla di Lisbona, e sono pochi gli scrittori portoghesi che parlano di Lisbona come Antonio, penso che abbiamo dei punti di contatto che ci legano a Lisbona. Per me c'è un lato labirintico e misterioso di Lisbona che mi affascina, non solo la Lisbona di Robert Frank o di Alexandre O' Neill, ma la Lisbona di Monteiro, che se non è un padre è almeno un buon fratello di questi due, questa Lisbona notturna, serena, che a partire da qui è perfettamente consona con la storia. E' da lì che il film trae un aspetto onirico, fantastico che io penso stia molto bene con il cammino di Spino e per questo il film ha una svolta finale diversa rispetto al libro. Penso anche che da uno scrittore come Antonio Tabucchi che ha un mondo così personale è molto difficile fare un adattamento. Quella che io propongo nel film è una mia interpretazione personale, una mia lettura e lascio quindi al pubblico, come Antonio Tabucchi l'ha lasciata ai suoi lettori, la possibilità di leggere questa opera in una maniera completamente diversa.

Tabucchi: Il cinema portoghese è un cinema che purtroppo non è molto conosciuto, è un cinema di qualità che meriterebbe una grande diffusione in Europa. Purtroppo è schiacciato dalle produzioni più potenti che dominano il nostro mercato. Di Fernando Lopes vorrei dire che è un regista che possiede una tavolozza espressiva molto ampia, ha toccato molti generi nel suo cinema. Ha debuttato a Pesaro molti anni fa con un film intitolato Belarmino. Belarmino è un film verità, è un film su un pugile suonato che racconta la sua storia, la storia della sua carriera nel Portogallo degli anni Sessanta, in un Portogallo in cui tutti erano suonati e il pugile era sicuramente una metafora. Poi ha tentato di fare con grande abilità un cinema che toccava i temi della media borghesia con Uma Abelha na Chuva (Un'ape nella pioggia) che è un film tratto da un grande romanzo portoghese perchè a Fernando piace molto la letteratura e quindi si ispira molto ad essa. Poi c'è un altro film, Nos por Ca Todos Bem, che è un film che parla di una realtà portoghese in un momento difficile e euforico del Portogallo che è quello della 'rivoluzione dei garofani'. Poi c'è Nacionalidade: Português che è una rivisitazione in termini teneri, affettuosi e anche critici di una zona in cui Fernando Lopes è nato e un film sugli emigranti portoghesi che sono andati nel mondo e soprattutto in Francia. Infine c'è un film che si chiama Matar Saudades, che è un film molto duro, simbolico, che in qualche modo si rifà, attraverso le forme contemporanee del cinema europeo, alla tragedia greca ed è anch'esso un film che parla dell'emigrazione. Poi c'è Il filo dell'orizzonte.

Ho avuto l'impressione che nel suo film due temi siano stati più accentuati rispetto al romanzo originale e cioè l'identità del ricercante e del ricercato che sono gli stessi fili conduttori dell'opera di un grande scrittore latino-americano come Jorge Luis Borges che è di origini portoghesi. C'è davvero questo legame?
Lopes: Ho sempre avuto dei legami con Borges, ma questa volta non ne ho parlato. Siccome però nessun cineasta è innocente ho pensato a due film prima di realizzare questo, uno è di Orson Welles, Mister Arkadin, in cui c'è qualcuno che fa investigare il suo passato, e l'altro è La strategia del ragno di Bernardo Bertolucci che è basato su un piccolo romanzo di Borges.

Lei ha lavorato molto per la televisione portoghese ed ha anche diretto per diversi anni il secondo canale della RTP. Volevo sapere qual'è stata l'importanza della televisione nello sviluppo del cinema portoghese.
Lopes: Recentemente questa fase è finita. Ma il secondo canale della televisione ha avuto una grande importanza per il cinema portoghese. Il primo film che io ho coordinato e finanziato con la RTP, Cerromaior di Luis Filipe Rocha, e quasi tutti i migliori film portoghesi degli anni Ottanta, tutti i film di Manoel de Oliveira sono stati coprodotti con la RTP. Ma da due anni, con l'introduzione delle televisioni commerciali private, è praticamente finita la possibilità di coprodurre da parte della RTP, la televisione pubblica portoghese. Questo significa che si è creata una cattiva situazione per i registi portoghesi. Se non ci fosse una legge che obbliga il servizio pubblico a produrre film portoghesi credo che il cinema portoghese sarebbe ridotto a tre o quattro film all'anno e questo è terribile. Ma la situazione in cui ci troviamo in questo momento, per completare questo quadro negativo, è che l'88% delle sale cinematografiche portoghesi sono nelle mani del cinema americano e concretamente della United International che è un conglomerato di majors, cosa proibita negli Stati Uniti ma permessa in tutta Europa. Probabilmente l'Italia cinematografica non sarebbe nello stato in cui è senza questa presenza. Anche la distribuzione è nella solita situazione ed è per questo che quasi non vediamo film italiani, pochissimi film francesi e di altri paesi che non siano gli Stati Uniti. Ci sono solo due distributori indipendenti e adesso finalmente è arrivato un film straordinario come quello di Nanni Moretti (Caro diario, ndr.) che ha avuto e continua ad avere un enorme successo. Questo significa che c'è un altro spazio per cose che non siano film americani. Nel caso delle prime visioni dei film portoghesi noi dobbiamo batterci per obbligare gli esercenti ad adempiere alle leggi minime del paese e anche così quando un film portoghese viene presentato al pubblico, ha successo e raggiunge la quarta-quinta settimana di programmazione, e questo succede con frequenza, la famosa UIP si incontra con i distributori con i quali decidono che a partire da una certa data i film portoghesi, francesi, o spagnoli devono essere smontati per far entrare i film americani. Questa situazione è drammatica e nel caso di un piccolo paese è anche più mostruosa, ma è la stessa situazione di tutta l'Europa. L'Italia probabilmente è un grande esempio per il cinema europeo perchè questo nei suoi periodi migliori ha vissuto della grande vitalità del cinema italiano. Io sono solito dire che il cinema italiano portava al cinema europeo il sangue per completare la mente del cinema francese. Perchè il cinema è una forma di emozione e di affetti e questo si sta perdendo nel cinema moderno. Nel cinema moderno vediamo che si affermano l'Asia, la Cina, l'Australia, il Giappone ma quello che è in causa è la sopravvivenza del cinema europeo. Non lo dico perchè sono in Italia ma sono convinto che non ci sarà un grande cinema europeo senza un grande contributo del cinema italiano. Molti di noi sono stati formati vedendo il cinema italiano. Io non potrei filmare certe cose se non avessi visto Antonioni, Rossellini, Visconti, Fellini, Dino Risi, Comencini.

Io volevo sapere quale è stata la scena tratta dal libro di Tabucchi che lei ha trasformato in immagine con più difficoltà.
Lopes: C'è una scena completamente tratta dal libro che a me piace molto, quella che ho elaborato di più al momento delle riprese e mi è venuta più naturale: quando Spino va verso l'abisso, poi sale e passa dall'altro lato. Piccolo aneddoto: nella prima prova la cinepresa è caduta e tutti pensavano di dover andare dall'altro lato, nell'aldilà, ma io ho visto questo come un buon segno e penso che la scena sia riuscita bene. Se io potessi eleggere una scena in omaggio a quello che ha scritto Antonio sarebbe proprio quella scena.

Cosa ne pensa, signor Tabucchi, di tutti i film tratti dai suoi romanzi e quando scrive, pensa già in qualche modo al cinema?
Tabucchi: Intanto sono solo quattro. Quando scrivo forse penso anche un po' al cinema perchè il cinema mi ha formato. Le prime emozioni le ho avuto dal cinema perchè quando ero bambino e non sapevo ancora leggere i miei zii mi portavano a vedere i film. Le mie prime emozioni sono nate con Ladri di biciclette, con Sciuscià, con Roma città aperta, poi è venuta la lettura ma soltanto in un secondo momento. Quindi credo che non solo io, ma tutta la generazione degli scrittori degli anni Settanta e Ottanta sia stata molto influenzata dal cinema. Per quanto riguarda i film tratti dai miei romanzi penso che ci sia sostanzialmente un equivoco. Credo che i cineasti pensino di trovare delle storie che apparentemente sembrano delle storie compiute. Poi si trovano di fronte a dei buchi enormi da riempire e allora lì scatta il talento del cineasta nel riempire questi buchi narrativi. Credo che sia una sfida perchè non penso che i miei romanzi siano molto cinematografici. Sono cinematografici apparentemente, ma non sono cinematografici sostanzialmente. Allora la bravura del cineasta, secondo me, sta nel riempire queste zone vuote che io ho lasciato volutamente vuote e che lui deve riempire. Allora a questo punto una lettura dei miei romanzi dal punto di vista cinematografico diventa un'interpretazione. Devo dire che mi diverte molto vedere queste interpretazioni dei miei romanzi perchè è come leggere una recensione su un giornale, anzi più che una recensione perchè questa è una trasposizione in immagini, è una traduzione in un altro linguaggio. Il mio atteggiamento è sempre di stupore e di divertimento e anche di curiosità. perchè è sempre curioso vedere come qualcuno legge con un altro linguaggio artistico i libri che ho scritto io.

Lopes: Solo una piccola nota. E' per questo che è così affascinante lavorare sui libri di Antonio. Perchè sembra facile fare un film dai suoi libri, ma siccome lui ha un'ironia molto perversa il regista corre proprio il rischio di morire alla fine del film se tenta di trascrivere letteralmente un libro come quelli di Antonio, cosa assolutamente impossibile. E' necessario lasciarsi trasportare, ed è quello che io ho tentato di fare, da un'atmosfera, da un personaggio, da un certo umore, pensare ad un pittore, nel mio caso De Chirico, e vedere quello che io sono in grado di fare, una specie di musica che io posso trarre dalla musica delle sue parole. E' stato quello che io ho tentato di fare. Mai mi passerà per la testa di trasferire esattamente ciò che sta dietro il libro di Antonio.

Volevo sapere cosa pensa Tabucchi del diverso finale del film e cosa pensa Lopes del finale originale.
Lopes: Il finale del libro è stato quello che mi ha procurato più lavoro perchè Antonio lo lascia molto aperto. Inoltre ha un tale umorismo. Io direi che Antonio in quel finale del libro ride di sè stesso e anche del lettore. Io sono stato molto più semplicistico di lui, non ho avuto umorismo. Nel finale ho seguito il mio personaggio fino alla morte. Ho avuto paura che mi succedesse, se avessi tentato di fare un finale come quello del libro, la stessa cosa che è accaduta in un altro film adattato da un libro di Antonio, Notturno Indiano (di Alain Corneau, ndr.), che è un film bellissimo ma che sbaglia completamente il finale. Sono rimasto molto colpito da questo. Con questo non vuol dire che io lo abbia indovinato.

Tabucchi: Beh, io in questo libro ho lasciato aperta la porta su una sorta di risata nel buio di qualcuno che ritrova forse sè stesso, forse il vuoto, forse l'inconsapevolezza della vita. Non volevo dare un finale chiuso a questo romanzo perchè è una meditazione sulla vita e sulla morte e credo che se gli avessi dato un finale chiuso avrei rischiato di fare la fine di certi piccoli o grandi filosofi che danno un senso di chiusura alla nostra vita. Non volevo dare degli insegnamenti a nessuno. Volevo lasciare un finale aperto, una possibilità ai lettori e, fra questi lettori, ho trovato un regista che ha fatto questa lettura. Credo che il finale di questo libro resti molto aperto, alla mercè di tutti quelli che lo leggono. Ciascuno di noi quando legge un libro che non ha un finale impositivo ma aperto, possibilista, può dare la sua lettura. Quindi credo che il mio libro sia aperto a tutti i lettori e anche a me che lo rileggo ogni tanto e che mi chiedo che cosa ho voluto dire.

Volevo sapere perchè a Tabucchi non è piaciuto come è stato impostato il personaggio femminile da Lopes. Qual'è la discrepanza? Come mai questo personaggio non riesce ad avere una vita propria ed è sempre più dipendente da quello maschile man mano che la narrazione procede?
Tabucchi: A me personalmente il personaggio femminile del film non è piaciuto molto ma forse questo dipende dall'interpretazione dell'attrice. Credo che la scelta dell'attrice non sia stata indovinata, ma questo dipende da molte cose complesse. Credo che si sarebbe dovuto trovare una donna più interiore, meno esteriorizzante, meno apprensiva, meno 'urlante' di questa attrice. Forse ci voleva una donna con un grande spessore psicologico, un'attrice che fosse veramente una compagna per questo personaggio. Io nel mio libro non ho dato un grande spessore alla compagna di Spino. Tuttavia si indovina che in fondo è una sua complice ma nell'interpretazione di Andrea Ferreol non viene fuori una complicità, viene fuori piuttosto una discrepanza. Lei è contro Spino, non è sua complice. Forse ci voleva un'attrice più eterea, più 'leggera', più interiore ma queste sono le cose del cinema e io non le so giudicare.

Lopes: Devo confessare che anch'io non sono rimasto soddisfatto del modo in cui ho trattato il personaggio femminile perchè era difficile trattarlo. Data la maniera in cui avevo trattato Spino ho trattato il personaggio della compagna come qualcuno che ha i piedi per terra ed emozioni molto immediate. Nel film c'è anche un altro personaggio femminile, la ragazza del locale, che rappresenta invece la donna, l'amante, la prostituta, forse la morte. E' un po' una dark lady del cinema americano. E' per questo che ho lasciato un po' cadere la compagna di Spino anche se sono abbastanza d'accordo con Antonio che, per comprendere meglio Spino, il personaggio di Andrea Ferreol avrebbe dovuto esere più a sè stante e più elaborato. Ma a volte ci sono problemi di casting e di regia…

Come mai, signor Tabucchi, in fondo ai suoi libri, lascia spesso delle note come ad aggiungere qualcosa ad una seconda lettura?
Tabucchi: Gli autori che non si spiegano bene nei libri, come non mi spiego io, cercano sempre di spiegarsi in una nota a margine e allora si inventano questi pretesti di note a margine per spiegare a qualcuno che è il nostro lettore o forse principalmente a noi stessi che cosa è successo in questo libro. Perchè scrivere un libro credo sia come vedere un film. Non come scrivere un film o come fare un film, ma come vedere un film. Uno arriva alla fine e dice: ma cosa effettivamente è successo? E allora si ha bisogno di conforto. Il conforto lo troviamo nei lettori che ci vengono dati, in noi stessi e in piccole note a margine che possiamo fare. Probabilmente è un alibi, probabilmente è una scusa, probabilmente è anche un chiedere perdono di quello che abbiamo scritto o di quello che non abbiamo saputo scrivere. Tuttavia è una forma di conciliazione con chi ci legge, con chi potrebbe leggerci, e con noi stessi che ci siamo letti mentre ci scrivevamo. Questa è la ragione della nota a margine.

Siccome è stato citato Notturno indiano…Io ho visto il film qualche anno fa e in una scena, mentre il protagonista viaggia su un treno, mi pare che vada a Madras, incontra un personaggio, Peter Schlemil, che è il personaggio di un libro di Chamisso. Qual'è il suo ruolo in questo film?
Tabucchi: Questo era un racconto che io avevo inserito inizialmente nel romanzo Notturno indiano. Poi mi sembrava troppo drammatico per un libro in fondo 'piatto' e 'tranquillo' come Notturno indiano. E allora diventò una novella per un libro di racconti, Piccoli equivoci senza importanza, che si chiamava appunto I treni che vanno a Madras. Il regista, che si era documentato su quello che avevo scritto, aveva letto anche questo libro e questa novella gli piacque molto. Questo racconto che io avevo tolto per sdrammatizzare a lui invece serviva molto per drammatizzare l'azione perchè aveva paura che in fondo un libro così piatto, così unisono come Notturno indiano potesse stancare lo spettatore se non c'era una scena forte. Gli sembrò che la scena forte potesse essere quella del racconto tratto da Piccoli equivoci senza importanza. Ci trovammo d'accordo su questa cosa perchè in fondo la novella era nata per Notturno indiano, anche se poi non vi era stata inserita. Lui la utilizzò e tutto sommato mi sembra una bella scena che dà un po' di vigore ad un film abbastanza pacato e monocorde come il suo anche se dotato di una grande suspense.

a cura di Marcello Cella

domenica 25 marzo 2012


Il dovere di narrare - Interviste e interventi inediti dei fratelli Taviani
Ci ha sorpreso non poco il recente e bellissimo premio ricevuto dai cineasti pisani Paolo e Vittorio Taviani al festival di Berlino, per di più presentando un'opera di severo impegni civile come "Cesare deve morire", realizzato dai due all'interno del carcere di Rebibbia a Roma. Ma ci ha consentito di rinverdire un po' la nostra memoria e ricordare alcuni bei momenti in cui, in anni lontani, il percorso esistenziale e la passione per il cinema di chi scrive si è brevemente incrociato con quello dei due famosi cineasti per alcuni incontri pubblici presso il cineclub Arsenale di Pisa e per un'intervista che avrebbe dovuto essere utilizzata per un documentario sulla loro opera poi rimasta inedita. E' quindi con emozione che riproponiamo ai nostri lettori il testo di questi incontri. Buona lettura (e visione).
Marcello Cella

Paolo e Vittorio Taviani

Cineclub Arsenale, 1987

Come mai il passato è così presente nei vostri film? E, in particolare, che significato hanno i soldati romani che compaiono durante le battaglia fra partigiani e fascisti ne La notte di San Lorenzo?
Paolo Taviani: Ne La notte di san Lorenzo gli uomini che appaiono a un certo punto non sono romani ma sono greci. Forse abbiamo sbagliato i costumi o forse i costumi erano abbastanza esatti e non abbiamo saputo comunicare il concetto. La storia de La notte di San Lorenzo è una storia alla quale abbiamo pensato quando avevamo vent'anni. Appena ci dettero una macchina da presa in mano noi pensammo di fare un documentario su questo episodio che avevamo vissuto a San Miniato e girammo un documentario, San Miniato luglio '44 che è il nostro primo documentario, realizzato insieme anche a Valentino Orsini ed in cui intervenne anche Mario Benvenuti, e che raccontava in forme molto più documentaristiche di quanto poi sarà il film, lo stesso episodio. Poi da allora sono passati tanti anni, ma noi sapevamo che avremmo ancora parlato di quell'episodio perchè è stato uno dei momenti fondamentali della nostra esistenza e non solo della nostra. Abbiamo lasciato passare gli anni perchè sentivamo che quella materia era la stessa di cui avevano già parlato i grandi registi come Rossellini e tanti altri, che noi avevamo tanto amato, e quindi ci sembrava di ricalcare orme già passate avanti a noi. Allora, dopo trent'anni, questa storia che ci stava sempre dentro è riemersa con prepotenza perchè è successo che noi siamo ritornati in Toscana e andando in giro per San Miniato e per le campagne intorno e ricordando con i superstiti e i figli dei superstiti che ricordavano quell'episodio ci siamo accorti che quella storia era una storia che era già diventata leggenda. Alcuni episodi che avevamo vissuto noi li ricordavamo in un modo, e invece altri li ricordavano in un altro. All'interno di questo gruppo di persone che era con noi c'erano alcuni che ricordavano quella battaglia mentre invece questo gruppo non l'aveva vissuta. La ricordavano come se ci fossero stati dentro perchè l'avevano raccontata alcuni che stavano tornando da quei campi di grano e ci dicevano 'è accaduto questo, questo e quest'altro'. Per cui è diventata per questi superstiti un episodio vissuto in prima persona e non si accorgevano di mentire. Ma non era una menzogna, era vero, perchè l'avevano fatta talmente propria questa storia che sentivano il bisogno di raccontarla agli altri in tutta la sua complessità. Sentivamo che questa storia era diventata leggenda ma che aveva una forza dentro in tutti quelli che la raccontavano in quanto c'era un elemento che li univa tutti quanti nel racconto anche nella diversità delle versioni, cioè nel senso che, quando tutto sembra perduto, se l'uomo prende in pugno il suo destino tutto ancora si può salvare. Questa era un po' la morale contemporanea in quel momento in cui ce la raccontavano…cioè tu parlavi prima della storia, del passato, perchè non parlare più del presente…io penso che spesso si possa parlare molto più del presente anche parlando del passato. Infatti quella lì è una storia lontana ma il modo in cui la racconti è il momento della contemporaneità. Nel momento in cui abbiamo fatto il film noi avevamo questo desiderio di raccontare una storia per dire a noi stessi e agli altri che quando tutto va male se un uomo prende in pugno il suo destino lo può ancora trasformare, che nella storia c'è questa possibilità di forza e di cambiamento, e questo era già un sentimento contemporaneo che unificava appunto tutti quelli che raccontavano quella storia…Tu parlavi prima di questa storia dei greci…E' in questo clima fra storia e leggenda che è nato in noi un grande desiderio di fare questo film, di raccontare questa storia che non era più cronaca ma era diventata leggenda. E quando abbiamo avuto l'idea di affidare la narrazione della storia a una bambina, che poi eravamo io e mio fratello piccolini e cambiati di sesso ma la bambina era un po' noi, abbiamo capito che quella era una chiave che ci dava una grande possibilità, cioè la grande possibilità di passare dalla cronaca, dal documento, e ricordiamo che il cinema ce l'ha sempre questa forza immensa che è la presa documentaria sulla realtà data dall'immagine diretta, alla magia perchè una guerra vista attraverso gli occhi di una bambina ha la sua realtà cruda e al tempo stesso la possibilità della fantasia, quindi la possibilità di passare dal documentarismo alla magia, alla fantasia per poi ritornare nuovamente al reale. Questo ci ha molto riscaldato e quindi ci siamo sentiti pronti a fare questo film. Per cui quella tua lettura della battaglia un po' magica, non realistica mi fa piacere perchè corrisponde a quel sentimento che noi abbiamo avuto nel raccontare questo film tra il realistico e la fantasia, la magia. In questo clima, tenendo per mano questa bambina del film ci sono venute molte idee…Per esempio, questa ragazzina sta sempre accanto ad un vecchio che parla dell'Iliade. Anche all'inizio, quando i due giovani si sposano, brinda e cita alcuni versi dell'Iliade, insomma è uno che parla sempre alla bambina del'Iliade e le dice sempre "voglio fare anch'io il partigiano e se devo cambiarmi di nome voglio chiamarmi Achille", e la moglie gli dice "ma quale Achille, tu ormai la spada la devi tenere nel fodero". E invece Achille, i greci, cioè questi miti che il nonno ha insegnato alla bambina improvvisamente compaiono nella battaglia, quando tutto sta crollando e il vecchio, proprio quel vecchio, il nonno, muore, perchè questa bambina chiede aiuto a chi non lo sa nemmeno lei, a qualcosa che venga in soccorso contro quell'ingiustizia e quel dolore che si stanno svolgendo sotto i suoi occhi. Tant'è vero che quando appare il partigiano e poi gli altri partigiani che sparano e praticamente fanno giustizia dei fascisti, di quel particolare fascista, ristabilendo un equilibrio in questo mondo, in questa realtà orrenda che sta sotto i suoi occhi, lei li vede come greci, cioè come il nonno glieli aveva raccontati, tutti dorati, belli, forti, che fanno giustizia e buttano le lance. Questa era la nostra intenzione.

Vittorio Taviani: Riguardo alla domanda perchè nei nostri film ha una così grande importanza il passato…Per esempio, ne I sovversivi, è un film dove noi addirittura raccontiamo storie individuali e di gruppo che avvengono durante i funerali di Togliatti. Quindi lì incontriamo non solo le strade, le macchine ma anche dei problemi che contingentemente si svolgono in quel momento. Abbiamo fatto poi Il prato che si svolge sempre qui in Toscana ma con personaggi giovani, di oggi con tutti i problemi che hanno i giovani oggi. In particolare in quel momento sentivamo intorno a noi un gran dolore nei giovani. Noi siamo anche padri, quindi attraverso i figli e gli amici dei figli noi abbiamo questo rapporto quasi sanguigno con le nuove generazioni. A parte il fatto che poi non esiste dolore che appartenga ad una generazione nuova che non diventi anche un po' il dolore di tutti. In quel momento noi sentivamo proprio il bisogno di parlare di quel dolore, così abbiamo fatto Il prato che si svolge ai nostri giorni. Ma questa tutto sommato è una risposta in qualche modo esterna perchè bisogna stare molto attenti a non confondere le trama di un'opera con il senso dell'opera. Paolo ha detto perchè abbiamo fatto La notte di San Lorenzo. Era anche lì un momento in cui noi sentivamo che nel crollo di tanti miti, di tante certezze politiche e sociali l'uomo non si sentiva un uomo completo, si sentiva un uomo a metà, un uomo che forse non aveva più fiducia nelle sue forze. Allora noi sentivamo, noi per primi, e a questo punto non parlo più di nuove generazioni, parlo di noi per primi, insomma sentivamo il bisogno di dire 'ma è possibile veramente che tutto si sia così annebbiato, che l'orizzonte sia così oscuro e che anche il presente in fondo non ci dia le spinte per cercare di trasformarlo?' Cercando in noi stessi abbiamo tentato di tirare fuori da noi e dagli altri ciò che invece l'uomo può fare. Paolo ha detto che proprio quando tutto sembra perduto, proprio in quel momento, se l'uomo prende in pugno il suo destino insieme agli altri, forse è proprio in quel momento che riesce a creare una nuova possibilità, un nuovo modo per trasformare le cose. Quindi La notte di San Lorenzo, che parla di un lontano 1944, secondo noi invece parla soprattutto di un bisogno del momento in cui l'abbiamo fatto e ti dirò che le reazioni che abbiamo avuto nel mondo e in particolare nei giovani ci hanno confortato in questo, perchè tanti giovani ci hanno detto 'in fondo per noi questa guerra è come leggere un libro del passato antichissimo perchè siamo nati dopo, è quasi un film d'avventura, un film di chanson de geste, ma quello che abbiamo sentito uscendo dal cinema riguardava noi. Ci siamo detti "forza, rimbocchiamoci le maniche e cerchiamo oggi come allora hanno fatto gli altri di affrontare la nostra vita"'. Questo era il rapporto fra la trama del film e il senso del film che è molto diverso. Allora a questo punto faccio un riferimento a dei grandi autori, e i grandi autori servono appunto per chiarire le idee, non è per fare dei paragoni assurdi e immodesti. Per esempio, quando Shakespeare racconta le storie di Giulio Cesare o le storie di Verona o il Coriolano, cioè storie del passato, quando racconta la storia di Cleopatra cos'è? Non è forse attraverso quelle storie così lontane dalla sua Inghilterra che invece lui racconta cosa succede nell'animo degli inglesi in quel periodo in cui la forza, i sentimenti, il potere, il tradimento erano veramente i protagonisti della sua storia? Raccontando appunto trame che si rivolgono al passato Shakespeare invece ci ha dato uno spaccato della realtà del suo tempo. Tornando a noi, invece io ho visto una cosa che ci ha molto interessato. Gli americani, un popolo così lontano da noi che le sue reazioni servono un po' per capire cose che per noi invece sono più chiare, hanno visto Allonsanfan dopo qualche anno dalla sua realizzazione che è il 1974 e come l'hanno letto? Allonsanfan è un film in cui si parla della Restaurazione nell'Ottocento, di un personaggio protagonista che prima è un rivoluzionario e poi tradisce. Gli americani ci hanno detto: "ma questo è un film che voi avete fatto sui fatti delle Brigate Rosse, sui pentiti che avete in Italia". Cioè, quel film del 1974, che pure parlava di un secolo passato, si è trasformato in un film di fantascienza, perchè quando noi lo abbiamo fatto il problema dei pentiti e delle Brigate Rosse non era così evidente. Quindi era addirittura un film che, parlando del passato, prevedeva in qualche modo il futuro. Perciò stiamo attenti sempre, quando si legge un'opera, di non rimanere attaccati solo alla sua trama, ma di capire il suo senso. E il suo senso viene sia dai tipi di sentimenti, di contraddizioni che un film ti suscita. Cioè, tu uscendo dal cinema devi sentire che ci sono alcuni interrogativi che il film ha posto e non è che il film deve rispondere a questi interrogativi, anzi, per noi un film è bello quando io come spettatore esco da un certo film e gli interrogativi che il film ha posto e che non hanno avuto risposta sono dentro di me. Allora uscendo dal cinema io continuo a portare avanti quella storia cercando di dare io in qualche modo una risposta a questi interrogativi. Per noi un cinema e un pubblico sono vitali quando c'è questo rapporto continuo tra lo spettatore e l'autore. E quando vuoi capire il senso di un film devi stare a questi sentimenti, a queste contraddizioni, a questi interrogativi che il film ha creato e stare molto attenti al modo, allo stile con cui il film è fatto. Per esempio, anche il nostro ultimo film, Good Morning Babilonia, finisce con la morte. Quindi se stessimo solo alla struttura narrativa del film dovremmo dire che è un film che finisce nel pessimismo, nel nero, e invece noi diciamo che sì, finisce con la morte, ma non finisce nel lutto. Perchè non finisce nel lutto? Perchè è vero che i due protagonisti muoiono, ma grazie a quella collaborazione, a quella parità che i due fratelli in quel momento riescono a raggiungere e grazie soprattutto a quel mezzo che è il lavoro e a quello strumento che è la macchina da presa con i quali i due fratelli si sono realizzati, grazie a quello strumento ritrovato sul campo di battaglia i due fratelli riescono in qualche modo a superare il limite individuale della propria fine perchè affidano a questo mezzo, che loro tanto hanno amato, la loro immagine, una immagine che andrà ai figli piccoli che nemmeno li conoscono. In questo modo il film non finisce con una chiusura ma apre un nuovo capitolo, apre il capitolo dei figli che vedranno i volti dei padri, ripenseranno all'esperienza dei padri e su quell'esperienza, noi ci auguriamo, creeranno la loro esperienza.

Qual'è il vostro metodo di lavoro?
Paolo Taviani: Quando fai un film si parte con una sceneggiatura che noi diciamo 'di ferro', in cui è previsto tutto fino al dettaglio, proprio per non avere sorprese, e invece le sorprese ci sono sempre. E le sorprese sono date dall'incontrarsi con la luce, per esempio, dall'incontrarsi con i paesaggi, dall'incontrarsi con gli attori, dall'incontrarsi con i personaggi perchè finalmente sono carne ed ossa, perchè sono quelle facce lì, quegli attori là. Allora accade che noi ci facciamo invadere da questo elemento nuovo che è la ripresa di un film, che è la lavorazione di un film, cioè non teniamo una chiusura e non imponiamo a noi stessi e agli altri una cosa scritta prima, la teniamo come una scaletta, come una riserva e poi andiamo avanti cercando di farci invadere da queste novità, quindi di modificare e, noi pensiamo, di migliorare quella che è la storia del film. Per esempio, il film che ora inizia (Good Morning Babilonia, ndr.) con la facciata della cattedrale, prima cominciava invece come un grande flashback, cioè si vedeva il campo di battaglia, quello che si vede alla fine, e alcuni soldati trovano una macchina da presa, quella che nel finale usano i due ragazzi, la prendono e dicono "sviluppiamo il materiale che c'è qua dentro e vediamo cosa c'è". Viene stampata la pellicola e appaiono queste immagini strane di questi due soldati, uno vestito con la divisa dell'esercito americano e uno con la divisa dell'esercito italiano, che fanno quei gesti di saluto, di pianto che sono nel film. Allora questi militari che hanno trovato la pellicola, e gli spettatori con loro, si domandano "ma chi sono questi due?". E il film dovrebbe raccontare chi sono queste facce e torniamo indietro dieci anni prima quando a Pisa viene scoperta la cattedrale e così via, per poi riagganciarsi al finale che ritornava a quella guerra che si era vista all'inizio. Forse, non lo so, sarebbe stato più chiaro per certi versi, ma noi sentivamo che questo flashback con cui partiva il film era un falshback troppo lungo, era un appensantire il film, era un creare un'attesa continua per tutta la durata del film che ci sembrava eccessiva. Lavorando sul territorio dove abbiamo girato le scene della battaglia ci è sembrato che fosse sufficiente far vedere l'ultima parte che nasceva cronologicamente partendo da Pisa ed eliminando le iniziali scene della macchina da presa. Proprio per non sovraccaricare il pubblico che, vedendo questo inizio si aspettava si una risposta a questa domanda ma questa risposta se l'aspettava probabilmente più breve e non tutto un film per spiegare queste immagini iniziali. Allora ci siamo detti 'non sovraccarichiamo il film, procediamo in maniera più classica, più semplice, prendiamo il film dall'inizio della sua storia e portiamolo per mano fino alla fine'. Forse è stato un errore, non lo so, però è nato proprio dal lavoro fatto durante le riprese.

Nella seconda parte di Allonsanfan, subito prima della spedizione dei Fratelli Sublimi, Bruno Cirino pronuncia delle parole con cui invita i partecipanti alla spedizione, aldilà dell'esito che potrà avere, a ricordare per sempre quest'attimo di segreta felicità che c'è nella speranza. E in Good Morning Babilonia Greta Scacchi in un contesto del tutto diverso pronuncia parole analoghe. E' un punto di vista emotivo o c'è un filo rosso che unisce la speranza rivoluzionaria, l'utopia di trasformare la società con tutto quello che può portare a livello di trasformazione il cinema, l'arte?
Vittorio Taviani: E' una domanda molto bella e anche se è fatta in forma interrogativa mi sembra che potevi togliere l'interrogativo e darla come dato. Indubbiamente questo filo rosso c'è. Noi siamo sempre noi e crediamo veramente alla forza della gente che è unita in un progetto, che è unita in un'utopia. Esperienze di questo tipo, è chiaro, non sono di tutti i giorni perchè non è che tutti i giorni è possibile progettare e realizzare una complicità di gruppo in cui ciascuno sente l'importanza di essere insieme perchè poi la vita è fatta invece di un quotidiano che spesso ci disperde. Ma allora proprio per questo è necessario che chi ha la fortuna di vivere esperienze in cui anche se solo per un'ora si è sentito che stare insieme ad altri è la maniera per cercare di affrontare il mondo e trasformare la realtà, se non altro per quello che la realtà oggi non ti dà e ti può dare domani, ecco se uno ha la fortuna di vivere questi momenti è bene che se li fissi bene nella memoria, perchè quando poi la vita ti verrà incontro anche con tante risposte positive, perchè noi non abbiamo una visione catastrofica della vita, ma spesso anche con molte risposte elusive e spesso anche delle controrisposte che vanno contro quello che tu vuoi e che desideri, ecco se tu fai ricorso alla memoria di questi momenti, quella è una forza che ti permette di superare il momento della delusione e della stanchezza. Quindi questo è quello che pensiamo della vita, che vale anche per la nostra vita personale, mia e di Paolo, e che penso valga un po' per tutti, e non è un caso che questo tipo di raccomandazione, questo tipo di espressione del sentimento viene abbastanza simile in due film. Uno è Allonsanfan dove il momento dell'aggregazione, della complicità è sopra il fatto politico: sono dei giovani che sono scesi nel sud e vogliono cambiare il mondo perchè sentono che il mondo è ingiusto, in particolare nei confronti delle masse contadine, e sono andati là in maniera sprovveduta purtroppo, in una maniera troppo giovanile, ma sono andati là per cercare di andare incontro ai contadini e di essere insieme a loro nella trasformazione del loro paese. Non ci riusciranno ma questo è un altro discorso. Invece in Good Morning Babilonia questo tipo di complicità positiva e creativa, questa energia che nasce dall'essere insieme è affidata al lavoro. In questo caso il lavoro che fanno i due giovani è il cinema, un lavoro in cui non c'è competizione, un lavoro in cui tutti cercano di collaborare al progetto comune e ciascuno trasmette agli altri le esperienze che fa e insieme ne fanno di ancora più importanti. Allora questo tipo di forza di gruppo, di complicità di gruppo, che ieri era nella politica oggi è nei confronti dello strumento di lavoro, anche perchè noi pensiamo che la vita è anche divertente viverla perchè non è sempre uguale. Una volta, agli inizi, mi ricordo, non ci lasciavano fare il cinema. Allora noi, che non potevamo stare con le mani in mano ci mettemmo nell'attesa che qualcuno ci degnasse di darci retta, ma nessuno ci stava a sentire. Noi però ci chiedevamo: 'cos'è che possiamo fare concretamente? Scriviamo un testo di teatro', proprio per non stare ad aspettare che cascasse la mano dal cielo. E' vero che tutti i pomeriggi andavamo a bussare alle porte dei registi che erano disperati e pensavano, 'oddio, ancora quei due', ma la mattina volevamo fare qualcosa. Allora abbiamo scritto un testo di teatro che ha seguito la sorte del nostro apprendistato ed è durato anni. Quando l'abbiamo finita avevamo scaricato tutto dentro questa opera e ci sembrava di aver detto tutto dei problemi, delle domande. Tant'è vero che ci dicevamo, 'e ora? Abbiamo scritto quest'opera, abbiamo detto tutto e non abbiamo nient'altro da dire. Che faremo domani?'. Ci sembrava di essere veramente alla fine della vita. E invece proprio da giovani inesperti della vita non sapevamo che è la vita stessa che ti viene incontro e tu certo rimani quello che sei, ma quello che ti viene dagli altri, dalla storia, dalla natura, dalla tua vita anche biologica, sociale è una continua scoperta che fa si che tu continuamente sei tu stesso ma sotto prospettive diverse e questo è importante, vivere la vita rimanendo nella propria identità ma aperti a tutto quello che ci viene da fuori e che fa si che ogni volta le stesse cose si ripropongono ma in luce diversa. Ecco, perciò, se negli anni Sessanta il momento politico era il momento che aggregava tutti quanti noi, era il momento in cui pensavamo che lo strumento politico potesse essere quello migliore per cercare di capire la realtà, oggi invece sentiamo che, certo, il momento politico è importante, fondamentale, ma accanto a questo ci sono altri strumenti che hanno importanza. Per esempio, la specificità del tuo lavoro, la scelta del linguaggio che tu hai trovato per esprimere te stesso e comunicare con gli altri. Allora oggi ci è venuto naturale riproporre questo tipo di sentimento parlando di una cosa particolare, cioè del tuo lavoro, la scelta del linguaggio che tu assumi come tuo non tanto per cantare te stesso ma per entrare in contatto con gli altri.

Paolo Taviani: Volevo aggiungere una cosa. Da ragazzo mi ricordo che quando dicevamo che amavamo il cinema ed eravamo comunisti ci rispondevano 'è chiaro, siete giovani, va bene. Ma se quando avrete trent'anni lo sarete ancora sarete due imbecilli.' Noi sapevamo che questa affermazione detta un po' da tutti era assolutamente falsa. Allora quando ritornano questi momenti nel film è un po' quasi come per rispondere a queste cose. Allora non sapevamo rispondere e nella vita abbiamo fatto del cinema anche per rispondere a queste domande. Voi siete quasi tutti giovani e nella vostra esperienza avrete certamente vissuto dei momenti in cui siete stati insieme, complici, avrete vissuto delle situazioni politiche, di gruppo in cui avete scoperto qualcosa insieme che magari ora vi sembra importantissimo. Poi invece passando gli anni sorriderete di queste cose e direte 'eravamo ragazzi e pensavamo queste cose. Ora invece che siamo adulti queste cose non le pensiamo più'. C'è una battuta del nostro film che suona più o meno così. Allora, quando ripenserete a questi momenti non sorridete con aria di disprezzo perchè eravate ragazzi. No, è un ricordo che dovete coltivare e portarvi dietro sempre. Perchè quando passa la vita e và avanti, si diventa dulti, si diventa diversi, più saggi si dice. Io non lo so se si diventa più saggi, penso solo che si diventi diversi e molto saggio a una certa età è riuscire a ricordarsi di certe saggezze di quando si hanno venti-venticinque anni ed è restare fedeli a quelle finchè si può per potere ancora essere forti e giovani e cercare di vivere in mezzo agli altri.

Potreste parlarmi del protagonista de Il prato?
Vittorio Taviani: Il prato nasce in un momento di grande dolore per la generazione che aveva vissuto il '68 e il '77, e quindi di un certo abbandono della propria forza. Quel personaggio è un personaggio ormai segnato da un senso di grande mestizia della vita. E' chiaro che lui ha amato molto il cinema. Lui pensa di affidare al cinema l'espressione di sè stesso, ma in quel momento c'è una contraddizione in lui. Da una parte ama il cinema, dall'altra, vivendo ancora l'eco di quel momento politico che come ho detto prima è stato per molti anni l'unica chiave per capire la realtà, dice 'ma se fare il cinema significa dovere in fondo entrare in qualche modo in competizione con gli altri, dover sottostare alla ricerca del capitale, dover comunque diventare qualcuno che si stacca troppo dagli altri, allora io rinuncio al cinema'. In questa contraddizione sta il dolore di quella generazione, una generazione che ha molto creduto in una certa prospettiva e che non ha avuto forse la forza di vederla anche criticamente. Per cui rimanendo attaccato a questa immagine in fondo lui frustra anche questa sua voglia particolare, individuale di fare il cinema. Quindi il suo è un dramma molto particolare. Ricordiamoci che il cinema, l'arte racconta sempre drammi particolari. Certo che fanno riferimento ai sentimenti collettivi, ma poi si incentrano in un personaggio particolare di cui tu vuoi parlare. Indubbiamente quello è un personaggio che in qualche modo sente ormai la vita come qualcosa che ha perso il sangue. Tanto è vero che è un personaggio che va incontro al suicidio. Ecco, mi ricordo una cosa che noi dicevamo allora. Non è che noi con il suicidio condanniamo questo giovane che, preso tra queste forze contrastanti ('voglio fare il cinema, però non voglio sottostare alla società capitalistica, ecc.'), un amore impossibile, l'impossibilità di creare un rapporto con la donna che ama perchè anche lei in fondo, presa da certi comportamenti del '68, non riesce a scegliere fra un uomo e l'altro, ad un certo punto approda al suicidio. Noi non ce la sentiamo di condannare un giovane del genere, e poi non sta a nessuno condannare gli altri, salvo i fascisti, secondo me, perchè alcune volte un uomo si uccide non per negare la vita, ma per negare quello che gli altri gli impediscono di fare nella vita. E il nostro personaggio a me sembra che alla fine si uccida come per riaffermare un diritto che invece gli altri gli hanno negato. Quindi la storia del nostro personaggio in rapporto a quegli anni e in rapporto al cinema va vista in questa sua particolarissima prospettiva. In generale invece qual'è il problema del cinema e dei giovani? Diciamo che è un terreno veramente minato e le mine che ci sono in questo territorio sono spaventose. Noi purtroppo che ogni giorno riceviamo lettere, non solo dall'Italia ma anche dall'estero, di giovani che vogliono fare il cinema ed a cui dobbiamo rispondere, sentiamo dolorosissimo questo senso di impotenza perchè non possiamo dare una risposta precisa, concreta. Non c'è nella nostra società una strada che dia un minimo di garanzie a chi vale per poter fare il mestiere che gli piace fare. Non esiste. Esiste solo il Centro Sperimentale, anche se poi sta chiuso per due anni. E poi può rispondere solo a poche decine di giovani. E gli altri cosa fanno? E' difficilissimo. Non c'è nessuna strada professionale che ti porti veramente a tirare fuori le tue qualità. Che sia chiaro, per fare il cinema, come per molti altri mestieri, non basta solo apprendere la professione, bisogna che tu proprio sia portato a quel linguaggio, che sia maturata in te la coscienza che quello è il tuo linguaggio, il tuo modo di comunicare con gli altri. Allora noi diciamo questo a questi giovani, come abbiamo fatto un po' con noi stessi: noi non possiamo insegnare niente se non porre davanti ad altri giovani quella che è stata la nostra personale esperienza, probabilmente limitata, perchè non ce la sentiamo di fare da maestri o da pedagoghi. Noi diciamo questo, in particolare per chi viene da fuori Roma: voi dovete partire purtroppo, lasciare la vostra casa se siete in provincia e venire dove si fa il cinema. A parte che noi abbiamo fatto una lotta insieme ad altri perchè venisse decentrato lo spettacolo in Italia. Noi volevamo, per esempio, che la televisione creasse nelle varie regioni un centro produttivo dove veramente i giovani della regione trovassero la maniera di misurarsi con il mezzo. Purtroppo anche questa cosa è naufragata. Quindi bisogna venire a Roma. Venire a Roma purtroppo sapendo che soltanto se risponderai di si a questa domanda val la pena di rompere il tuo legame con il tuo paese, con la tua famiglia, con la gente che conosci ed è questa: per cinque anni, noi diciamo, tu devi alzarti ogni mattina e devi scrivere, devi fare, devi cercare di conoscere te stesso in rapporto al linguaggio che hai scelto. Vuol dire scrivere sceneggiature, scrivere soggetti, scrivere di critica, se hai un videotape usarlo, avere intanto da solo un rapporto con il linguaggio anche se estremamente rudimentale, ma intanto lavorare su quello, per esempio scrivere sceneggiature. Le nostre prime sceneggiature erano impossibili, degli aborti, ma è proprio attraverso gli aborti che tu capisci dove sbagli, che tu capisci dov'è che devi cercare. Quindi lavorare. E poi mettersi in giro per Roma e bussare, rompere le scatole a tutta la gente. E bussa e ribussa. E' chiaro che tu hai questo diritto e gli altri hanno anche diritto di chiuderti la porta in faccia perchè la lotta è spaventosa. Certe volte anche noi diciamo a questi ragazzi: 'voi avete diritto di bussare alla nostra porta. Ma anche noi abbiamo diritto di dire: "Vittorio non è in casa". Perchè altrimenti non si lavorerebbe più nemmeno noi'. Quindi in questa lotta per cercare di entrare in contatto con gli altri, se per cinque anni, noi diciamo per cinque anni, è chiaro che schematizziamo ma forse solo schematizzando si riesce ad esprimere un pensiero, per cinque anni può darsi che non si aprirà nemmeno una porta, e forse l'ultimo giorno del quinto anno una porta si apre. Ma se voi non avete la forza e la pazienza di aspettare quell'ultimo giorno del quinto anno ragazzi rimanete nelle vostre case perchè purtroppo la società vi impedirà di fare quello che volete.

Paolo Taviani: Quello che ha detto Vittorio adesso l'ho ritrovato in questi giorni in una intervista ad Hemingway. Hemingway era molto più cattivo. Anche lui parlava di cinque anni e mi ha fatto molta impressione perchè non l'avevamo letto prima. Allora un giovane dice, 'bene, allora resisto cinque anni. Se poi dopo che ho resistito cinque anni mi fanno lavorare e scopro di non aver talento che cosa succede?'. Allora Hemigway dice: "O ti dai al bere o ti ammazzi". Quindi bisogna lavorare prima. Faccio un esempio. Si parla di noi, quindi forse la nostra esperienza può servire. Quando noi ci siamo messi a scrivere quella cosa di teatro che diceva Vittorio, i dialoghi noi non li sapevamo fare. Allora cosa abbiamo fatto? Abbiamo preso l'Amleto e l'Enrico IV di Pirandello e li abbiamo letti e riletti fino quasi ad impararli a memoria. Poi li abbiamo chiusi a ci siamo detti, 'ora li riscriviamo'. E li abbiamo riscritti andando sulla memoria, cercando di ricordarci i dialoghi, come si agganciava una cosa all'altra e così via, e li abbiamo portati fino in fondo. Quando li abbiamo riletti siamo inorriditi perchè erano venuti fuori degli aborti terribili, però ci avevano fatto capire moltissime cose che poi sono servite nel nostro lavoro. Per esempio, in Pirandello, soprattutto il dialogo, il dialogo che aggancia sempre una battuta ad un'altra, oppure una battuta che viene detta all'inizio della pagina e che sembra sia morta e invece poi serve e prepara il terreno a far scoppiare il dialogo successivo, e così via. Sono tutti piccoli segreti che nessun insegnante può dare, appunto perchè non ci sono scuole, a chi vuol fare questo mestiere e che uno deve prendere in mano da sè stesso. Io mi ricordo che alcune di queste nostre 'interpretazioni-traduzioni' di Pirandello le avevamo battute a macchina ed erano rimaste lì sul tavolo. Mia moglie viene a casa la sera e la vedo che legge, anche se non mi ero accorto che leggeva proprio queste cose, e mi dice: "Ma lo sai che Pirandello non mi piace proprio per niente? E' bruttissimo questo Enrico IV".

Vittorio Taviani: Tanto per parlare di esperienze che sembrano banali ma di cui la vita è fatta perchè i grandi progetti si realizzano con le piccole cose, sempre in quest'ordine di idee, quando eravamo vicini alla realizzazione del primo film noi dicevamo, 'ma come si fa a giudicare se la lunghezza di un film è giusta?'. Perchè uno scrive le scene, e se poi durasse tre ore? Invece un film deve essere di un'ora e cinquanta minuti. Allora cosa facemmo? Noi eravamo in camera a pensione, perchè ci vuole anche molto spirito di sacrificio, avevamo una camera in affitto con due letti, uno per me e uno per Paolo, a Roma. Allora noi facemmo una cosa. Chiamammo la nostra affittacamere che era una vecchietta. Noi le dicemmo: "Lei si metta qua con un orologio". E noi ci siamo presi la sceneggiatura di Senso, di Visconti, e ce la siamo recitata tutta davanti a lei, non solo i dialoghi ma anche le scene, anche quelle di battaglia, pensate un po' che cose ridicole facevamo, ma cercando di ricordare quanto erano lunghe nel film. Alla fine viene fuori che durava due ore e mezzo. Noi allora le diciamo: "Signorina, deve aver visto male l'orologio". E lei: "No, sono due ore e mezzo tranquille". E noi: "Allora, scusi, la rifacciamo un'altra volta". Lei: "No, devo andare a far da mangiare". E noi: "Allora nel pomeriggio". E nel pomeriggio dopo queste due ore e mezzo l'abbiamo riletta, rifatta con le battute e tutto, le scene d'amore fra me e lui, una cosa grottesca, spaventosa e alla fine siamo arrivati quasi alla misura del film. Questa è una cosa quasi ridicola ma, in fondo, c'è bisogno anche di questa applicazione che sembra meschina ma non la è perchè il mestiere è fatto anche di questo, ci vuole una enorme umiltà. Ci vogliono grandi progetti, essere sicuri di avere delle cose da dire e che quelle cose non interessino soltanto te ma siano importanti anche per gli altri. Ci vogliono questi grandi progetti e una grande umiltà. Senza queste due cose è difficile andare avanti.

Che posto occupa il mito nella vostra indagine della realtà?
Paolo Taviani: Mamma mia! Allora. Tu chiedi di fare una analisi. Parliamo della morte. Della morte ne I sovversivi. La morte ne I sovversivi è molto presente perchè c'è il funerale di Togliatti. Voi probabilmente non vi ricordate di chi è stato Togliatti, ma Togliatti è stato un personaggio molto importante per la storia politica italiana. E' stato importante per ciò che rappresentava. La sinistra che nasceva nel dopoguerra e il neorealismo che era legato alla sinistra raccoglieva in sè molti, molti significati. Bene, negli anni Sessanta entrò in crisi tutto un modo di leggere la realtà a cui eravamo stati educati nel decennio precedente e quindi si sentiva questo vago desiderio di ribellarsi e ribellarci e trovare strade nuove, strade diverse. Noi allora scegliemmo la storia della morte di Togliatti, un personaggio in passato molto amato che era quasi un padre per certi versi. Sull'onda di quel film nacque Sotto il segno dello scorpione e non solo quello. I film di quell'epoca sono molto simili l'uno all'altro perchè in quegli anni, dopo aver fatto questo seppellimento che abbiamo racontato prima c'era il desiderio di reinventare tutto, bisognava ricominciare tutto daccapo, reinventarsi tutto dal punto di vista dello stile, dimenticarsi il passato, fondare una nuova colonia cinematografica. In questo desiderio sta la riscoperta del mito, la riscoperta di un modo di fare cinema che a noi, mentre giravamo Sotto il segno dello scorpione, sembrava di aver inventato nuovamente, un qualcosa di assolutamente nuovo, un cinema provocatorio nei confronti di un pubblico che, noi dicevamo, era un pubblico influenzato da un cattivo cinema, da una televisione che stava arrivando, orrenda, già allora. Allora noi dicevamo, 'per rispetto al pubblico vogliamo fare dei film in cui si pensa, perchè il cinema deve fare anche pensare, anche se ci vuole fatica. Noi facciamo un cinema che cerca per chi cerca'. Questa era la nostra definizione. E in questa ricerca ci siamo proiettati tutti in avanti, forse anche troppo, e alcune volte diventavamo quasi illeggibili, ma dentro c'era questo grande desiderio di innovazione, di trasformazione che, se si guardano i film di quegli anni, oltre a Sotto il segno dello scorpione, per esempio, c'era in Bertolucci che faceva Partner, un film difficilissimo, quel Bertolucci che poi farà film di lettura molto più chiara e semplice come Il conformista o Novecento. C'era in Dillinger è morto di Marco Ferreri, c'era ne I dannati della terra di Valentino Orsini, c'era anche nei grandi registi già affermati che sembrava si fossero assestati su altissime vette come Bergman e Buñuel. Bergman faceva Persona che se tu lo vai a vedere oggi sembra un film sperimentale fatto da un giovane e infatti il pubblico disertò le sale, e Buñuel fece La via lattea, in cui sembrava tornato all'epoca delle sue prime esperienze surrealiste perchè in tutti quanti c'era questo grande desiderio. Era una temperie culturale e politica che ci travolse tutti quanti e che, devo dire, è stata importantissima perché il risultato fondamentale che ha dato è stato il perdere le scorie che ci portavamo dietro dal cinema di papà, da un passato politico e culturale che ormai era finito. Noi diciamo che il cinema per noi è come una grande quercia. Una grande quercia con delle radici molto profonde. Per il cinema nostro, in particolare, queste sono state il Neorealismo. Questo vento che arrivò fece cadere tutte le foglie secche che c'erano su questo albero. L'albero arrivò quasi a inaridirsi, possiamo dirlo, vi ritornò nudo, però a poco a poco ha rimesso le foglie, a poco a poco i rami sono cresciuti e sono stati come potati da questa ondata che c'è stata. Io penso in senso positivo perchè la stessa generazione che poi ha fatto il cinema degli anni Settanta è, oltre a noi, la generazione di Bertolucci, di Bellocchio, di Olmi, di Scola che hanno prodotto un cinema, che nasce sempre da queste radici, ma in maniera completamente diversa.

Volevo fare una domanda a proposito del film Kaos. In particolare mi riferisco alla concezione della Sicilia che vi è sottesa. Quale interpretazione avete dato di quella concezione pessimistica che è quella pirandelliana?
Vittorio Taviani: Il nostro incontro con Pirandello…noi diciamo che è un incontro-scontro. Noi abbiamo sempre considerato Pirandello come uno dei più grandi maestri dello spettacolo del nostro tempo. Pensiamo che il grande Pirandello del teatro metafisico o quello del teatro antiborghese sia una esperienza che qualsiasi uomo di spettacolo tiene dentro di sè. Questo Pirandello di Kaos è un Pirandello forse un po' più inedito, è il Pirandello che ha questa complicità, questa tenerezza, questa partecipazione dolorosa alla vita della sua gente in Sicilia e in particolare i contadini che vivono sulla terra, che faticano sulla terra, che lavorano con le loro forze, con i loro dolori, con le loro superstizioni, con le loro magie. In Pirandello c'è questa tenerezza, c'è questo amore, c'è questa pietà, alcune volte ci sono questi accenti epici ma indubbiamente la visione di Pirandello chiusa in un universo senza sole era un po' lontana dalla nostra. Noi pensiamo che certo il sole non è tutto, c'è anche la luna, ci sono anche le tenebre però a noi interessa proprio il rapporto fra la luce e le tenebre. E allora ci siamo trovati spesso a incontrarci con Pirandello ma poi anche a scontrarci con Pirandello riprendendo le sue storie e questo contatto diretto con la Sicilia (e vi dirò fra parentesi che Pirandello diceva "questi miei racconti, badate bene, non sono miei ma sono della mia balia, Maristella, che da piccino mi raccontava le fiabe della sua gente e io non ho fatto altro che riprendere queste vecchie storie e farle mie"). Allora questo contatto con la terra noi lo dobbiamo a Pirandello, noi lo dobbiamo a Maristella, questa contadina che chissà come era fatta fisicamente, sarei molto curioso di conoscerla. Però ad un certo punto sentivamo che quello che noi pensavamo della vita si allontanava da questa visione chiusa di Pirandello. Da qui mi sembra che, pur nel grande dolore che il film esprime sulla condizione di chi vive sulla terra in Sicilia, e di chi viveva allora in Sicilia, nel nostro film su questo nasca, per esempio la solidarietà, la pietà di colui che dovrebbe tradire l'amico e che invece di fronte al suo dolore si ritrae. Direi che questo tipo di speranza, non vorrei dire proprio di speranza che è un termine un po' retorico, ma questo senso di dire che la vita non finisce, che la vita continua e che perciò nel futuro chissà cosa ci aspetta, il sole e la luna, è presente nel film, in particolare nell'ultimo episodio. Tutto questo senso è quello che ha pervaso tutto il nostro lavoro, perchè non si deve andare a cercare secondo noi solo quel fatto o quel personaggio che impersoni un certo sentimento, è nell'insieme di un'opera che tu devi capire dove va l'autore e quali sentimenti riesce ad esprimere. Allora mi sembra che nel finale questo sentimento che è in tutto il film diventi più concreto, quando Pirandello stesso torna dopo tanti anni nella sua terra, chiamato da una voce misteriosa, che poi si scopre come la voce della madre morta e con la quale Pirandello ha un lungo dialogo. Pirandello è in un momento di grande stanchezza e di grande delusione come uomo e come artista e la madre invece gli dice alcune cose. Gli dice che in fondo per affrontare la vita non occorre stare sempre con il pugno chiuso in questa maniera perchè alcune volte il pugno così chiuso ti fa male, la vita la puoi affrontare anche con la mano più aperta, più che vai incontro alla vita, e poi gli dice soprattutto una cosa, 'io sono morta' e questo dà al figlio quasi un dolore non superabile, ma la madre gli dice 'guarda che se tu, figlio, riuscirai a vedere le cose anche con gli occhi di chi non c'è più di certo questo ti darà dolore, ma le cose ti appariranno ancora più sacre e più belle'. E proprio allora, attraverso la voce della madre che vive nel film, vive in Pirandello e vive in noi viene raccontato un episodio che la madre stessa aveva vissuto da bambina…Questi figli del vecchio Pirandello, che era un risorgimentale mandato in esilio, cercano di raggiungere il padre di nascosto, è in esilio a Malta, prendono una barca e vanno in mare. Sono bambini come orfani perchè orfani della terra che lasciano, sono bambini che hanno paura perchè il mare fa paura, fa paura l'esilio, fa paura lasciare le cose che tu ami, eppure, durante questo viaggio doloroso dell'esilio, anche perchè il vento si è fermato, a un certo punto il pescatore dice: "mentre aspettiamo che il vento riprenda perchè non ci fermiamo su quest'isola?". E poi: "signora faccia fare un bagno ai suoi figli". E i bambini scendono allora su questa isola bellissima perchè la natura spesso ti viene incontro e giocando su quelle sabbie di pomici che ci sono nelle isole siciliane questi bambini corrono, volano su queste sabbie e si tuffano nel mare e sono felici. Allora, ecco, questo è forse il senso del film, il senso di questo episodio, e il senso che noi vogliamo esprimere, e cioè che anche nel momento in cui tutto ti sembra nemico c'è qualcosa che ti può venire incontro. Tu cerca di prenderlo questo qualcosa e allora anche se poi rimonti sulla barca, anche se di nuovo vai in esilio, quello che hai incontrato ti dà fiducia e forza per affrontare quello che ti aspetta.

Come avete iniziato a fare cinema?
Paolo Taviani: Tu vuoi sapere come ci è venuta questa idea del cinema…Un responsabile di questa nostra vita è qui davanti, è quel signore lì un po' spelacchiato, Mario Benvenuti, che era l'animatore e il fondatore del circolo del cinema di Pisa. Il nostro incontro con lo spettacolo l'abbiamo avuto da ragazzi. Noi siamo di San Miniato e nostro padre, quando andavamo bene a scuola ci portava a Firenze a vedere il Maggio fiorentino, a vedere l'opera, e per noi questo viaggio, andare a Firenze, questo tendone rosso che si apriva su tutta la magia più impensabile è stata una delle emozioni più grandi, tanto è vero che tornavamo a casa e con i dischi recitavamo, rifacevamo le opere che avevamo visto. Provavamo veramente una grande emozione. Poi è venuta la guerra e la guerra ha travolto molte cose, ha distrutto anche la nostra casa, noi ci siamo trasferiti a Pisa e qui a Pisa abbiamo visto per la prima volta un film che era Paisà di Rossellini al cinema Italia. Questo film parlava della guerra, quella stessa guerra che noi avevamo vissuto, ma vederla sullo schermo ci aiutò a capire meglio quello che avevamo visto noi con i nostri occhi. Cioè quella stessa realtà ci risultava più chiara di quella che noi ricordavamo, eppure l'avevamo vissuta in prima persona. Questo ci sconvolse e ci sconvolse a tal punto che dicemmo "noi faremo il cinema". Fare il cinema uno lo dice, ma intanto come si fa? Quello dei circoli del cinema fu un momento molto bello nel dopoguerra perchè suscitava un grande amore per il cinema e stimolava la scoperta del cinema non soltanto italiano ma di tutto il mondo. A Pisa c'era questo circolo del cinema, sempre pieno di gente, sempre ricco di dibattiti che appunto Mario Benvenuti aveva fondato e a cui Mario ci chiamò a collaborare. Quindi anche noi ci associammo e lavorammo anche abbastanza bene. Lavorammo all'organizzazione. Mi ricordo che addirittura una volta facemmo una festa da ballo. Quella era l'epoca di Botta e risposta e mi ricordo che allora noi preparammo le domande per quelli che ballavano, che dovevano vincere dei premi a seconda delle risposte che davano. Preparammo delle domande di una difficoltà enorme, quante Giovanne d'Arco, mi ricordo, sono state fatte nella storia del cinema o roba di questo genere. Ne sono state fatte sette. Tutti dicevano Dreyer, l'unica che conoscevano, le altre non le conoscevano. Ecco, questo per dire come era il momento, non era solo una cosa seria, seriosa e noiosa. C'era moltissimo entusiasmo che si articolava in tantissime manifestazioni. E poi cercavamo di fare dei documentari, cioè cercavamo di realizzare quello che si poteva realizzare qua in provincia con i mezzi che si potevano trovare. Facemmo il nostro primo documentario grazie alla provincia di Pisa e al Comune di San Miniato insieme a Valentino Orsini, che è quel documentario di cui parlavo prima, San Miniato, luglio 1944, la cui storia tornerà ne La notte di San Lorenzo. Ne facemmo uno ancora prima con Mario sulle lotte del lavoro, sugli scioperi a rovescio nelle campagne qui intorno a Pisa che girammo in 16 mm. e lui faceva l'operatore. Quello fu proprio il primo lavoro cinematografico che abbiamo fatto. Facemmo in seguito altri documentari, facemmo del teatro a Livorno, ma il cinema, come ha detto prima Vittorio, si fa a Roma. A questo punto prendemmo il treno, partimmo per Roma, arrivammo e…non ricomincio la storia perchè l'abbiamo un po' già detta e sarebbe troppo lungo raccontarla di nuovo.

a cura di Marcello Cella



Paolo e Vittorio Taviani

Cineclub Arsenale, 12 aprile 1996

Paolo Taviani: Fuori ho incontrato una signora che mi ha detto "mamma mia, quel film (Padre padrone, ndr.), è proprio insopportabile" (risate, ndr.).

Ho visto questo film tantissimi anni fa e mi sono rimaste sempre dentro delle cose che non si dimenticano più, tanto è vero che poi ho faticato a leggere il libro da cui è tratto. Però non credevo che questa volta mi avrebbe fatto così effetto, perchè in genere i film la seconda volta…e invece sono rimasta sbalordita e nuovamente inquieta. Non so se ringraziarvi o no perchè ho rivissuto da capo le stesse emozioni e in maniera più profonda. E' un film molto violento nel senso reale che si dà a questa parola, ha tutta una problematica che non riguarda solo i paesi sottosviluppati, ma anche noi seppure con sfumature diverse. Il tema della famiglia è poi una cosa…se si vuole spiegare ai giovani il concetto di violenza secondo me questo film, al di là di tante spiegazioni di sociologi credo che sia veramente efficace. E poi è una cosa vera, e questa è forse la cosa più tremenda e non è scomparsa. Non è un pretesto storico, purtroppo è attuale e purtroppo non è tenero.
Paolo Taviani: La ringrazio per il suo intervento. E' vero che quando lei mi ha incontrato qui fuori le ho detto, "anche a lei non è piaciuto ed è uscita?"(risate, ndr.), ma è vero che lei mi ha detto "non si riesce a sopportare". E ora che lei ha spiegato bene il perchè devo dire che a distanza di anni se il film ancora riesce a comunicare questo dolore dell'uomo quando cerca di ribellarsi ad una situazione in cui è costretto dalla società o dalla famiglia e ha un'idea della vita che vuole realizzare e tutti congiurano contro di lui per impedirglielo, e quindi la violenza degli altri e di lì la sua reazione, se questo ancora arriva oggi io penso che il film abbia ancora un senso proiettarlo. Ma lei è uscita perchè nel film ha respirato la violenza…lei ha detto una cosa che mi è piaciuta molto…la violenza quando si identifica nel cattivo, nel male, come Jago, è più semplice, fa meno paura perchè si identifica con qualcosa che è connaturato alla nostra idea del male, ma quando questo avviene all'interno della famiglia… in realtà anche all'interno della famiglia non sono cattivi. Anche il padre ha una sua umanità. Ecco, allora questa sua affermazione è un bellissimo giudizio sul film per me perchè io penso che il male si deve individuarlo meglio, ma è difficile proprio perchè non è mai tutto d'un pezzo, è sempre articolato, pieno di contraddizioni, come anche il bene è pieno di contraddizioni. Bisogna fare una scelta e capire quale via seguire ma questa via passa attraverso tante strade che la interpretano e che non sono così facile da decifrare. Qui c'è un padre che è oggettivamente cattivo nei confronti del figlio ma è anche un uomo onesto e umano, anche lui con un suo dolore che va capito, va compreso. Non per questo va subito, ma va capito. Nel finale del film si vede il nostro Gavino che dice "ho vinto, e sono rimasto su questa terra, ma è doloroso. Ora è piacevole perchè c'è la troupe di un film, ma provate a tornarci d'inverno per vedere come è duro ancora combattere, come è duro andare avanti". Ma parla come un uomo che, nonostante tutta la tragedia che ha sofferto, tutta l'oppressione che ha avuto, è un uomo che ha vinto la sua battaglia. E quindi il senso del film che lei diceva viene ridimensionato in una visione più generale che in realtà non è così terribile come lei diceva.
Vittorio Taviani: Vorrei aggiungere questo su questa creatura che è facile riconoscere, su questa creatura che è ciascuno di noi. Questa è una creatura che ha una situazione di partenza sulla quale lui esercita un desiderio e una volontà di cambiamento, questo personaggio si sente che è violento ma contrapposta a questa violenza c'è il bisogno, direi, più che la volontà, l'assoluto bisogno invece di rompere il silenzio e di arrivare alla comunicazione. Questa per noi è la vera forza del film. Da una parte non bisogna avere nessuna pietà nel raccontare quella che spesso è la condizione umana, ma nello stesso tempo è necessario anche guardare alle forze che dentro l'uomo vi sono per cercare di rompere questa solitudine. Quello che si diceva prima, sul fatto che i ragazzi americani che hanno visto il film l'hanno riconosciuto come proprio, c'è questo, che accanto alla solitudine che a volte serpeggia a New York, simile a quella che è nella vita di Gavino, anche noi abbiamo bisogno di rompere e di comunicare. Ecco, io credo che in questo film sia fondamentale questo desiderio del personaggio e quindi del film, e quindi è nostro di sentire che bisogna parlare con gli altri, che bisogna riconoscersi negli altri. La strada di Gavino è una specie di via crucis ma è proprio il dolore della croce che lo porta invece al riconoscimento di sè stesso in mezzo agli altri. E per riconoscersi ci sono mille voci. C'è la voce della musica. Vi racconterò un particolare. Quando noi abbiamo pensato di mettere la musica di Strauss è il momento in cui lui si rende conto che c'è altro, altro da suo padre, altro da quelle colline. Qualcuno ci ha detto, ma perchè non avete preso una musica sarda? No, per noi è importante che arrivi qualcosa che fa capire a questa creatura che c'è un mondo al di là di quelle colline dove un'armonia come questa è possibile che venga concepita. E io vado incontro a queste armonie che sono al di là della collina. Una volta che le ho ascoltate posso forse tornare qua e qua fare la mia battaglia. Perchè ricordiamoci che Gavino poi dice una cosa importante: "il libro che io ho scritto penso che sia stato scritto un po' da tutti i pastori della Sardegna, cioè è un libro collettivo". Con questo volevo dire che noi al film abbiamo voluto dare questo senso di cercare, ovunque sia possibile, di incontrare l''altro', perchè è importante tutto il mondo che è dentro di me, ma nello stesso tempo anche tornare nella propria terra e lì cercare di stabilire un colloquio. Quindi questo film che lei ha visto in questa maniera così terribile e che mi fa piacere perchè io amo le cose molto forti penso però che sia il film più ottimista che noi abbiamo fatto. I Taviani finalmente hanno fatto un film dove si raggiunge un risultato. Nei film nostri in genere c'è questo bisogno di raggiungere qualcosa di diverso dalla realtà in cui non ti riconosci, ma in genere i nostri film finiscono con una sconfitta che noi consideriamo provvisoria, sia chiaro, non assoluta. Questa volta un nostro personaggio qualcosa ha raggiunto, se non altro ha raggiunto sè stesso in una identità. In questo senso il film, così violento, così forte è anche per noi un film in cui la speranza ha una componente estremamente forte e credo che sia questo che ha fatto sì che il film sia stato molto amato nel mondo.

E con la musica come avete lavorato? E' tutto frutto delle vostre idee o c'era qualcun altro che vi ha aiutato?
Paolo Taviani: No, c'era un musicista che era Egisto Macchi…Noi in genere quando scriviamo il film pensiamo già alla musica. Non è che mettiamo una musica che sia un semplice commento alle immagini. Soprattutto per questo film in particolare, che è anche il nostro film più glottologico perchè Gavino…c'era una cosa che ci aveva colpito della storia di Gavino Ledda che noi avevamo letto su un quotidiano, Paese Sera. Leggemmo di un pastore vissuto nel silenzio, isolato sulle montagne, che si era messo a studiare e che si era laureato in glottologia. Questo ci aveva colpito molto più del romanzo. Cioè ci aveva colpito che un giovane, costretto a stare nel silenzio assoluto, studiando avesse approfondito soprattutto il linguaggio, la comunicazione, quel dono che a lui non era stato dato e quindi avesse cercato di capire che cos'era la comunicazione, il linguaggio, le parole, i suoni, i silenzi. Ecco, allora il nostro film, ogni scena che noi abbiamo pensato nasce dal libro ma nasce anche dalla nostra fantasia. Dicemmo a Gavino, 'noi seguiremo il libro, tu ci dai questo progetto e noi lo facciamo nostro nel nostro film'. Non saremmo mai andati avanti nella sceneggiatura del film se ogni scena non fosse stata glottologica, cioè se l'elemento suono non fosse stato il pilota della scena che stavamo scrivendo, che stavamo immaginando. In questo contesto è chiaro che il suono e anche il silenzio, e il clima intorno avevano una grande importanza. Noi ci incontrammo con questo musicista che si chiamava Macchi, visto che è morto, e con lui concordammo gli interventi della musica che qui sono fondamentali. Strauss l'avevamo portato noi, c'era già quando è stato girato il film, non è che l'abbiamo aggiunto dopo, cioè faceva parte dell'invenzione. E un altro momento musicale per noi fondamentale era quello della processione. Nella processione ci sono i ragazzi che portano il santo e tutti desiderano andare in Germania, sopra invece ci sono i patriarchi, i vecchi che hanno i loro bellissimi canti antichi sardi. Noi allora lavorando al film, sempre seguendo questo filo rosso del suono che ci guidava, ci è venuto spontaneo costruire una sequenza sull'incontro-scontro fra questi due modi di cantare. Sotto questo canto tedesco che in quel momento significava per chi voleva andare in Germania, fuggire dall'isola, trovare una nuova realtà e quindi la libertà, e sopra il canto della conservazione. Allora la sequenza di questa progressione è un alternarsi del canto dei ragazzi sotto e del canto dei patriarchi che sono sopra. Avevamo pensato anche di girare molti primi piani espressivi di questa lotta dei canti, poi invece in moviola abbiamo ridotto sempre di più i primi piani e alla fine l'ultima immagine è una lunghissima inquadratura in campo lungo, semplicissima, in cui il racconto è fatto esclusivamente dai due canti. Uno prevale sull'altro, vince il canto dei giovani, l'altro però si fa più forte e li rimette sotto, finchè il canto dei giovani riesce ad avere la meglio e vince su questa lunghissima inquadratura. Ma non era stato previsto a tavolino. A tavolino avevamo previsto questo conflitto, ma poi abbiamo capito perchè un film è una trasformazione continua e, se c'è una idea, più l'idea è forte e più le trasformazioni sono ricche. Quello che volevo dire comunque è che la musica in questo film è un elemento narrativo del film, non è un commento.
Vittorio Taviani: E poi quando parlavo prima dell'incontro di quello che c'è oltre la collina, intendevo anche l'incontro con il passato, l'incontro con Virgilio, con l'Eneide e il rendersi conto che gli uomini hanno sempre cercato di esprimere sè stessi. In questo senso il film è pieno di questi raggiungimenti, di questo incontrare questa musica meravigliosa austriaca oppure addirittura i versi dell'Eneide. E' un continuo confermare che l'uomo può cambiare se cerca di riconoscersi nell'altro. Nell'altro che può essere una musica, che può essere un verso poetico, che può essere un amico su un carro armato che cerca di avere un rapporto con lui. L'avete riconosciuto chi era l'amico?

Pubblico (in coro): Siii…Nanni Moretti…

Io volevo tornare al tema del cinema d'impegno che era la vostra caratteristica negli anni Settanta. E mi pare che anche questo film sia una storia sulla volontà di lottare. Io mi ricordo che allora ogni vostro film era un evento, molto emozionante, molto particolare perchè ci confermava nelle nostre esperienze e nei nostri valori. Ovviamente ora è tutto cambiato, il panorama politico è estremamente confuso, non c'è più destra e sinistra…E purtroppo non ci sono più neanche i grandi maestri che ci consolano, diciamo così… Andiamo al cinema certe volte anche per sentirsi confermare nei propri valori. Io mi ricordo film come La notte di San Lorenzo…erano avvenimenti particolari. Ci si ritrovava per andarli a vedere tutti insieme, parlavamo lo stesso linguaggio vostro, cioè voi esprimevate il nostro linguaggio e i nostri interessi. Oggi non mi ritrovo più nel cinema che vedo. Forse l'unico cinema che ho visto in questi anni che mi abbia detto qualcosa è stato quello di Ken Loach. Lì ci ho ritrovato qualcosa di allora. Allora io chiedo a voi, soprattutto a voi che siete stati i nostri grandi maestri, non si fanno più film di questo tipo perchè i produttori non danno più la possibilità di farli, perchè il pubblico non va più a vederli, perchè si sono persi tutti i valori o per qualche altro motivo? Perchè non sentiamo più questo feeling con i nostri autori, con i nostri Pasolini, con i nostri Visconti, perchè non riusciamo più a dialogare con questi grandi maestri?
Vittorio Taviani: Quello che ha detto ci tocca profondamente non solo come autori, ma anche come spettatori, noi siamo anche spettatori, ci tocca come cittadini. Io credo che noi abbiamo sempre raccontato il bisogno dell'uomo di trovare qualcosa che non lo costringa ad essere quello che nel presente è costretto ad essere. Vede, la realtà si trasforma. Per noi non c'è stata mai nessuna preoccupazione nè di produttori, nè di pubblico che ci hanno frenato. Abbiamo cercato sempre di fare i film, ne facciamo pochi, quelli che crediamo che in quel momento rispondano al nostro bisogno che è un po' il suo. Quando lei ha detto molto giustamente che vedere il cinema, fare il cinema è un dialogo, veramente non penso che sia più importante il film o lo spettatore, penso che sia importante il luogo in cui ci si incontra e il luogo è il film. Quindi non abbiamo mai fatto un film che prescindesse da questo anche perchè non ci riuscirebbe di farlo. Altre volte ci hanno proposto dei film che magari erano anche divertenti, interessanti ma che non corrispondevano a questo nostro bisogno, noi diciamo che in fondo noi facciamo dei film anche per rispondere ai nostri incubi notturni. In che senso? Che di notte a volte ci si sveglia e si fanno degli incubi. Allora alla mattina quando ci si sveglia ci viene da pensare, ma noi dobbiamo buttare fuori questa ansia tremenda. Per noi il modo per tirare fuori questa ansia è forse fare un film. Non magari trovare delle risposte, perchè trovare delle risposte sarebbe troppo bello, ma se non altro esprimere questa ansia e, nell'esprimerla, comunicarla agli altri. Forse si crea un'atmosfera da cui una qualche risposta, oggi o domani, potrebbe venire. Lei ci chiedeva perchè oggi non si fanno più questi film. Io posso parlare solo a titolo personale perchè non posso certo parlare per gli altri. Noi viviamo giorno per giorno questa acerrima battaglia che è quella di cercare di avere un'identità che non sia quella cui ci costringono gli altri, ma questa si articola in varie maniere. Per esempio, nell'ultimo film che abbiamo fatto, Le affinità elettive, tratto da Goethe, uno potrebbe dire, 'ma vi siete allontanati da tematiche più direttamente sociali'. Per noi invece il film rispecchia sempre questo nostro bisogno perchè in questo film c'è si una storia d'amore, ci sono questi quattro personaggi, una coppia con due amici, ma sono quattro belle persone che vogliono costruire una vita giusta nei limiti e nelle prospettive della società in cui vivono, siamo all'inizio dell'Ottocento. Il film è sempre una metafora, per cui capire lo spirito con cui loro si avvicinano ai problemi serve anche a noi. Questi personaggi sia sul piano dei sentimenti, sia su quello del loro rapporto con le cose, in questo caso la campagna, cercano di stabilire un grande equilibrio. Ma accanto a questo desiderio di ritrovare l'equilibrio c'è lo scontro con le cose ancora non concluse della natura che li porta invece, a un certo punto, a stravolgere completamente i loro rapporti di sentimento, d'amicizia, d'affetto e d'amore, a far si che questa coppia si distrugga e altri amori nascano, amori che creano dramma. In questa storia che è una storia di sentimenti e d'amore però per noi c'è sempre lo stesso motivo, ci siamo noi che cerchiamo sempre di trovare un nostro equilibrio, questa volta parliamo d'amore e quindi è in relazione ai sentimenti d'amore, ma ogni volta dobbiamo scontrarci con qualcosa che è più forte di noi. Nel dramma come si vive questo scontro? Questa è la novità che noi oggi cerchiamo. Noi pensavamo che alle soglie del Duemila arrivasse l'epoca della pace, vediamo invece che le guerre sono ancora di grande attualità, quindi di nuovo da una parte il desiderio di equilibrio da parte di tutti quanti noi e dall'altra una realtà che sempre più ci mette in discussione. Allora questo tema c'è anche nel nostro ultimo film rapportato ad una cosa più particolare dell'amore, ma di nuovo è questo tema qui, il desiderio di trovare un equilibrio e la difficoltà alcune volte di trovarlo. Ma è nella lotta, nell'esprimere questo dramma che noi pensiamo che oggi sia il momento di affondare l'occhio e lo sguardo perchè la realtà si è fatta molto più complessa, le cose sono molto cambiate. Rimanere attaccati a certe culture importanti del nostro passato significherebbe oggi veramente avere una visione non realistica delle cose. Quindi certi momenti di lotta sono passati, sono arrivate nuove realtà di tutti i tipi e con queste bisogna confrontarsi. Poi è chiaro che ciascuno di noi sa quali sono i cattivi di cui sopra…per noi in questo momento è Berlusconi…(risate e applausi, ndr.)…e per questa volta la cosa ci è abbastanza chiara…
Paolo Taviani:…lo sapevo che finiva così…(risate, ndr.)

Se doveste rifarlo ora, Padre padrone lo rifareste uguale o cambiereste qualche cosa?
Paolo Taviani: Dunque…Allora ti dico una cosa…ti racconto un episodio divertente. La premessa è che noi non rivediamo mai i nostri film perchè ci imbarazza. Quando noi da Pisa partimmo per Roma, carichi di amore per quel cinema con cui ci eravamo formati, quello del cineclub diretto da Mario Benvenuti, il nostro maestro di cinema e direttore-padrone, anche a Roma, quando potevamo, perchè non ci avevamo una lira, andavamo al cinema e tornavamo ai nostri film, quelli con cui eravamo partiti. Una volta andammo a rivedere La terra trema di Visconti, era un circolo del cinema. Andammo a vedere quel film e durante la proiezione del film c'era dietro un gruppetto di persone con uno che diceva, "ma che è 'sta roba, ma come si fa a fare un film così, ma che schifo!". Allora dopo un po' che non si sopportavano più mi alzo e vado a vedere chi è che fa questi commenti, e mi accorgo che era Luchino Visconti che stava rivedendo il suo film ed era inorridito di quello che stava vedendo. Rimanemmo sconcertati da questo fatto. Se ci avesse fatto quella parte lei le arrivava uno schiaffo! Rimanemmo sconcertati e non capimmo perchè pensavamo che rinnegasse il suo passato. Poi con gli anni abbiamo capito che, quando hai fatto un film che è legato ad un momento particolare della tua vita, ad una stagione della storia, quello resta lì e basta. Oggi il tuo presente deve essere proiettato verso altre cose, verso altri desideri, hai altri scopi, non devi guardarti indietro, non devi guardarti indietro perchè al massimo puoi ripeterli, ma sarebbe un altro film, sono certo che sarebbe un film totalmente diverso da questo proprio perchè io penso che bisogna vivere nel presente, bisogna cercare di capire chi siamo oggi, qui, noi e con gli strumenti che abbiamo, quelli del cinema, cercare di rappresentare questi nostri sentimenti. Però bisogna aggiungere una cosa, bisogna fare attenzione. Rappresentare i sentimenti non è proprio la dimensione esatta per cui si fa un film. Gli uomini hanno inventato lo spettacolo, si va a scavare nel deserto e si trova il teatro greco, hanno sempre avuto bisogno di rappresentarsi, di rivedersi con lo spettacolo. Ecco, allora noi pensiamo sempre che una delle ragioni per cui noi abbiamo scelto di fare questo mestiere è il dire certe cose con questo mezzo, ma anche raccontare delle storie, fare spettacolo, fare rappresentazione. Questo è un elemento che è assolutamente alla base della scelta di fare cinema e quindi anche di farlo con il cinema…E' vero che a volte quei sentimenti vengono rappresentati, sono stati espressi, ma io penso che sono stati espressi grazie alla rappresentazione, alla favola, al raccontare e questo è un elemento di magia, di fascino, la ragione per cui noi, fra le altre, abbiamo scelto di fare il cinema.
Vittorio Taviani: Noi siamo di San Miniato, di una famiglia borghese, nostro padre era avvocato, e a San Miniato il nostro rapporto con lo spettacolo avvenne attraverso la musica. Cioè, quando eravamo a scuola, in una scuola molto importante in cui gli insegnanti erano molto considerati, mia moglie fa l'insegnante, in casa mia gli insegnanti erano addirittura considerati degli dei, quindi…Allora, quando andavamo bene a scuola il premio era di andare a Firenze al Maggio fiorentino a vedere il melodramma e quindi le opere di Verdi, di Rossini, e quando questo grande tendone rosso si apriva e appariva questo palcoscenico, avveniva tutto quello che poteva accadere non solo in cielo ma anche in terra. Perchè spesso c'erano quelle pause che a volte si svolgevano sopra le nuvole. Quindi è questa grande fascinazione dello spettacolo che ci ha colpito prima di tutto…Quello che ci riempiva di grande curiosità ma anche di stupore era che anche gli uomini adulti andassero lì e si mettessero a vedere queste cose magiche. Quindi abbiamo avuto un rapporto fortissimo con lo spettacolo ma anche con la musica. Quando poi nel '44 i tedeschi a San Miniato, oltre a tutto quello che avevano fatto alla nostra chiesa, distrussero anche la nostra casa, rimanemmo senza casa. Inoltre noi eravamo ormai al liceo, quindi dovemmo trasferirci a Pisa. Vi diciamo anche una cosa, che noi come sanminiatesi ci sentivamo più fiorentini che pisani. Arrivammo a Pisa su un carro del circo equestre. E, seppur arrivati con animo non troppo felice, Pisa ci accolse così bene che amammo profondamente Pisa, anche perchè a Pisa un certo giorno un po' grigio entrammo in un cinema, il cinema Italia, e mentre noi entriamo escono degli altri spettatori che ci dicono 'non entrate, è un film noioso'. Noi entriamo e invece rimanemmo sbalorditi da quello che stavamo vedendo. Sullo schermo riapparivano di nuovo quelle immagini della guerra che anche noi avevamo vissuto sulla nostra pelle nell'estate del '44, erano là, riproposte ancora per noi, e noi, rivedendole sullo schermo, ci rendemmo conto che ci era più chiaro quello che avevamo vissuto. Cioè, il cinema era come se fosse diventato improvvisamente lo strumento per rendere ancora più visibile a noi stessi, per rendere più chiaro nella nostra coscienza ciò che avevamo vissuto. Quel film era un film di Rossellini, Paisà. Uscimmo e ci dicemmo 'faremo il cinema', perchè se il cinema ha questa capacità non solo di avere quella magia che noi avevamo trovato sul palcoscenico del melodramma, ma ha anche questa capacità di farti ripensare alla tua vita e di fartela capire più di quello che hai capito vivendola, allora questo è lo strumento che noi vogliamo usare. Da allora abbiamo cercato disperatamente questa strada perchè in quegli anni rompere le convenzioni borghesi, con il padre avvocato, era difficile. Tanto è vero che quando noi decidemmo di dire basta, di andare a Roma per fare questo mestiere assurdo, ma che per noi era l'unico possibile, il parroco di San Miniato andò da nostro padre e gli disse: "povero avvocato, i suoi figli sono andati a Roma a lavorare al suono del can can" (risate, ndr.). Ora è tutto diverso ma allora c'era questa idea che andare a Roma a fare il cinema era veramente una cosa da can can. Siamo arrivati a Roma, abbiamo avuto fortuna, e a poco a poco, con fatica, abbiamo trovato la strada. I primi film che facemmo erano dei documentari che noi non amavamo molto perchè troppo forte era il nostro desiderio di raccontare delle storie. I documentari allora non potevano essere più lunghi di dieci minuti, e noi in dieci minuti cercavamo di condensare le nostre storie, ma era impossibile, per cui oggi noi consideriamo i nostri documentari aborti di film, cioè desideri di film che però non erano veri risultati. Ma, facendo un lungo documentario che non era stato fatto per prendere i premi di qualità dal governo, ma per la sinistra in Sicilia, durante la campagna elettorale, noi incontrammo la realtà siciliana che per noi fu una vera scoperta, perchè lì si sposavano insieme il mito dell'antichità e la forza della classe contadina. Mi ricordo che un giorno capitammo in una delle più deserte e invivibili zone della Sicilia e in fondo a una valle incontrammo un giovane contadino di una solitudine incredibile. Allora parlammo con lui senza renderci conto del fatto che parlargli di Roma era come oggi dire Honolulu, e lui ci parla della sua condizione di solitudine e aggiunge: "qua è vero che la vita è dura, ma c'è una cosa che voi a Roma forse non sapete, qua c'è un gruppo di persone che si chiamano Partito Comunista e che stanno cercando di darci una mano. Sapete, qui c'è 'cosa nostra'". Ecco, allora noi trovavamo laggiù, da una parte il mito della solitudine, l'uomo immerso nella natura, e dall'altra questo contadino che ci diceva di aver trovato il gruppo di uomini con il quale lottare. Incontrammo lì anche la madre di Salvatore Carnevale, un sindacalista ammazzato dalla mafia, che ci raccontò la morte del figlio. Quando tornammo a Roma, grazie a quei documentari con cui avevamo vinto il premio qualità, spesso non i più belli ma proprio quelli più brutti che avevamo fatto, ci trovammo in mano dei milioni che avevamo deciso fossero i capitali iniziali per fare un film. E' chiaro che non bastarono quelli, ci furono altre vicissitudini, ma da qui nacque il nostro primo film che è la storia di Salvatore Carnevale, Un uomo da bruciare, che era anche il primo film di Gian Maria Volontè e che racconta a modo nostro la storia di un sindacalista, di uno che lotta per cambiare il mondo.
Paolo Taviani: Io penso che purtroppo in Italia ancora oggi per poter fare del cinema bisogna lottare molto, troppo. Io credo che dovremmo vivere in una società in cui un giovane che ha l'idea di fare il regista abbia il diritto di verificare se è solo un'idea o anche una vocazione, deve cioè essere messo in condizione di decidere della sua vita. Questo però non è possibile perchè la scuola dovrebbe aiutare il giovane…Perchè nelle scuole non si fanno mai dei corsi di recitazione? Bisognerebbe aiutare i ragazzi…Negli Stati Uniti i ragazzi che escono dal liceo sono già attori perchè lì lo fanno sistematicamente, c'è la possibilità per i giovani di provare a recitare perchè la scuola è già una palestra in cui il giovane si mette alla prova. La recitazione deve essere una cosa che si impara come si studia il latino. Ecco perchè il giovane oggi ha difficoltà, perchè non ha la possibilità di operare questa scelta, se vuole fare questo mestiere, un mestiere che, giustamente o no, si fa soltanto a Roma. Un po' se ne fa anche a Milano ma più che altro lì si fa pubblicità, televisione. Devi andare a Roma, devi avere i mezzi per poter andare a Roma, devi tentare lì dove c'è un'industria che sta andando malissimo (fino a poco tempo fa si facevano cento film all'anno mentre ora se ne fanno ottanta) e dove molti giovani magari riescono anche a realizzare delle cose, ma poi non vengono distribuite nei cinema. Noi abbiamo un cinema d'autore che è una delle poche cose di cui ci si può vantare nel mondo, per cui a un certo punto bisognerebbe difenderlo e valorizzarlo perchè oggi per un giovane è una lotta terribile. Noi quando siamo andati a Roma ci dicemmo che, visto che a scuola non ce lo facevano fare, avremmo cercato di vedere tanti film, ma oggi con le cassette, se uno vuole, i film li può vedere anche a casa. Un giovane, se vuole fare il cinema, deve vedere tanti film, quelli che gli piacciono, americani o altro, poi deve mettersi davanti a un tavolo e riscrivere il film così come se lo ricorda, così che si rende conto di quante cose ha dimenticato, di quante cose crede di aver visto e invece non ci sono, e capisce allora cosa vuol dire usare la macchina da presa per raccontare una certa cosa. Quindi vedere molto, molto cinema e magari comprarsi dei bei libri per capire anche il cinema che non è più nelle sale cinematografiche italiane, quello che c'è stato nella storia del cinema. Oggi poi si possono fare dei film anche in video con gli amici, realizzare delle piccole storie. La prima regola è fare intanto qualcosa con quello che si ha in mano, che non è poco oggi, con il video che è uno strumento importantissimo. Quando noi abbiamo conosciuto Benvenuti, a sedici anni, c'era solo una moviolina piccina così e girava solo in super8, quindi i suoi piccoli film che lui ci faceva vedere a casa sua li faceva con i suoi amici e li montava con la sua piccola moviola. Chi voleva fare del cinema allora lo doveva fare con i mezzi più assurdi. Anche oggi è duro, ma se uno ha veramente questa spinta riesce a farlo.
Vittorio Taviani: Se la legge prevedesse un piano televisivo legato ad ogni regione, allora probabilmente le prime esperienze con l'audiovisivo un giovane potrebbe farle in televisione, magari sarebbe comunque difficile, ma se non altro ci si potrebbe spostare da Roma dove la gente si accoltella per trovare un posto per fare cinema. Probabilmente se ogni regione avesse un suo spazio televisivo lì forse il giovane potrebbe avere la possibilità di fare le sue prime esperienze. Comunque io penso che se uno non ha il bisogno, non dico la voglia, ma proprio il bisogno fisiologico di fare questo mestiere credo che sia molto difficile poterlo fare. Noi quando siamo andati a Roma ci credevamo anche se eravamo molto giovani. Facemmo anche una scommessa con una persona che se entro dieci anni non fossimo riusciti a fare del cinema, con i nostri soldi avremmo comprato una pistola e ci saremmo ammazzati. E' chiaro che se così fosse stato, allo scadere del decimo anno forse non l'avremmo fatto, ma in quel momento ci pareva verosimile…Quindi è ingiustamente molto difficile acquisire gli strumenti per avere un buon rapporto con la vita, con gli altri e con sè stessi, ma se uno il lavoro lo vuol fare è questo…

Come è possibile arrivare ai produttori oggi in Italia?
Paolo Taviani: E' una cosa difficilissima. Le posso dire che purtroppo non c'è una risposta. Non è che uno può andare in un posto, c'è un concorso…non c'è nulla di tutto questo. Io a molti giovani consiglio di fare il Centro Sperimentale. Perchè? Perchè quando uno ha fatto due anni al Centro Sperimentale poi ha il posto di lavoro sicuro? Per niente. Però per tre anni è vissuto con altri colleghi che cercano di fare lo stesso mestiere, con montatori, scenografi, attori, registi o sceneggiatori e questi venti, trenta, quaranta ragazzi che sono insieme, insieme poi cercheranno di affrontare il mondo del cinema e quindi è già una piccola squadra di persone legate da una complicità, da un rapporto quotidiano. Uno di questi magari riuscirà a fare il suo film e quindi anche altri potranno partecipare. Da soli non va. L'abitudine a stare con gli altri è importante. Io poi ho visto che chi ha fatto il Centro Sperimentale spesso chiama come attori quelli che sono stati con lui. E' per respirare l'aria del cinema con dei coetanei che hanno la stessa passione. Questo è già un elemento di forza per poter affrontare quella realtà. Poi c'è il fatto pratico. Tutti i registi, la gente del cinema, hanno sempre cercato di ottenere una legge che aiutasse il cinema. In quanto noi non crediamo che il cinema sia una industria tout court ma semmai un'industria culturale come è l'accezione che si cerca di avere in questo dibattito europeo nei confronti del cinema americano (la Francia soprattutto ha condotto questa battaglia), perchè un intervento sul cinema inteso come industria culturale e non più solo come merce sottintende il fatto di non essere più trattato come una merce, ma con un occhio di riguardo da parte dello stato, degli stati, in funzione della ricerca, come si fa in qualsiasi industria importante in cui si costruiscono le macchine ma si finanzia anche la ricerca pura, con spese apparentemente a fondo perduto. Ecco, noi diciamo uno stato imprenditore che investe sui giovani, su forze nuove e aiuta a realizzare dei film che magari vanno male al botteghino ma che sono il futuro del cinema italiano. Oggi c'è una legge molto mal fatta, che in qualche modo potrebbe anche dare un aiuto attraverso un prefinanziamento del film, ma ci sono già trecento domande e pochi miliardi a disposizione. Ci sono poi le televisioni, e con la RAI qualche lavoro si può fare. Poi spesso la televisione interviene con dei finanziamenti ma è un grande caos in cui è veramente difficilissimo districarsi. Il produttore come dice lei non esiste più. La figura del produttore che individua il giovane e investe sulle sue idee non c'è più. Ormai i produttori sono dei signori che mettono insieme dei soldi da televisioni, home-video, finanziamenti statali e fanno un film. Non mettono più i soldi di tasca loro come era una volta. Magari erano anche antipatici, però c'erano. Quella è letteratura ormai. Poi qui in Toscana c'è gente come Paolo Benvenuti che fa la spola fra Roma e Pisa e che i suoi bei film, faticosamente ma testardamente, riesce a farli. Non di alto budget, ma riesce a farli.

Da una parte per voi c'è la storia del cinema e dall'altra c'è la storia personale. Quanto conta per voi l'impegno civile dal momento che nei vostri film c'è spesso la figura del personaggio che ritorna indietro sul suo passato e si confronta con quello che è stato? Poi vorrei sapere quanto è importante per voi la poesia.
Vittorio Taviani: Le possibilità di fare un'autoriflessione sono infinite. Lei parla di nostalgia, noi parliamo di memoria, che è diverso. Nostalgia è quella di una persona che non si riconosce nel presente, che non sente di essere ancora un protagonista della vita che sta vivendo e invece si rifugia in un passato idillico. Questo no, ma la memoria per noi è fondamentale. Per riuscire a capire quello che siamo oggi se non abbiamo chiaro, sempre più chiaro e non ci ricordiamo quello che siamo stati e quello che sono stati anche gli altri, non riusciremo a capirci oggi nè ad immaginarci nel futuro. Quindi per noi la memoria è fondamentale e, come ha ricordato lei, nei nostri film un confronto fra oggi e ieri è sempre presente. Vede, a distanza si vive il momento poetico. Noi sulla poesia e le arti pensiamo che un autore in partenza può contare sull'essere, o, meglio, sul diventare un buon artigiano, perchè una persona che sia adatta a quel determinato linguaggio espressivo che si è scelto può veramente pensare, affinando i suoi strumenti, di arrivare a essere un buon artigiano. Che poi scatti il momento della poesia è uno di quei casi che, come diceva Pirandello, appartengono veramente al fato. Lui infatti concepiva l'autore come una corolla di un fiore che deve restare sempre molto aperta aspettando che il caso, la farfalla o il vento, portino del polline. Se il polline si ferma su questa corolla aperta, pronta a riceverlo, probabilmente nasce la poesia. Quindi non è programmabile. Riguardo poi al rapporto tra fatto esistenziale e fatto civile non so quale sia la risposta migliore. Ogni volta noi con un film cerchiamo di capire qualcosa di più intorno a questo grande mistero che è il vivere, la condizione umana. Capiamo tante cose ma quelle che non capiamo sono infinitamente di più. Allora cercare di dare un senso, un minimo senso al caos, questa è la ragione per cui tu fai questo lavoro del cinema. Cercare di essere sè stessi e vedersi in una identità che ha un senso in rapporto agli altri. Quando tu fai questa ricerca, che poi è una ricerca di verità, io credo che si risponda sia al momento civile che al momento personale. Non vedrei le due cose separate. L'uomo è una complessità che è in rapporto con una comunità. Allora se io riesco a cogliere anche soltanto un frammento di verità che mi serve per riconoscere gli altri io credo che quello sia anche un momento di impegno civile perchè la verità è sempre rivoluzionaria ed è anche un momento poetico.

Che importanza ha avuto la figura di vostro padre in un film come La notte di san Lorenzo?
Vittorio Taviani: Ne La notte di San Lorenzo, dove Omero Antonutti fa la parte del contadino e guida il gruppo di quei cittadini che capiscono che bisogna andare comunque, anche a costo della vita, a cercare quelli che allora erano i liberatori, in quella figura di contadino c'è la figura di nostro padre. Noi eravamo veramente in quelle condizioni e in quelle cantine c'era veramente nostro padre, che non era contadino ma avvocato e che non credette alle parole dei tedeschi e preferì rischiare la vita e andare a cercare gli americani, andare incontro alla libertà. Quindi il personaggio di Omero Antonutti è un ricordo di nostro padre.

Avete mai fatto degli spot pubblicitari?
Paolo Taviani: C'è stato un periodo negli anni Ottanta in cui facevamo anche della pubblicità. Era un modo per noi di guadagnare quanto ci bastava per sopravvivere non male e poter fare i nostri film. Quella della pubblicità è stata comunque una esperienza molto interessante perchè facendo la pubblicità abbiamo avuto la possibilità di scatenarci facendo gag comiche, cose brillanti. Una che mi ricordo è quella con Paolo Villaggio. C'è una donna che va a prendere un prodotto e lui le dà una botta sulla mano. Un'altra era per Ramazzotti, molto divertente. Avevamo molti attori e ognuno mimava un genere cinematografico, gangster, comico, western, ed era divertentissimo perchè avevamo una cultura cinematografica mostruosa, conoscevamo tutto del cinema mondiale. Altri erano più astratti. Comunque facevamo con la pubblicità quello che non facevamo con il cinema dato che la nostra macchina da presa è più severa. Era tutto molto più semplice, non facevamo molti movimenti di macchina, pochi carrelli, gru o dolly. Era una scelta perchè avevamo molti mezzi e molti soldi, ma era una scelta che derivava da una conoscenza non da una mancanza di mezzi.

Sicuramente molte professioni, molti mestieri del cinema nel corso della storia del cinema sono cambiati con l'evolversi delle tecnologie. Come è cambiato il mestiere di regista e quali condizionamenti subisce oggi dalle condizioni tecnologiche e dal mercato?
Vittorio Taviani: Non parlerei tanto di condizionamenti quanto di possibilità per arrivare a nuove forme espressive. Dipende sempre dalla responsabilità dell'autore. Se un autore ha in mente una storia dove avvengono delle trasformazioni di colore che soltanto oggi si possono avere attraverso le nuove tecnologie oppure elementi più fantastici a questo punto la tecnologia è importante. Anche Kubrick nel passato usava tecnologie per allora avanzate ed ha fatto dei film bellissimi. L'importante è sempre che l'autore usi la tecnologia per accrescere le sue capacità, le sue possibilità espressive. Questo dal punto di vista delle responsabilità. Dal punto di vista invece del mercato c'è il pericolo, in America in particolare, di un filone sempre più grande in cui la tecnologia diventi l'elemento fondamentale di uno spettacolo. A quel punto è chiaro che è un elemento negativo, ma d'altra parte elementi negativi nella produzione dello spettacolo ci sono stati sempre. Ieri potevano essere in un certo tipo di film melenso, melodrammatico, oggi è invece insito in un tipo di film troppo tecnologici. Evidentemente tu devi stare al passo con quello che avviene e cercare di non fartene schiavo, prendere questa forza e usarla intelligentemente per te stesso. Però è vero invece che in generale con questa forza di unificazione del mercato mondiale indubbiamente le grandi forze industriali del capitale, in particolare americane rischiano di omologare e banalizzare il cinema…Noi andando in giro per il mondo, in tutti i paesi del mondo, ci sentiamo dire da chi fa cinema in quei paesi che il loro cinema è quasi soffocato perchè l'80/85% delle sale cinematografiche e quindi del mercato cinematografico è occupato dalle majors americane. Cioè praticamente se vai in Svezia, se vai in Canada chi è come noi, come porzione di mercato ha soltanto il 10/15% di possibilità di uscita perchè l'America in maniera diretta o indiretta ha acquisito tutto il mercato della distribuzione. Quindi gli spazi che rimangono per le cinematografie nazionali sono sempre più ristretti. In questo senso allora nasce la battaglia che in particolare la Francia porta avanti per far si che ci sia una ripresa non autarchica ovviamente, ma una ripresa della propria identità culturale, anche attraverso il cinema. E poi vanno bene anche gli americani, fra l'altro noi amiamo molto il bel cinema americano, ma non amiamo quell'altro 70% del cinema americano che è veramente brutto. Quando noi andiamo in America i nostri colleghi americani ci dicono: "ma davvero voi avete visto quel tale film nelle sale? Perchè qui in America è uscito solo in televisione". E invece noi lo vediamo nelle sale. Bisognerebbe porre un argine a tutto questo e in più vorremmo reciprocità con l'America. Invece l'America tiene chiuse le sue frontiere al cinema straniero, non lo fa entrare o solo in pochissime eccezioni che si possono contare sulle dita di una mano. Quindi sono questi i problemi di mercato che oggi si pongono, perciò occorre che il governo italiano faccia una politica che viva anche in una prospettiva culturale. La cosa importante dei programmi dei due schieramenti politici è vedere chi ha preso in mano anche i problemi della cultura. E non è soltanto un problemma di arti, artigianato e creatività, ma è anche un problema economico fondamentale.

Il vostro ultimo film che non è ancora uscito nelle sale (Le affinità elettive, ndr.) finisce bene o male, nel senso che la speranza trova un suo spazio o no?
Paolo Taviani: Finisce con una bara (risate, ndr.).
Vittorio Taviani: Due bare!
Paolo Taviani: Non scherzo. Ma io penso che invece non sia un film pessimista. Perchè non è che il finale del film è il senso del film, poi ottimismo e pessimismo sono categorie molto sfumate, il senso del film è il film nel suo scorrere. Perchè la stessa storia si può raccontare in mille modi diversi. E' un film tragico, terribile però come è raccontato, la vitalità dell'attore davanti alla macchina da presa lo fanno diventare una storia tragica vitalissima. Shakespeare è tutto terribile, tutto finisce male e invece ti dà una voglia di lavorare, una voglia di vivere! Io ho conosciuto degli esseri umani perchè ho vissuto con loro, perchè nel bene e nel male so di avere delle persone come me che hanno i miei stessi problemi e allora questo mi dà forza perchè mi sento uguale a loro e meno solo. In quel senso se ci si limita alla storiella allora Shakespeare è tragico, negativo. Lui è certamente tragico, ma è la massima iniezione di energia che si può avere da una storia.

Io vorrei sapere come avviene la scelta dell'attore.
Vittorio Taviani: Per noi una situazione ideale è quando c'è un attore che reciti in teatro e che non ha fatto mai il cinema. Questa è la situazione ideale perchè il rapporto che si crea nella troupe, quando si lavora in un film, è veramente una sorta di complicità assoluta fra la regia, gli attori e i tecnici, e la troupe è veramente un gruppo che ha un solo battito del cuore. Allora questa creatura, è un bravissimo attore, nel senso che è padrone di tutti gli strumenti tecnici della recitazione, ma è vergine nei confronti della macchina da presa e quindi ha ancora gli stupori, le emozioni, anche gli errori, ma indubbiamente la capacità di scoprire, di scoprirsi in una dimensione diversa che è la dimensione dello schermo. Questa è per noi una condizione ideale. E questo è successo, per esempio, con Omero Antonutti. Noi avevamo visto Omero Antonutti recitare Shakespeare in teatro e lo avevamo molto ammirato perchè ci aveva emozionato come attore. Quando dovemmo fare Padre padrone ci tornò alla memoria questo personaggio. E anche Omero racconta delle cose molto divertenti, il suo stupore di fronte al mezzo che affrontava per la prima volta, i campi lunghi e capì che, per esempio, se cammini in una inquadratura lunga ha un senso, ma se cammini con la macchina addosso ne ha un altro. Cioè andava scoprendo il mezzo e quindi fu un'esperienza molto bella anche per lui. Poi noi in genere, come per Padre padrone, Kaos e La notte di San Lorenzo, ci siamo portati dietro degli attori che amiamo, però poi andiamo in quelle regioni in cui sono ambientati i film e incontriamo volentieri quelli che amano recitare. Perchè ci piace mettere insieme sia l'attore professionista, sia l'attore che magari è più bravo, ma più 'selvaggio'. E questo per tutti i film che ho rammentato perchè ci piace mettere insieme gli attori che hanno una loro qualificazione professionale forte e attori che magari abbiamo trovato per caso. Ricordo una volta che siamo andati in un paese sperduto della Sicilia e c'era un gruppetto di persone che stava recitando a modo proprio una specie di Eschilo, facendo però dei movimenti di danza che ci incuriosirono molto. Io chiesi: "ma chi vi ha insegnato questa danza?". E loro: "lo facevano già i nostri nonni". Quindi il balletto che noi abbiamo utilizzato in Kaos viene anche dalle suggestioni di quei ragazzi e ragazze che mettevano in piedi questa specie di Eschilo. Poi abbiamo utilizzato anche grandi attori di fama, grandi star americane. Non è che questa sia sempre una regola. Ma, per esempio, nel nostro ultimo film abbiamo utilizzato Isabelle Huppert, che è un'attrice francese, europea che noi consideriamo di casa. Quindi se poi viene anche un attore di fama con cui noi ci troviamo in consonanza ben vengano.

a cura di Marcello Cella





Intervista a
Paolo e Vittorio Taviani

Roma, 1993

Come avete scoperto il cinema?
Paolo: L'abbiamo raccontato altre volte perchè è stato un avvenimento per la nostra esistenza ed è avvenuto così. E' avvenuto a Pisa in un cinema che all'epoca si chiamava cinema Italia, nel dopoguerra. Noi avevamo vissuto l'esperienza della guerra da ragazzi, quella storia che abbiamo cercato un po' di raccontare ne La notte di San Lorenzo, eravamo ragazzi e per noi è stato un momento terribile, ma anche grandioso, perchè abbiamo visto un mondo che sembrava immobile ed eterno, cioè il fascismo, che invece si è trasformato nel suo contrario grazie alla lotta degli uomini che hanno preso in mano il proprio destino ed hanno rovesciato quella situazione. Comunque il cinema noi lo scoprimmo al cinema Italia vedendo un film di Rossellini che si chiama Paisà. Noi avevamo vissuto l'esperienza della guerra in Toscana, cioè il passaggio del fronte a San Miniato che è la nostra città in provincia di Pisa. E' stata un'esperienza fondamentale per la nostra vita perchè abbiamo visto una realtà che sembrava eterna, cioè la realtà del fascismo, che si era modificata nel suo contrario, e uomini che hanno preso in pugno il proprio destino, che sembrava ineluttabile, e hanno rovesciato la realtà storica, con la lotta, la Resistenza ecc.. E questo ci ha dato molta forza anche per il resto della nostra vita perchè abbiamo visto che si può lottare e si può anche vincere, da qui il nostro inguaribile ottimismo, anche se in questa epoca diventa sempre più sotterraneo. Bene, entriamo in questo cinema a Pisa per vedere il film, noi eravamo ragazzi, facevamo il liceo, e sullo schermo vediamo quella realtà della guerra che avevamo vissuto pochi anni prima, riproposta da Rossellini. Credevamo di aver capito cos'era la guerra, ma, vedendola sullo schermo, capimmo molto di più, grazie all'arte di Rossellini, quello che avevamo vissuto. Fu uno choc perchè, ci dicemmo, se il cinema ha questo potere enorme di poter rivelare a te stesso una tua propria verità questa è un'arma straordinaria, è un raggiungimento del secolo. Allora ci dicemmo 'noi faremo il cinema'. Devo far presente che in quel cinema Italia eravamo in cinque. Prima di entrare uscivano quelle poche persone e ci dicevano 'non entrate perchè è un film orrendo, una cosa noiosa', ed eravamo solo in cinque a vedere quel film, perchè c'è tutta una mitologia, lo vorrei dire ai giovani d'oggi, quando si parla degli anni d'oro del cinema italiano del Neorealismo, per cui si pensa che fiumane di popolo andassero a vedere questo grande cinema che ha cambiato il modo di fare cinema in tutte le parti del mondo e invece era un cinema che, a causa della situazione politica che vivevamo e anche del cattivo cinema che imperava allora, veniva disertato dal pubblico, da tutti. Ci sentivamo degli eroi ad amare il cinema di Visconti, di Rossellini e in questo senso trovammo dei complici in questo amore nel cineclub di Pisa, in Mario Benvenuti, ma questa è un'altra storia.

Come siete arrivati al cineclub?
Vittorio: E' stato un incontro molto fortunato. Mi sembra che, non vorrei essere impreciso, cominciammo a scrivere qualcosa di cinema sui giornali, mi sembra La Nazione, e qualcuno, quando lesse quei pezzi di cinema firmati da questi Taviani, io ero all'università mentre Paolo faceva ancora il liceo, che erano arrivati dalla provincia e che erano un po' sconosciuti a Pisa, si chiese, 'chi sono questi due?'. E un giorno arriva un signore giovane, molto simpatico, che ci aveva visto andare al cineclub e ci dice, "ma perchè voi che amate il cinema, che scrivete di cinema non ci date una mano?". Per noi veramente è stato il massimo. Arrivare da San Miniato ed essere immessi nell'unica attività culturale possibile a Pisa in quell'epoca che era il cineclub, perchè nel cineclub è vero che il grande pubblico, che era abituato ad un certo cinema brutto durante il fascismo e poi commerciale nel dopoguerra, non andava a vedere il buon cinema italiano, però c'era veramente una parte di gente che, grazie ai cineclub e ad attività di questo tipo, invece seguiva e aveva bisogno di questo cinema. Allora noi accettammo con grande entusiasmo. Per noi però Mario Benvenuti era anche un'altra cosa e perciò era anche più importante. Lui ci mise tutto a disposizione, però noi, devo confessare, non eravamo molto bravi come organizzatori, mentre invece Mario, oltre ad essere un uomo di grande cultura cinematografica, era anche un bravissimo organizzatore e fece l'errore di affidare a noi due, a questi due sconsiderati, questa macchina organizzativa. Ricordo soltanto un episodio che forse anche Mario si ricorda ancora. Nelle varie attività che si svolgevano nel cineclub c'era una certa amministrazione da controllare e che noi controllavamo con molta buona volontà, ma anche con molta incapacità. Un giorno mancava un documento importante, non ricordo cosa fosse, e lo cercammo insieme a Mario che ne aveva bisogno perchè lui era il presidente del cineclub. Cercammo nell'ufficio e non lo trovammo. Allora Mario dice: "vengo a casa vostra e vediamo se lo avete lasciato a casa". Venne a casa nostra, nella nostra stanza, e cominciammo a rovistare disperatamente in tutti i mobili e a cercare questo documento che non si trovava. Ad un certo punto, nella disperazione, nel cercare un po' qui e un po' là io cosa faccio? Alzo un quadro per vedere se, per caso, il documento fosse lì sotto. Mario a questo punto disse: "basta! Se tu vai a cercare i documenti sotto i quadri vuol dire che sarai anche un bravissimo uomo che ama il cinema, ma certo che come amministrazione mi sembra che ci siamo proprio messi nei guai". Comunque continuammo questa attività, però per noi Mario Benvenuti era anche un'altra cosa che poi ha inciso nella nostra vita. Cioè, non solo Mario Benvenuti era il presidente di questo cineclub per noi così importante, ma era il produttore. A noi ci avevano detto che a Pisa c'era una casa di produzione, cosa che aveva addirittura dell'incredibile perchè per noi il cinema era a Roma. Invece ci dissero che c'erano due produttori, anzi mi ricordo anche il nome della ditta, Benvenuti-Mancianti. Quindi io e Paolo ci dicemmo, bisogna avvicinarci a questi produttori perchè ci hanno soldi, fanno i film, quindi bisogna entrare in tutte le maniere nelle loro grazie. Allora ad un certo punto noi ci presentammo anche sotto questa veste e dicemmo, "voi siete i produttori, cosa potete fare?", e loro, "ma quali produttori? Ma quali soldi? Noi con le nostre mani, con la nostra fatica, creiamo delle piccole cose cinematografiche, ma soltanto con tanta buona volontà". Ma fu quella buona volontà che permise anche a noi di entrare in contatto con la macchina da presa, macchina da presa che per noi era un miraggio.
Paolo: Noi decidemmo che volevamo fare il cinema, però come non si riusciva a capirlo, visto che il cinema era a Roma. C'erano questi grandi 'Selznick' di Pisa che però evidentemente non rendevano e non ci davano questa possibilità. E mi ricordo che ci dicemmo, 'bisogna comprarci una macchina da presa'. Noi non ci intendevamo di niente, però avevamo sentito dire che un ottico che si chiamava Scarlatti, aveva una piccola macchina da presa. Allora rubammo i soldi in casa, ne facemmo di tutti i colori finchè trovammo i soldi per andare a comprare questa macchina da presa. Questo signore allora ce la fece vedere, era una scatoletta nera, e lui ci disse: "ma la sapete usare, vero?", e noi "si, certo, per carità, la sappiamo usare benissimo". Non la guardammo nemmeno, prendemmo questa cosa, pagammo e andammo a casa. Cominciammo a pensare di lavorare con questa macchina da presa, ma non riuscivamo a trovare l'oculare dove si doveva mettere l'occhio. La smontammo, la facemmo vedere, non mi ricordo se a Mario Benvenuti, comunque a qualcuno che se ne intendeva, e ci disse, "ragazzi, ma che avete comprato? Questa qui è una di quelle macchine da presa che gli aerei americani tenevano sotto le ali quando mitragliavano, cieche quindi, per fotografare l'operazione di guerra, ma non è una vera macchina da presa per fare il cinema". Bisognava girare andando a occhio senza l'oculare. Quindi mettemmo da parte anche questa macchina da presa e cominciammo a cercare i soldi per fare il cinema.
Vittorio: Prima però con Mario, che era veramente il nostro nume tutelare, facemmo una cosa con la Camera del lavoro quando andammo a riprendere i famosi scioperi a rovescio. Allora, mi ricordo, c'erano dei movimenti popolari, e anche questo và molto ricordato ai giovani, cioè il fatto che il grande cinema italiano e coloro che lo hanno amato, che sono vissuti intorno al cinema italiano, praticamente erano molto legati anche alla forza delle nuove classi che erano emerse, le classi popolari, le classi contadine, le nuove formazioni della sinistra, per cui il Neorealismo era anche in fondo scoperta di quella grande area socialista, comunista, delle grandi masse popolari. E in quegli anni è stato un tutt'uno, da una parte il Neorealismo, che come fatto di cultura per noi era fondamentale, ma che non per caso si inseriva in un grande movimento di massa. Allora proprio la Camera del Lavoro di Pisa aveva organizzato degli scioperi che si chiamavano scioperi a rovescio. Significava non che gli operai scioperassero, ma che addirittura gli operai licenziati andavano a lavorare gratis per fare strade che invece non venivano fatte, ecc., insomma tutte quelle cose di pubblica utilità che le istituzioni ignoravano e si chiamavano perciò scioperi a rovescio. Bisognava andarli a filmare. Quindi per la prima volta andammo tutti su un camioncino, con Mario e altri, e finalmente con la macchina da presa, questa volta con l'oculare. Mi ricordo che a Pomarance e in altri luoghi fu molto bello l'incontro con la macchina da presa che riprendeva questi personaggi proprio come nel Neorealismo. Cercavamo di filmare la vita, che non era solo quella di questi operai che stavano costruendo una strada di cui c'era bisogno, ma che invece i comuni non facevano. Mi ricordo che entrammo anche in una fabbrica di fiammiferi dove c'erano dei licenziamenti. In realtà non ci fecero entrare, c'era la polizia e finimmo quasi tutti in questura perchè i padroni si accorsero della presenza di quella macchina da presa, che a loro non andava bene, e ci fermarono. Allora riprendemmo questa scena e all'epoca mi sembrava davvero di fare del gran cinema. C'è anche una scena drammatica in cui ci sono delle persone che vogliono andare a fare una certa cosa e c'è invece la polizia che glielo impedisce. Forse è la scena d'azione, di cinema poliziesco più bella che abbiamo fatto nella nostra vita.
Paolo: Un momento, non ti ricordi un particolare. Quando venne la polizia per mandarci via e impedirci di girare, Mario Benvenuti, che faceva il direttore della fotografia e che fece una stupenda fotografia, in parte riprese questa cosa, e, noi pensavamo, anche il momento più cruciale in cui i carabinieri ci spingevano via e io, lui e Valentino Orsini, che era il nostro amico e coregista, sapendo che lui ci riprendeva, facevamo gli attori, cioè resistevamo, protestavamo. Alla fine poi, quando tutto finì, andammo da Mario e gli dicemmo, "hai ripreso?", e lui "si, si". Poi, quando andammo in proiezione, ci accorgemmo che l'emozione sua era stata così forte che quel momento della nostra grande recitazione di guerrieri senza macchia e senza paura era tutto sfocato. Mi ricordo che lui stava per piangere, perchè disse, "ma proprio quella! Porcaccia…". Devo dire però che c'erano anche delle cose che erano state riprese molto bene, ma quel momento lì che oggi mi divertirei a vedere, perchè è la prima scena da attore che noi abbiamo fatto, non c'è. E non credo che ci sia nemmeno più quella copia, perchè so che Benvenuti l'ha cercata e non si è più trovata.
Vittorio: Beh, da allora, per essere brevi, cominciavamo veramente ad avere un certo rapporto con il cinema e la macchina da presa. Noi siamo di origine borghese, nostro padre era avvocato, antifascista, dobbiamo molto a lui, anzi, per quel che siamo, però pensava che noi avremmo continuato la sua strada e infatti all'università abbiamo fatto un po' legge, un po' lettere, ecc., però sentivamo veramente che la scelta, anche se in quei tempi pensare di andare a Roma era una cosa difficile, sarebbe stata questa. Ora è facile pensarla, ma a quei tempi no, nella borghesia no. Vi racconterò un piccolo aneddoto. Quando ci decidemmo ad andare a Roma veramente come eroi balzacchiani, con la valigetta alla conquista di Roma, allora a San Miniato, nella nostra cittadina, c'era un parroco che andava in giro e diceva, "povero avvocato Taviani, una persona così in gamba, una persona onesta, per bene e i figlioli, che delusione!, sono andati a Roma a lavorare al suono del can can". Al suono del can can! Per lui il cinema era andare a lavorare al suono del can can. Vabbè. Noi comunque cominciammo a fare dei documentari, a scrivere delle sceneggiature…
Paolo: Intanto noi a Pisa avevamo conosciuto Valentino Orsini, che era regista anche lui e con cui abbiamo anche stretto un sodalizio che ci ha accompagnato per più di un decennio, e insieme a lui decidemmo di fare un documentario che è San Miniato, luglio '44. Cioè, appena abbiamo avuto la macchina da presa in mano e il denaro, che trovammo grazie al Comune di San Miniato e alla Provincia di Pisa, la prima cosa che noi pensammo fu quella di far parlare di quell'eccidio nazista avvenuto nella cattedrale del nostro paese, che poi appunto sarà l'argomento de La notte di San Lorenzo. Devo dire anche che purtroppo i documentari all'epoca erano legati a una legge imbecille per cui non potevano durare più di dieci minuti, in quanto venivano abbinati ai film e non potevano superare i duecentosettanta metri di pellicola. Noi, che non siamo documentaristi ma registi di finzione, di spettacolo, era una sofferenza enorme dover comprimere in dieci minuti delle storie, e fu così anche per questa storia. Tanto è vero che erano sempre voglie di film e quindi dei documentari sbagliati, ma questo forse venne un po' meglio grazie anche a Zavattini. Perchè, non conoscendo Zavattini, noi decidemmo di andare a Roma a chiedergli consiglio. Partimmo, ricordo, alle quattro e venti di mattina con il diretto per Roma, arrivammo a Roma, scendemmo, andammo a casa di Zavattini in via Sant'Angelo Americi, sapevamo tutto, dove stava ecc., e suonammo il campanello alle nove, nove e mezzo della mattina. Zavattini aprì la porta e noi gli dicemmo, "noi siamo dei giovani che vorrebbero fare del cinema e vorremmo parlare con lei". Lui disse, "ragazzi, potevate almeno telefonare…"
Vittorio:"…o almeno arrivare un'ora dopo…"
Paolo:"…vabbè che sono mattiniero e che soffro d'insonnia, però…". E allora ci introdusse in casa sua. Era un uomo generosissimo, apertissimo, e capì immediatamente tutto. Allora ci disse, "che cosa volete fare?". E noi allora cominciammo a raccontare questo film di tre ore. E lui, dopo un po' che ci ascoltava ci disse, "ma quanto dura questo documentario?". E noi, "dieci minuti". "Allora voi avete parlato per tre ore…Adesso prima lezione. Anche per un film se vale la pena di essere raccontato, e tanto più un documentario, voi ora me lo dovete raccontare in tre parole". Difficilissimo. Noi ne usammo cinque, forse sette, però già da allora questo insegnamento è sempre stato presente in noi. Noi ogni tanto ci diciamo, 'ma, in cinque, sette parole, riusciamo a raccontare questa storia?'. Perchè allora vuol dire che c'è veramente un nucleo fondamentale che chiede di vivere perchè è capace di vivere da solo, è autonomo. Quindi questa è una vera lezione di cinema. E lui poi ci diceva, "questo l'ho imparato da Michelangelo, perchè l'arte del levare è l'arte più grande, non quella del mettere". Vabbè. Zavattini ci diede una mano, ci disse come più o meno avrebbe strutturato il film e noi ripartimmo e andammo a girare questo nostro documentario che fu realizzato e venne anche abbastanza bene, venne presentato a Pisa, e al festival di Pisa vinse anche un premio, però fu bocciato in censura per ragioni di ordine pubblico, in quanto quel documentario poteva creare dei disordini perchè parlava di fascisti, di antifascismo, di tedeschi, allora era soprattutto l'epoca della CED, e quindi era l'epoca terribile della guerra fredda e non si potevano toccare certi argomenti. Quindi il documentario fu bocciato in censura e quella copia che noi stampammo, forse erano due, andò in giro per i cineclub e si è dissolta nel nulla. Il negativo è andato perduto, quindi resta solo un bellissimo ricordo.
Vittorio: Quindi, fatto il primo documentario serio, ancora una volta con l'intervento di Mario Benvenuti e degli amici di Pisa che riuscirono a darci la possibilità di farlo, con Valentino Orsini, a quel punto facemmo altri documentari in Toscana, chiedendo soldi alle famiglie, ai parenti, agli amici, creando veramente dei momenti difficili perchè per produrli chiedevamo i soldi con la promessa di restituirli, e ce li davano con molta fiducia, ma i documentari venivano sempre bocciati per cui è successo qualche volta che qualche amicizia si è anche un po' offuscata. Noi poi abbiamo ripagato un po' tutti, però insomma è nata così. Era difficile, ma penso che sia sempre difficile cominciare una strada. Intanto, fatti questi documentari, a un certo punto diciamo, 'basta, Pisa ci ha dato tutto, ma addio Mario, addio Pisa, grazie per quello che ci avete dato, siete nel nostro cuore, ma bisogna che vi lasciamo'. Prendemmo il treno e venimmo a Roma. A Roma continuavamo a fare questi documentari che, come diceva Paolo, sono voglie di film e quindi noi non li amiamo molto, però i più brutti che abbiamo fatto, perchè ad un certo punto ci rendemmo conto e dicemmo, 'beh, facciamoli come li fanno un po' tutti', invece vinsero tutti i premi, premi che erano in soldi. A quei tempi mi sembra che si andasse sui venti milioni per tre documentari che a quei tempi erano la possibilità di un inizio di produzione. E cosa successe? Questo è molto importante dirlo. Questi documentari che, ripetiamo, non erano belli perchè sentiamo di non essere dei grandi documentaristi, ci permisero però di andare in giro per l'Italia, in particolare nel sud, in Sicilia, dove facemmo anche alcuni documentari per i sindacati, quindi conoscemmo un po' la Sicilia. Il cinema era uno strumento per entrare in contatto con delle realtà che allora, oggi è diverso, veramente erano lontane, in particolare poi per dei borghesi come eravamo noi, ma comunque un po' per tutti. Veramente le distanze esistevano, non c'erano dei grandi mezzi di comunicazione ed entrare in contatto con tutto un mondo significava veramente avere il polso della situazione del nostro paese e scoprire il bisogno di raccontare le storie che andavamo scoprendo. La storia che scoprimmo è la storia di Salvatore Carnevale, in Sicilia, dove noi andammo, per via di questi documentari, a intervistare la madre, andammo nel paese dove si parlava di questo morto ammazzato che veniva ricordato quasi come Cristo, essendo stato ammazzato quasi come lui, e in ogni storia dove c'è Cristo c'è sempre anche un Giuda, quindi ci indicarono anche chi poteva essere, chi lo avevo tradito, ecc.. Insomma scoprimmo una realtà che arrivava dalla Sicilia molto forte e quando con i nostri documentari fatti nel frattempo, che erano i più brutti, guadagnammo questi venti milioni, dicemmo, 'possiamo fare il film'. Devo dire, questo è un fatto personale e lo vorrei ricordare anche ai giovani, che noi eravamo partiti dalla Toscana per fare i film, ma quando arrivò il momento di dire, 'da domani pensiamo come fare questo lungometraggio', fu come uno choc, una scoperta, come se ci sentissimo impreparati di una cosa che invece era alla base della nostra partenza. Ma, una volta fatto il salto, ci buttammo e facemmo questo film, Un uomo da bruciare, con Valentino Orsini, sulla storia di Salvatore Carnevale. Tornammo in Sicilia, con molte difficoltà e molte fatiche perchè, per esempio, ad un certo punto dovemmo andare dalle banche, e bisognava andare alla banca per ottenere dei finanziamenti, dal momento che riuscivamo ad avere anche un noleggio e un noleggio significava avere trenta milioni di cambiali che poi andavano scontate. Noi, un po' ignoranti, andammo alla Banca del Lavoro, che era quella addetta al cinema, e qui diciamo, "abbiamo trenta milioni della Cino Del Duca", che allora era una buona distribuzione, "poi abbiamo un po' di soldi nostri e quindi possiamo…". Questo signore ci guarda, eravamo noi tre, e ci dice, "scusi, lei quanto alza?". Noi lo guardiamo, "come, quanto alza". E lui di nuovo a Paolo, "e lei invece quanto alza?". E io, "se lei non ci spiega cosa dobbiamo alzare…". E lui, "no, voglio dire, lei quanti soldi alza di suo per poter garantire?". E io, "io purtroppo non alzo proprio niente". E allora non ce lo vollero scontare. Quindi il film, che nel frattempo era anche cominciato, entrò in crisi, si fermò, e fu un'estate terribile. A parte io e Paolo, anche il fatto di essere con Valentino ci dette forza, noi non volevamo assolutamente demordere e nella nostra disperata ricerca di qualcosa o di qualcuno che ci permettesse di continuare a fare il film avemmo una fortuna, perchè se nella vita c'è la sfortuna ricordatevi che c'è anche il momento della fortuna, bisogna cercarla e continuare a cercarla, e questa fu l'incontro con Giuliani De Negri, che era un produttore che aveva già fatto i film di Lizzani, ecc., era abbastanza solido, ma sempre un produttore indipendente, che vide il materiale, vide la nostra sceneggiatura e disse, "mi interessa questo cinema che fate voi perchè è il cinema che voglio fare anch'io, cioè un cinema che non si pone problemi di carattere economico o mercantile ma che vuole dire anche alcune cose". E con Giuliani facemmo il film, facemmo Un uomo da bruciare che andò al festival di Venezia e da quel momento la nostra vita, pur sempre molto difficile, ha cominciato a produrre qualcosa.

Con Un uomo da bruciare cominciano una serie di temi che torneranno spesso nel vostro cinema, almeno in quello degli anni Sessanta. Per esempio, il primo che salta all'occhio è il rapporto conflittuale fra singolo e collettività…
Paolo: Si, anche se, quando sento dire che i temi ritornano, mi sembra che i nostri film diventino una grande ripetizione di due o tre cose. Perchè quando si fa un film lo si fa perchè si pensa di dire qualcosa di assolutamente nuovo per noi e per gli altri, ed è una molla fondamentale perchè altrimenti un film non lo si può fare. Poi, vedendo negli anni i film tutti in fila e ripensandoci, perchè noi non li rivediamo mai, ma almeno ripensandoci, ci accorgiamo che è vero che la molla era questo desiderio di novità, ma che poi alla fine sono tanti capitoli di un'unica storia in cui è chiaro che tornano i vari temi. Come questo che tu dicevi del rapporto dell'individuo nei confronti della collettività, la lotta dell'uomo contro o per gli altri. Devo dire che in particolare per Un uomo da bruciare a noi interessava riscoprire, in un momento in cui il Neorealismo stava finendo e diventava un bozzetto piccolo borghese, in cui le ideologie erano molto violente e molto radicali, molto manichee, e recuperare la potenza e i limiti di un individuo nei confronti della società perchè era una cosa che sentivamo profondamente. Tanto è vero che prendemmo questo personaggio, che è un sindacalista che lotta contro la mafia e si fa anche uccidere, ma è anche un uomo pieno di difetti. E' un uomo, noi dicevamo, che è bravo, è grande in questo caso, non malgrado i suoi difetti, ma anche grazie ai suoi difetti. E perchè? Noi dicevamo che questo individuo era un po' mitomane, ma parlare di un sindacalista mitomane all'epoca per la sinistra era una cosa molto poco amata, perchè quelli dominanti erano un po' gli schemi che venivano dall'Unione Sovietica dell'eroe popolare che doveva essere buono, generoso. Invece noi, andando a fondo nella verità del personaggio che avevamo studiato, ma anche al fondo della verità nostra, ci rendevamo conto che eravamo uomini con tutti i nostri difetti e debolezze. Allora prendemmo in mano ed elaborammo questo personaggio che è un mitomane e pensa di essere una specie di Gesù Cristo, và al cinema ma non và a vedere La terra trema, và a vedere il film di quart'ordine che arrivavano a Sciara in Sicilia e gli piacciono moltissimo perchè gli piace lo spettacolo (non c'era la televisione in quell'epoca) ed è addirittura un maniaco delle immagini del cinema. Quest'uomo per riuscire a capire cosa fare, per dominare il suo rapporto con gli altri nella sua lotta usa gli strumenti anche di questi, chiamiamoli così, difetti. Tanto è vero che si muove e si rappresenta come quegli eroi cretini dei film che lui vedeva. Per cui contavano le azioni che faceva, però come ci arrivava era un tentativo da parte nostra di scavare profondamente nella verità dell'uomo. E accanto c'è la massa, la massa che allora era sempre vista come un tutto omogeneo, io sto parlando di un certo cinema tutto di un pezzo in cui i contadini che occupavano le terre, gli operai che erano in lotta erano buoni e basta. Tutto questo era vero, e sentivamo che le lotte del movimento operaio erano giuste, e lo dico ancora oggi che le pagine più alte della storia italiana dal dopoguerra ad oggi le ha scritte la storia del movimento operaio. Però erano uomini anche quelli, e allora questo rapporto di uomini con tanti altri uomini, che noi abbiamo affrontato fin da primo film, poi è rimasto, sempre senza perdere una visione, diciamo, di struttura della storia, della società, ma cercando sempre di affondare nella loro umanità. perciò questi contadini che occupavano le terre, in lotta con il nostro protagonista sono contadini anche loro pieni di difetti, di debolezze, di incapacità di dominare la storia. Tanto è vero che quando noi proiettammo questo film ad un gruppo di alti dirigenti del Partito Comunista di allora, alla fine della proiezione ci fu un grande silenzio, nessuno applaudì, ma si alzò Alicata, grande e intollerante dirigente del PCI, che disse, "voi avete usato un simbolo della classe operaia, anzi della classe contadina, per parlare dei vostri problemi borghesi che non ci riguardano. E' un'operazione che la storia condannerà". Devo dire che contro di lui invece Amendola e altri reagirono e quindi ci fu un procedimento contraddittorio nei confronti del film. Comunque questi temi uomo-massa, non visti in modo schematico, ma sempre cercando di rappresentarli come noi siamo, come sono gli uomini, è un po' l'avvio del nostro cinema.
Vittorio: Poi, per esempio, pensando ad altri due film, ecco che le cose che tu hai detto sull'individuo e la collettività, si rivelano speculari. Nel senso che in Sotto il segno dello scorpione veramente noi sentivamo che il protagonista era assolutamente la collettività, la massa, era un film corale, con tutte le sfaccettature, ma con tutta la forza di un evento che si svolgeva a livello corale e collettivo. Mentre invece San Michele aveva un gallo parlava sempre del bisogno di trasformare la realtà e di trasformarla in meglio ovviamente, cosa di cui noi abbiamo sempre parlato, di quel bisogno che gli uomini prendessero in mano il proprio destino e lottassero per questo, ma in modo diverso. Quindi il tema era lo stesso ma in Sotto il segno dello scorpione questo avviene a livello collettivo, mentre in San Michele aveva un gallo avviene invece attraverso un personaggio solo, solo perchè avendo tentato un'azione rivoluzionaria con altri uomini vive moltissimi anni in una cella di segregazione, solo con sè stesso. Allora abbiamo cercato di capire cosa voleva dire essere soli e avere in mente invece un disegno non solitario, cioè un disegno per tutti. Vi confesserò che noi ad un certo punto ci siamo resi conto che Giulio, il protagonista solo nella cella con questo suo bisogno di continuare invece ad essere in mezzo agli altri, era in fondo simile a noi perchè era ed è anche la situazione nostra e di tutti i registi come noi, o di autori come noi, che senza avere la possibilità di molti mezzi cercano però di fare con pochissime possibilità un discorso che invece sia grande e generale. Ad un certo punto ci siamo resi conto che stavamo vivendo, anche se in maniera meno tragica, la stessa situazione. E raccontammo questo Giulio Manieri che era un anarchico della fine dell'Ottocento solo in questa cella, che continua invece a voler immaginare di portare avanti in qualche modo la sua rivoluzione. Perciò si inventa addirittura che ci siano gli altri compagni con lui nella cella ed ha tutta una serie di fantasie. E lì arrivammo anche ad un'altra scoperta, dolorosa ma che fa parte del nostro destino di uomini, perchè Giulio vive nella cella, si prepara per uscire un giorno, magari non uscire per sempre, ma se non altro uscire e ritrovare altri carcerati, altri uomini come lui e pensando, una volta ritrovato il contatto con gli altri, di portare il messaggio che lui in questi dieci anni ha elaborato in solitudine. Ma quando lui esce incontra, è vero, altri rivoluzionari giovani che dovrebbero essere i suoi complici, invece si rende conto che la storia è andata avanti in una maniera molto diversa e che il suo disegno in fondo è un disegno segnato proprio dalla sua solitudine, che è un disegno in fondo superato. Ci rendemmo conto appunto allora che non c'è forza di fantasia, di individuo migliore, del più geniale, come era il nostro Giulio, che possa stare al passo con al fantasia della storia e della natura. Allora questo conflitto con la storia del mondo, degli altri, della natura e dell'individuo, questo bisogno sempre di incontrarsi e questa difficoltà di incontrarsi forse è il senso drammatico del nostro vivere.
Paolo: Dopo aver detto queste bellissime cose che abbiamo detto, anzi, che ci fai dire sui nostri film, vorrei fare un piccolo inciso che noi di solito facciamo. E' vero che nei film ci sono tutti questi temi, questa ricerca, ecc., però per noi un film è giusto, va bene quando lo spettatore che l'ha visto esce fuori dal cinema e dice, 'che bella storia mi hanno raccontato questi due fratelli toscani! Mi è proprio piaciuta questa storia!'. Poi, tornando in macchina, parla con la moglie e dice, 'però mi fa anche pensare, è vero, a questo, a questo, a quest'altro', a quello che stavamo dicendo adesso. Quello che voglio dire è che noi siamo gente che fa lo spettacolo e attraverso lo spettacolo noi cerchiamo di comunicare quello che noi pensiamo di noi stessi, e di noi stessi nel mondo in rapporto con gli altri. Ma lo spettacolo, cioè raccontare una storia, è il compito che la comunità ci ha affidato, e raccontare delle storie è un mestiere meraviglioso. A questa età qui, avendo già fatto molti film, non tanti in verità, ne abbiamo fatti solo tredici, ecco, io pensavo che 'poi quando invecchierò forse non amerò più questo mestiere'. Invece lo amo ancora di più di quando ho cominciato, per il piacere di raccontare delle storie agli altri e comunicargli anche tutti i tuoi pensieri, i tuoi grovigli e tutto quanto il resto. Alcune volte quando facciamo delle interviste si dimentica il nome di quelle verità che si spera siano nel film e che tu stai tentando di mettere in luce, si dimentica questo aspetto, e cioè che l'importante per chi vuole fare del cinema deve essere il grande desiderio di raccontare delle storie agli altri. Come una volta c'erano i grandi racconti orali, come quelli di Omero, ed erano racconti che gli uomini si tramandavano e trasformavano nel tempo quando si riunivano intorno al fuoco e si raccontavano queste storie. Ecco, per noi fare il cinema è questo come prima molla e poi viene tutto il resto.
Vittorio: Vedi, riprendendo il discorso, anche quando ci fu l'avvento della televisione avvenne un fatto importante per tutti quelli che si occupano di spettacolo e di cinema. All'inizio ci fu un momento di rifiuto. La televisione distrugge il cinema, si diceva. Invece a noi ad un certo punto ci sembrò diverso. Intanto andando in giro per l'Italia ci rendemmo conto, per esempio, che in quella Sicilia dove eravamo andati molti anni prima per Un uomo da bruciare, dove non si sapeva nemmeno chi fosse Gassmann, e non esisteva perchè non c'era la televisione, non c'era niente, non c'era il teatro, invece, grazie alla televisione, cominciava ad esserci un patrimonio comune per cui i riferimenti che noi facevamo erano dei riferimenti che venivano capiti e accettati. Addirittura quando andammo a fare Allonsanfan nelle campagne della Puglia, mi ricordo, avevamo bisogno per una scena di massa di molti contadini e com'è che riuscimmo veramente a convincerli a venire, perchè i soldi che gli si davano erano pochissimi come sempre? Perchè quelli, pochi giorni prima avevano visto proprio nel bar del loro paese San Michele aveva un gallo, l'avevano visto, lo avevano discusso e quando noi arrivammo e gli dicemmo, 'noi stiamo facendo un film così, così e così', che era Allonsanfan, 'e c'è questa scena', loro la capirono e ci seguirono. Quindi allora la televisione aveva intanto questa grande funzione, ma in più a noi ci sembrò che la televisione potesse rappresentare, in una maniera se vuoi un po' utopica, ed è chiaro che io sto parlando della televisione giusta, della televisione bella, di quella televisione che veramente va all'essenziale, quel fuoco che gli antichi accendevano nelle notti di primavera o di estate e intorno al quale la comunità si riuniva e qualcuno raccontava, intorno a questo fuoco, delle storie che riguardavano questa collettività, storie che avevano sentito dal passato e chissà da quali secoli arrivavano, ma che, raccontate in quel momento, assumevano dei significati diversi. Perchè questo oggi possiamo dire ripensando alla storia dell'affabulazione attraverso i secoli, che le storie sono pochissime, alcuni antropologi dicono che ci sono cinque o sei storie e basta, ma ogni volta che una collettività se le racconta riprende quelle strutture ma le modifica secondo le esigenze che in quel momento sono più pressanti. Allora secondo noi la televisione dovrebbe diventare una specie di quel fuoco dove tutti si raccolgono, divisi, certo, dalle case perchè ci sono le famiglie ecc., ma dove in fondo tu senti che altri vivono la stessa esperienza. Io dico la verità, io sono uno che vede la televisione, e quando c'è qualche avvenimento importante mi rendo conto che, anche se l'ho visto nell'ambito della mia famiglia, il giorno dopo andando fuori, al lavoro, per le strade, ecc., mi rendo conto che anche altri l'hanno visto, l'hanno sentito e su questo si discute. Allora quell'anima collettiva che è necessaria per lo spettacolo e che sembra frantumata dalla televisione invece si ricompone in un disegno che ha un raggio diverso. Quando facemmo Padre padrone per la televisione, vi dirò che noi pensavamo fosse un film proprio per pochi, un film su dei pastori e che, con tutti quei film americani d'amore e di passione, questo film non l'avrebbe visto nessuno. Invece quando poi abbiamo saputo che nel tempo questo film tra il piccolo schermo e il grande schermo era stato visto da un miliardo e mezzo di persone, ci siamo resi conto che forse questa nostra idea della televisione era veramente un'idea possibile e concreta. Allora cosa è successo in noi, come penso in altri, con l'avvento della televisione e quindi dell'enorme diffusione anche di un cinema che non sia soltanto mercantile? E' successo che come autori ci siamo sentiti, da una parte, più portati ad essere ancora più rigorosi nel nostro impegno, perchè quello che noi diciamo allora arriva veramente ovunque e quindi deve portare una parola che sia quella che tu pensi sia giusta, e accanto a questo, accanto al rigore del nostro impegno, la trasparenza del tuo stile, cioè non rinunciare a niente della tua ricerca, ma far si che il tuo modo di raccontare sia il più trasparente possibile, possa arrivare in maniera più diretta. Tutto questo è avvenuto in noi a livello incosciente, ma ora, ripensandolo, mi sembra che nel nostro cinema si possa veramente creare uno spartiacque da quando non avevamo ancora capito le potenzialità della televisione a quando abbiamo cominciato a percepire la televisione in questo modo. Non è un caso che dopo l'enorme diffusione della televisione, dopo qualche anno noi abbiamo fatto dei film come Good Morning Babilonia, come La notte di San Lorenzo, dove noi abbiamo cercato veramente di dare acqua, di dare spazio, di dare respiro a questo bisogno, che noi abbiamo chiamato il bisogno della affabulazione. In questo senso allora ritorna il discorso di Omero, non certo per paragonarmi ad Omero, ma per dire che il bisogno della collettività, il diritto della collettività di potersi sedere e vedere vivere la propria vita attraverso lo spettacolo è una cosa fondamentale. Noi pensiamo che lo spettacolo sia uno dei diritti fondamentali della collettività.
Paolo: Però bisogna aggiungere anche una cosa, che tutto questo desiderio di trasparenza e di affabulazione non significa mutuare allora degli stilemi di racconto che vengono, per esempio, dal cinema americano, perchè in quel senso loro sono certamente dei maestri. Loro hanno una loro realtà, una loro civiltà, hanno un loro grandissimo cinema e contemporaneamente un loro bruttissimo cinema. Noi pensiamo che gli autori europei debbano affondare il proprio lavoro dove sono le loro radici, noi dobbiamo parlare della nostra realtà, della nostra realtà di ieri e anche di quella di oggi, utilizzando certe cose e imparando anche dagli altri, ma trasformando, metabolizzando degli strumenti espressivi cinematografici che tu puoi apprendere, per esempio, dal cinema americano. Quindi non si deve rinunciare alla propria realtà perchè se ti metti a fare un cinema come quello americano lo puoi fare solo all'americana, cioè sicuramente più brutto di quello che fanno loro. Faccio un esempio. Padre padrone è un film che, come diceva Vittorio, è un film di pastori, non c'era una donna, direi che non risponde a nessuno degli elementi del grande spettacolo, ma è il nostro film che ha avuto più successo nel mondo. Quando noi andammo negli Stati Uniti presentavamo Padre padrone e ci dicevamo, 'come l'accoglieranno qua, come faranno a capire questo film?'. Allora andammo a New York, a Manhattan, dove all'università si proiettava questo film ad una moltitudine di studenti. Noi eravamo molto preoccupati perchè pensavamo che questo film, che parlava di una realtà così lontana dalla loro, non l'avrebbero potuto capire. E invece è stato molto amato e agli studenti piacque molto. Ci spiegavano questi studenti che "la solitudine del vostro pastore tra le montagne della Sardegna, è vero che è una solitudine per noi lontana, perchè noi viviamo in questa grande città, in un altro paese completamente diverso, ma è la stessa solitudine che noi proviamo qui fra i grattacieli di Manhattan, quindi è simile il bisogno di comunicazione, il bisogno di entrare in rapporto con gli altri. Questo è quindi un film che ci appartiene". Ecco, allora quando io dico che bisogna essere legati alle proprie radici, alla propria terra, significa che per essere internazionali bisogna essere provinciali, cioè bisogna non copiare, ma cercare di parlare delle verità che gli altri non conoscono. Cioè, la tua realtà non è conosciuta nelle altre parti del mondo e tu crei interesse se racconti questa tua verità. Per esempio, Fellini è il regista più famoso del mondo, andando in giro per il mondo ci siamo accorti che è famoso come la Coca Cola, in molti paesi più del Papa, ma Fellini ha sempre raccontato le storie di Rimini, di queste sue piccole realtà. Con questo non significa non cercare di apprendere dagli altri, parlo ora del cinema americano. Il cinema americano è un cinema che noi amiamo moltissimo e nelle sue punte più avanzate è di un livello straordinario. Io ho visto l'altro giorno Schindler's List e devo dire che, anche se un po' sconclusionato come sceneggiatura, è un film che mi ha appassionato immensamente e ci sento dentro un grande forza, una grande capacità cinematografica di Spielberg, che è uno di questi grandi registi che noi amiamo. Però questo non significa che noi dobbiamo fare un cinema come fanno loro, dobbiamo fare un cinema come sappiamo fare noi. Noi suscitiamo curiosità e interesse quando facciamo il nostro cinema. E poi, dato che siamo in argomento, bisogna batterci perchè il cinema europeo non venga soffocato dal cattivo cinema americano. Io sono andato in America ultimamente e mi hanno detto, parlando di alcuni titoli di film americani usciti in Italia: "Ma questi sono film per la televisione che noi non abbiamo nemmeno visto". Qui invece vengono comprati a pacchi e invadono tutte le nostre sale, per cui siamo un paese colonizzato che subisce l'invasione del cattivo cinema americano che distrugge quelle che sono le nostre possibilità e la nostra fantasia. I giovani che vanno al cinema e vedono solo cinema americano e in televisione vedono solo cinema americano cominciano a pensare, in quanto a vestiti, a cibo, ecc., che il cinema è quello americano e basta. Quindi, quando si fa un film in Europa, magari alcuni lo vedono e gli può anche piacere, ma lo considerano come un fatto diverso, un film alieno che non è il cinema, è una cosa a parte. Questo sognifica sradicarli dalle loro radici, dalla loro cultura e renderli praticamente vuoti, renderli dei colonizzati che non avranno mai la forza di affrontare la realtà internazionale. Ora c'è stata la battaglia per il GATT e il primo round l'abbiamo vinto, vedremo come si articolerà, però bisogna andare avanti in questa battaglia tenendo sempre presente un concetto, che è per rispetto al cinema americano che noi combattiamo il cinema americano, quello cattivo.
Vittorio: Riguardo al discorso delle radici, che Paolo diceva appunto "ognuno deve stare alle proprie radici", ci viene in mente una metafora. Bisogna affondare le nostre radici nella nostra terra. Perchè? Se queste radici andando veramente nel fondo della terra, scenderanno fino al centro della terra, là al centro incontreranno le radici che vengono dall'altra parte della terra, si incontreranno, si incroceranno e diventeranno le stesse radici. Per cui se tu vai al fondo della tua verità potrai incontrare anche le verità degli altri.

Quello che sorprende spesso del vostro cinema è il fatto di essere un cinema che non è incentrato solo sui personaggi, ma che dà anche una grande importanza agli spazi, ai paesaggi. Come mai, secondo voi?
Vittorio: Dunque, se uno volesse andare a guardare, a cercare di capire sè stesso e trovare delle ragioni di carattere proprio personale…chissà forse è per il fatto che il nostro primo impatto con lo spettacolo e la grande emozione per lo spettacolo è stato con l'opera lirica. In che senso? Quando noi eravamo ragazzini, se andavamo bene a scuola o prendevamo un bel voto, venivamo portati da San Miniato a Firenze a vedere l'opera. Allora il fatto che eravamo là seduti, che c'era quel telone rosso che poi si apriva e avveniva là su questo palcoscenico orizzontale tutto ciò che l'uomo può immaginare, dai sogni ai drammi, dagli amori agli odi, le guerre, questo fatto forse ha inciso chissà come anche dentro di noi, per cui il nostro cinema è spesso un cinema che, come dici, ama veramente questi spazi che in genere sono orizzontali. Questo potrebbe essere un discorso molto psicologico. Su un piano forse più sostanziale noi abbiamo parlato prima, e voi ci avete provocato su questo argomento, del rapporto fra individuo e collettività. Ecco, noi ci sentiamo fortemente anche un altro tipo di emozione, di interrogativo, cioè il rapporto dell'individuo e della collettività con la natura, cioè il grande mistero della natura. Da una parte c'è la storia degli uomini che veramente procede con ritmi vertiginosi, dall'altra c'è l'esserci della natura che invece ha ritmi biologici lentissimi, ma noi siamo uomini biologici e siamo uomini storici. Allora, per cercare di capire da dove nasce la nostra sofferenza e anche le nostre speranze e anche da dove nasciamo, sentiamo il bisogno di interrogarci su questo rapporto così drammatico tra la velocità dello sviluppo dell'individuo, della collettività, della storia e invece la lentezza, quasi l'immobilità del nostro essere uomini biologici e anche riguardo a tutto ciò che non sappiamo. Noi siamo molto fieri di ciò che abbiamo conquistato, della civiltà che abbiamo conquistato, di ciò che l'uomo e la collettività possono veramente fare come protagonisti, ma abbiamo anche la sensazione che ciò che noi sappiamo è infinitamente più piccolo di ciò che noi non sappiamo. E questo che noi non sappiamo è la natura, il grande mistero della natura. Allora ecco perchè nei nostri film, inconsciamente perchè non è un discorso preparato a tavolino, sentiamo il bisogno, da una parte, di andare sul primo piano del personaggio, cercando veramente di carpire con la macchina da presa il segreto di un individuo, di un gruppo di uomini, e poi improvvisamente invece con un campo lungo o lunghissimo immergerli nei grandi spazi della natura sotto un cielo che sai dove comincia, ma non sai dove finisce. Allora in questo drammatico rapporto che c'è fra l'individuo, e l'uomo in generale, e la natura, nasce forse questo nostro cinema che spesso immette i nostri personaggi in paesaggi molto ampi. Fare i critici di sè stessi è però una cosa veramente molto imbarazzante.

Pensando alla narrazione, quanto pesa per voi la cultura popolare, la cultura contadina del raccontare. Per esempio nei vostri film si trovano spesso filastrocche, e questo amore per la terra…
Paolo:…Un po' l'abbiamo detto. Noi veniamo da una città, non si può dire che San Miniato sia un paese, semmai una cittadina di grandi tradizioni, una città di campagna, e abbiamo vissuto, sebbene borghesi, all'interno di una realtà contadina, che poi ora si è trasformata, ma che nella prima parte della nostra infanzia e adolescenza era ancora molto legata a questa prospettiva. Quindi la terra e la civiltà che è nata sulla terra fa parte un po' della nostra formazione. In fondo diciamo che la realtà italiana è stata una realtà rurale fino a poco tempo fa, perchè poi l'industralizzazione è stata una sovrapposizione di un concetto sbagliato di sviluppo che invece di sfruttare la grande sapienza che veniva dalla cultura contadina l'ha massacrata, l'ha distrutta. Perciò noi sentiamo che la cultura italiana deve tutto e nasce tutto dalla realtà contadina perchè il nostro paese era un paese contadino, un po' come era anche la Russia, non dico la Francia perchè invece è un'esperienza completamente diversa dal punto di vista storico. Quindi tutte quelle conquiste della cultura contadina che sono il gusto del raccontare, come dicevamo prima, cioè il gusto della affabulazione, l'uso delle filastrocche, l'uso della musica, l'uso del canto, l'uso di tramandarsi modi di dire e di rappresentazione fanno parte di una cultura che non va dimenticata, che non va riprodotta passivamente, ma va utilizzata proprio in questo nostro mestiere che è il mestiere dello spettacolo. Faccio un esempio. Siamo andati per Kaos in Sicilia. Prima di girare un film noi lo scriviamo, andiamo, facciamo i sopralluoghi, scegliamo gli attori, torniamo a Roma, ce lo riscriviamo sulla base delle emozioni che abbiamo avuto e poi andiamo a fare il film. Tra le emozioni che abbiamo avuto per questo film, mi ricordo che eravamo andati in un paese sperduto su una montagna in provincia di Ragusa, dove c'era un gruppo di filodrammatici, da cui poi abbiamo anche preso degli attori, che facevano degli spettacoli, facevano Pirandello, Marfoglio, ecc., cioè il giorno lavoravano come impiegati, contadini, ecc., e la sera recitavano, era cioè gente che come noi amava lo spettacolo. Una sera fecero una rappresentazione per noi, e in questa rappresentazione, che era l'Aiace, ad un certo punto questi attori si mettevano intorno ad una specie di ara improvvisata e facevano un balletto, un balletto molto strano, cioè si muovevano con i pugni stretti, ad un certo ritmo che ogni tanto si interrompeva, cambiava in velocità e poi ritornava a passi più lenti, che dava una sensazione di grande forza, di grande aggressività e timore degli dei o della natura. Noi volevamo chiamare un coreografo, che era Gino Landi fra l'altro, che doveva venire a fare le coreografie del nostro film. Dicemmo, "no, no, un momento, prendiamo questo balletto, chiamiamo queste persone che insegneranno agli altri a fare questo balletto". E noi a quel punto gli chiedemmo, "ma chi vi ha insegnato questo balletto?", e loro, "lo faceva mio padre, lo faceva mio nonno, è una specie di balletto che nelle nostre rappresentazioni ogni tanto appare e che non sappiamo da dove viene". Essendo in Sicilia evidentemente risale probabilmente alla Magna Grecia. Ecco, allora cosa vuol dire affondare nella cultura contadina, nella cultura della terra, io preferisco chiamarla cultura della terra? Significa recuperare degli elementi ancora forti che tu puoi utilizzare per esprimere il tuo presente. Non dimentichiamo che, lo rileggevo recentemente in Plutarco, quando ci fu una battaglia tra i Greci e i Siciliani, e vinsero i Siciliani, questi ultimi presero prigionieri i Greci che dovevano essere passati per le armi. Allora il capo dei siciliani disse: "Sarà salvato dalla morte quel prigioniero che saprà recitare almeno tre versi di Eschilo". Tu capisci allora che affondando nel passato ritrovi tante delle tue realtà.
Vittorio: Questo non significa che la cultura contadina sia una cultura immobile e che oggi con le trasformazioni della nostra realtà praticamente ci sia bisogno di un ritorno ad essa. Si tratta di costruire il nuovo su basi, su radici che sono di ieri, che ci appartengono. Se noi teniamo i piedi ben fissi su questa realtà concreta possiamo veramente affrontare anche tutte le trasformazioni che oggi sono quelle che più interessano la nostra società.
Paolo: Per esempio, i grandi ci insegnano anche questo. La terza sinfonia di Beethoven, l'ultimo tempo, che poi è una marcia funebre, è una danza popolare straordinaria che viene trasformata da Beethoven e diventa un'altra cosa, ma che nasce proprio da una canzone e un ritmo popolare che lui ha utilizzato per parlare della sua contemporaneità, trasformandola ma utilizzando alcuni archetipi, della musica in questo caso, e noi pensiamo dello spettacolo, che fanno parte della nostra natura di uomini e, in particolare, della nostra natura di italiani.
Vittorio: D'altra parte quando noi siamo andati a preparare Kaos ci siamo resi conto che in questo nostro modo di muoverci in fondo c'era qualcuno ben più grande che ci aveva preceduto, perchè volevamo raccogliere in Sicilia tutto ciò che ci veniva dai racconti di Pirandello e avevamo sul comodino in albergo le sue novelle, che conoscevamo, ma che da tempo non avevamo più letto. E invece, rileggendo le novelle, lì ci siamo resi conto che una grande messe di racconti popolari erano già raccolti da Pirandello. Infatti Pirandello non è che se li è inventati, questi non sono altro che la trascrizione moderna, diversa, pirandelliana, che è tutto dire, dei racconti che Pirandello da bambino sentiva fare dalla sua tata Maristella, una donna del popolo che lo accompagnava a scuola, alla sera lo metteva a letto e gli raccontava le storie della sua tribù, diciamo, che era delle campagne siciliane. Pirandello si ricorda di queste storie e le riimmette in una realtà assolutamente diversa, frantumata che è il mondo di Pirandello, ma la grandezza di Pirandello sta proprio in questo incontro fra questo passato, che è ancora pieno di umori, e la realtà drammatica e tragica del suo tempo. Tutt'oggi quella di Pirandello continua ad essere una realtà che dà molta luce anche se una luce funesta sulla nostra vita.
Paolo: Detto questo il nostro prossimo film sarà un film di fantascienza (risate, ndr.).

Un'altro aspetto importante del vostro cinema mi sembra il rapporto con la musica e l'utilizzo particolare del sonoro…
Paolo:…Si, la musica per noi, un po' per il racconto che faceva Vittorio dell'opera, è sempre stato un elemento fondamentale nella costruzione dei nostri film perchè, e questo è un discorso che vale per noi e non vale come teoria, noi sentiamo il cinema più come erede del patrimonio musicale che di quello delle arti figurative, come accade invece per altri registi, o della letteratura. Noi istintivamente nel costruire un film ci sentiamo portati a seguire più delle strutture di tipo musicale che di tipo figurativo. Tanto è vero che ogni tanto ci offrono di fare delle regie d'opera, in quanto noi amiamo molto l'opera, ma noi preferiamo fare l'opera con i nostri film che venire a fare una regia d'opera. Allonsanfan è un bel melodramma oppure altri hanno detto che San Michele aveva un gallo è un quartetto. Queste cose che sto dicendo, sia chiaro, non sono mai predeterminate. Cioè, voi ci fate una domanda, noi ci analizziamo e ci par di capire quali sono queste strutture, però non c'è mai niente di deciso prima, non è che facciamo un film e diciamo 'ora facciamo l'opera'. No, ci vengono così per la nostra formazione e i nostri amori. Quindi la struttura musicale è fondamentale nella struttura dei nostri film. Poi, detto questo, anche all'interno della costruzione musicale di un film per noi la musica, e quando dico musica intendo dire suono, e quando dico suono si dice anche silenzio, cioè tutto ciò che concerne l'udito, è importante. Noi strutturiamo il commento musicale mentre scriviamo il film. Quando scriviamo la sceneggiatura diciamo, 'andiamo avanti, qui entra questo attore, qui dice questa battuta e qui arriverà la musica', una vaga musica che poi diventerà una concreta musica. Quindi sappiamo che quella zona è affidata espressivamente alla musica, all'elemento suono, perchè appunto diciamo musica, ma diciamo anche suono e silenzio. Perchè pensiamo che il suono, parlo dei nostri film e non in generale, abbia la stessa importanza, lo stesso peso di un attore, della fotografia, cioè degli elementi che compongono i nostri film a livello figurativo. E' chiaro che quando diciamo suono, intendiamo la musica come elemento attivo della narrazione. Faccio un esempio. In Padre padrone c'era una sequenza in cui c'è una processione. Nella processione ci sono dei ragazzi che portano il santo sotto un grande tendone. Questi ragazzi desiderano partire, emigrare, abbandonare questa terra disperata e andare in Germania. Allora, mentre i patriarchi, che seguono la processione fuori, cantano gli antichi, bellissimi canti sardi della chiesa, i ragazzi sotto, ispirati da questo desiderio si mettono a cantare una canzone tedesca. La processione va e quando siamo fuori e si vede il santo si sentono i canti tradizionali, poi quando si va sotto il tendone questi ragazzi cantano la canzone in tedesco. Noi questa sequenza avevamo pensato di girarla, e in parte l'abbiamo anche un po' girata, con tanti primi piani sia dei ragazzi che cantavano in tedesco che dei patriarchi che cantavano i canti tradizionali, i quali si dovevano scontrare in questa lotta tra vecchio e nuovo, tra giovani e vecchi. Ma poi invece, andando in moviola, e anche il montaggio è un momento magico del nostro mestiere, ci siamo resi conto che montando un'unica inquadratura, un campo lungo in cui si vede la procesisone che cammina e affidando non alle facce dei vecchi o dei giovani, ma solo al suono il racconto di questo scontro, di questa battaglia che avviene tra vecchi e giovani, la scena era molto più forte. Tanto è vero che su questo campo lungo si sentono prima i canti dei vecchi, poi si sente il canto tedesco che emerge e sta per vincere, ma viene nuovamente sommerso dal canto degli anziani, allora sembra che abbia vinto la tradizione, invece a poco a poco ritorna il canto tedesco, sale, sale, cresce, il canto dei vecchi cerca di resistere finchè invece esplode il canto tedesco e hanno vinto i giovani, che infatti poi sceglieranno di abbandonare il paese, di emigrare, di andarsene…
Vittorio:…Con un suono di campane che significa 'bravi, avete vinto!'…
Paolo:…Allora a quel punto, mentre montavamo questa colonna ci dicemmo, 'ecco, questa colonna sonora ha un valore narrativo più di qualsiasi primo piano anche se lo avesse fatto Marlon Brando o un altro grande attore'.
Vittorio: Sarebbe molto noioso vivere se ogni cosa fosse sempre uguale. Invece c'è un continuo evolversi, cambiare sulla stessa strada, ma quante deviazioni devi fare, come cambia il cielo sopra la strada.

Ne I sovversivi c'è questo montaggio bellissimo, quasi jazz. Quale importanza ha il montaggio nei vostri film?
Vittorio: Fu Mario Benvenuti che, fra i primi libri che ci consigliò di leggere, aveva inserito Il montaggio di Pudovkin. Quindi diciamo che il montaggio corrisponde a quella che è una pagina musicale con le battute, il bisogno di dare ritmo al film attraverso la sua scansione. Pudovkin diceva che il senso di due inquadrature non sta nelle due inquadrature ma nella giunta che unisce le due inquadrature, che non si vede, ma è lì che scoppia il momento espressivo. Quindi montaggio significa ritmo. Poi noi abbiamo questo rapporto forte con la musica ed è chiaro che musica e montaggio vanno quasi a fondersi in un'unica realtà espressiva. Ma non saprei dirti più di quello che hai detto tu del montaggio jazz de I sovversivi e mi fa molto piacere perchè I sovversivi è un film molto lontano, è vero, è un film che risale a vent'anni fa, ma che chi conosce i nostri film ha visto soltanto ora, e ci dicono sempre 'forse è vero, forse gli altri vostri film sono più belli, ma quel film come ci appartiene, come lo sentiamo nostro!', anche perchè forse c'era questa scansione più violenta. Ecco, per noi l'idea di montaggio non è mai un'idea tecnica di montaggio. Io ricordo per I sovversivi dicevamo questo, 'noi vogliamo rappresentare una realtà che è andata in frantumi, vogliamo veramente mettere accanto tutti questi frantumi come frantumi di vetro che fanno male nel momento in cui li metti insieme, però è poi da questo male che tu riesci a capire che cosa si è rotto'. Allora quel montaggio probabilmente nasce da un'idea che non è tecnica, ma da un bisogno di riuscire ad esprimere qualcosa che era il senso del film. In altri film invece c'è il bisogno di superare la frantumazione del montaggio per arrivare ad un continuum dove invece la parola assume un ruolo fondamentale; mi ricordo in questo momento Sotto il segno dello scorpione, che è un film in cui il montaggio è abbastanza importante, un montaggio che addirittura prevede fra un'inquadratura e l'altra dei pezzi di coda nera che per noi erano fondamentali, ecco, allora anche lì è solo una questione di montaggio l'aver scelto delle piccole code nere? Si, certo è montaggio, è in moviola che noi abbiamo avuto questa idea, ma da cosa nasceva questa idea? Dal bisogno di dire in quel film, in quel momento, 'ecco, abbiamo presentato un certo momento della realtà, certi sentimenti, l'abbiamo fatto con violenza, ora vogliamo che per un attimo non si passi subito ad un'altra emozione, ma che il pubblico anche solo per un momento debba ripensare a quello che ha visto e poi passare ad altro'. In quel film io mi ricordo che, accanto a questi bisogni di montaggio di questo tipo, ad un certo punto c'è il protagonista, Gian Maria Volontè, che fa la parte del vecchio capo di un'isola che è stata post-rivoluzionaria, che invece vuol parlare di sè stesso. Allora abbiamo detto, 'qui non ci deve essere nessun taglio, la macchina da presa qui si metterà al servizio di questa confessione dolorosa che dura moltissimo'. E poi se nel film, che ha un certo ritmo, improvvisamente questo ritmo si rompe e abbiamo veramente questa lunga linea, io credo che anche quello che viene dopo nel montaggio torna ad essere di nuovo molto aggressivo. Questo nostro atteggiamento è uguale anche per l'uso dela macchina da presa. Noi usiamo poche volte il carrello, ma quando lo usiamo sentiamo che proprio perchè non è usato spesso, quando arriva invece dovrebbe avere, e si spera che lo abbia, non so se lo avrà, una grande funzione di emozione, un'emozione che arriva a livello inconscio probabilmente, ma almeno per noi che lo facciamo ha questo valore. Quindi il montaggio cambia da film a film e non nasce mai da un bisogno tecnico, ma dal desiderio di rendere il più trasparente possibile il senso, l'emozione e anche il pensiero che sta dentro un film, non dico dietro un film, ma dentro un film.

Un'altra cosa interessante del vostro cinema è la recitazione degli attori, che non è quasi mai naturalistica, ma in qualche misura rivela sempre la sua origine teatrale. Come mai?
Paolo: Non lo so se è molto teatrale. Molto teatrale è sicuramente Un uomo da bruciare perchè ricordo che prendemmo Volontè che era al suo primo film ed era un attore di teatro. E quando lavorammo con Volontè gli chiedemmo, proprio perchè il suo personaggio si rappresentava teatralmente, di potenziare al massimo gli elementi teatrali, e quindi esaltammo questa teatralità proprio perchè era legata al personaggio. In seguito non so se la recitazione dei nostri attori sia sempre stata teatrale. Noi facciamo un grosso lavoro con gli attori, però cerchiamo sempre di non sovrapporci a quello che gli attori sono. Quando si sceglie un attore lo si sceglie perchè corrisponde all'immagine che tu hai del personaggio, e quindi c'è già una scelta precisa e sai già quello che ti darà quell'attore. In più, insieme all'attore elaboriamo i vari momenti psicologici del personaggio e cerchiamo di non imporgli la nostra idea, ma di dare a lui la curiosità di scavare in sè stesso per trovare e per potenziare quello che lui è e che magari aveva tenuto nascosto fino ad allora dentro di sè e che magari proprio attraverso questo personaggio riesce a tirar fuori. Quindi utilizziamo sempre gli attori cercando di potenziarne le caratteristiche e mai violentandoli imponendogli qualcosa di nostro. E' chiaro che tutto deve poi inserirsi in un disegno generale che è quello del film e che un attore intelligente capisce e in quel senso lì allora il regista è importante perchè può pilotarlo e non farlo uscire dai binari di una certa storia, ma sempre con un grande rispetto degli attori che noi amiamo moltissimo. Ci si innamora dei propri attori perchè, anche se spesso sono tremendi, e non faccio nomi, quando si lavora in un film quelle facce, quei corpi che si muovono sono l'espressione di quella verità che tu vuoi raccontare in quel momento, e allora ci innamoriamo di tutti i nostri attori, tanto è vero che agli attori diciamo sempre 'guardate che noi siamo molto innamorati, non ne approfittate perchè allora sarebbe troppo facile e dovremmo diventare cattivi, quindi assecondate il nostro amore'. Teatrale tu dici? Non lo so.
Vittorio: Io direi questo, che il nostro cinema tende ad essere un cinema molto di sintesi, mi ricordo che agli inizi dicevamo 'raccontare pochi fatti senza stare a spiegare troppi perchè'. E' un cinema di sintesi e allora è chiaro che anche agli attori tu chiedi volta a volta non di disperdersi nella chiacchiera o comunque in un comportamento, diciamo, quotidiano, naturalistico, ma ogni volta di andare al senso più profondo della scena che stanno facendo. Infatti in genere i nostri dialoghi non sono molto lunghi, le scene in fondo sono sempre molto concentrate su quello che avviene e quindi l'attore è portato naturalmente ad eliminare tutto ciò che può essere relativo e di andare proprio al succo della scena. In quel senso allora c'è una recitazione, io non direi teatrale, ma semmai antinaturalistica che tende molto alla espressività più che alla cordialità comunicativa.
Paolo: Comunque la scelta dell'attore è sempre un momento molto bello, ma anche molto angoscioso perchè giustamente diceva Hitchcock che se tu sbagli l'attore, sbagli il film. Invece se tu hai la fortuna di indovinare l'attore, il film fa subito un balzo in alto nella verità e nell'espressività. Il bello di questo mestiere è che non lo si fa da soli, cioè la novità che è il cinema sta proprio nel fatto che per fare un film hai bisogno dell'apporto creativo di tante altre persone, del direttore della fotografia, del musicista, degli attori, ecc.. A volte ci domandiamo, 'ma in un film di John Huston con Bogart dove arriva la creatività di Bogart e dove finisce quella di John Huston'? Non lo so perchè insieme hanno creato questo film o quest'opera d'arte se è un'opera d'arte. E la bellezza di questo mezzo è che tu vivi insieme agli altri e insieme agli altri costruisci una tua realtà. Questa vocazione alla collaborazione, ad usare anche la creatività degli altri in nome di una idea, evidentemente in noi è molto forte. Tanto è vero che quando abbiamo cominciato eravamo in tre e ora siamo in due, per cui fa parte della nostra natura.
Vittorio: E se si crea questa complicità con gli attori, avviene quello che era avvenuto con Giulio Brogi per San Michele aveva un gallo. Noi avevamo molto chiara la storia di questo individuo, che era divisa in tre parti, una parte esterna, una parte nella solitudine e una parte nella laguna. E quindi avendo veramente scandito i vari momenti della sua estroversità e poi della sua solitudine, ecc., parlammo con Giulio. Giulio capì perfettamente quello che noi avevamo pensato, che avevamo immaginato, e subito ci rendemmo conto che lui portava una cosa in più che noi non avevamo prevista, portava cioè la melanconia, una strana melanconia, quasi che facendo quel personaggio Giulio avesse trovato qualche punto di contatto, per noi misterioso e che ancora oggi non so quale sia, fra la sua vita, il suo destino di oggi e di domani e il destino di questo personaggio. Da qui questo senso di melanconia che veramente getta come una dolcissima, drammatica, dolente ombra su tutto quello che il personaggio fa. Ecco, allora in questo caso il rapporto con l'attore diventa un rapporto che non sta più nella chiacchiera, non sta più nell'esibizione, ma cerca veramente di scavare non solo dentro il film, ma di scavare dentro sè stessi.

Un'ultima domanda sull'infanzia, sul ruolo dei bambini nel vostro cinema…
Paolo: I bambini…Dostoievski diceva: "se hai dei problemi da risolvere non andare a chiedere consiglio ad un adulto, chiedi consiglio ad un bambino perchè il bambino nella sua ingenuità avrà la capacità di risponderti". Questo lo diceva credendoci ed è anche un paradosso, però c'è anche una profonda verità. Noi amiamo molto i bambini per questa capacità fantastica, questa ingenuità che hanno e anche questa cattiveria che portano con sè allo stato originale. Abbiamo figli, ci piacciono i bambini e li utilizziamo spesso nei nostri film perchè affidare il racconto alla presenza di un bambino ci dà una particolare libertà. Per esempio, ne La notte di San Lorenzo, quando ci è venuta l'idea che la protagonista dovesse essere una bambina di sette anni che vive l'esperienza della guerra, tragica, terribile, come era oggettivamente, e al tempo stesso potesse anche vederla deformata dalla sua fantasia di bambina, abbiamo capito che questa materia, che è stata così ben trattata dal grande cinema del dopoguerra e che nessuno osava più toccare perchè quei film erano grandi opere d'arte, questa materia che ci urgeva, ci siamo resi conto che se la raccontavamo realisticamente da una parte e al tempo stesso deformata ed esaltata dalla fantasia della bambina dall'altra, allora potevamo veramente fare questo film. Tanto è vero che il film ci pare riuscito anche per questo. Nel film si passa continuamente da una realtà concreta, oggettiva, ed è un po' un atteggiamento che si ritrova in tutti i nostri film, per poi andare nella fantasia e nella fantasticheria, e poi ritornare nuovamente alla realtà, e in questo continuo rapporto sta un po' il piacere nostro del raccontare che è anche nel nostro ultimo film, Fiorile. Per esempio, in Fiorile solamente dei bambini, gli occhi dei bambini potevano rievocare, attraverso le parole realistiche del padre che parla dei francesi che arrivarono in Toscana, le immagini di questi francesi che questa bambina vede camminare in mezzo alla campagna e li vede con gli occhi di un bambino. Tanto è vero che dopo, quando anche il fratellino, inseguendo il racconto del padre su questa famiglia che è diventata ricchissima e che aveva una grande villa e aveva dato una grande festa da ballo, se avessimo voluto seguire semplicemente il racconto del padre dal punto di vista realistico avremmo fatto vedere una festa da ballo con la musica della festa da ballo del primo Novecento. Il bambino invece dice, "ah, era una grande festa da ballo, ballavano con la musica, c'era una grande orchestra". Per un bambino di oggi l'orchestra cos'è? E' la discoteca, è il rock, non certo il valzer. Allora il bambino dice, ""ah! Era musica rock!", e il padre dice, "non è proprio così". Però a noi ha dato la possibilità di entrare con una musica irrealistica in un ambiente realistico che è quello della villa dove c'è questa festa da ballo, con la musica rock che dà una deformazione della realtà, ma che, noi pensiamo, esalta la stessa realtà, non la diminuisce.

Passando ai padri nei vostri film, secondo me c'è un padre un po' anomalo, quello de Il prato, che stranamente ancora crede nell'utopia, mentre i giovani sembrano rassegnati…
Vittorio:…Vorrei finire in maniera molto personale senza fare troppe teorie. E' chiaro che noi abbiamo avuto un padre molto importante. Noi vivevamo a San Miniato, nostro padre era l'unico della borghesia che non si era iscritto al fascio, l'unico antifascista del luogo, era mazziniano, amava l'opera, amava l'arte, era molto severo, credeva molto nella scuola e anche quando poi noi siamo cresciuti lui rimaneva mazziniano, con le sue idee, quindi c'erano anche dei contrasti fra noi che invece all'epoca eravamo dei marxisti e anche aggressivi. Quindi per noi questo padre ha contato molto. Allora se ripenso ai nostri film ora…c'è il padre di Padre padrone e il film si rifà all'esperienza di Gavino Ledda, ma è indubbio, e qui non voglio far torto al nostro padre amato, che in qualche modo abbiamo sentito che nella figura di tutti i padri c'è l'elemento dell'autorità e anche dell'autoritarismo un po' violento. Possiamo pensare che alcuni gesti, almeno due gesti che fa il nostro personaggio non sono di Gavino ma sono dei gesti che faceva nostro padre. Per esempio, il gesto di quando nostro padre ci coglieva, fra lo scherzo e no, in qualche momento di errore, ci guardava, alzava la mano in modo minaccioso e poi si grattava la testa, e invece noi facevamo così (si mette le mani sopra la testa come per ripararsi, ndr.), questo gesto torna in Padre padrone nel senso che anche attraverso nostro padre abbiamo sentito che, almeno per una generazione o comunque per una cultura vissuta fino agli anni Sessanta, la figura del padre portava con sè anche una certa violenza tipica dell'autorità, probabilmente necessaria, legata ad un certo tipo di società, ma c'era. Invece, accanto al padre di Gavino, che in qualche modo però non riuscivamo a capire, perchè l'autoritarismo, la violenza del padre di Gavino era veramente un rimbombo rispetto a quella piccola eco che noi sentivamo anche in nostro padre, c'è un altro padre, il padre che più rappresenta il nostro, quello de La notte di San Lorenzo, perchè quella storia in quella cantina è veramente la storia che noi abbiamo vissuto, mio padre era un avvocato e noi l'abbiamo trasformato in un contadino, in Galvano, così come noi due ragazzi ci siamo trasformati nella bambina, perchè è importante tornare alle proprie memorie, ma guai a farsi rinchiudere dentro la propria memoria perchè diventa nostalgia e incapacità di giudizio, mentre invece ci vuole sempre il distacco. Quindi nostro padre è diventato Galvano e fu proprio lui, nostro padre, che nel momento della grande decisione se seguire il consiglio del vescovo e credere nelle promesse dei tedeschi oppure se andare in questo inferno che era la campagna del luglio del 1944, quando uscire all'aperto significava poter essere uccisi dai tedeschi, nostro padre, che pure aveva tutta la famiglia, noi siamo cinque figli e poi c'era tutta la gente che si affidava a lui, disse, "preferisco affrontare il rischio della morte che obbedire all'ordine dei tedeschi e andare in Duomo". Ecco, noi abbiamo raccontato la forza di questo personaggio proprio grazie alla figura di nostro padre. Quindi noi quando parliamo di padre o di nostro padre pensiamo veramente alla figura di Galvano. Riguardo invece all'osservazione che avete fatto sul padre de Il prato è molto acuta, non ci ho mai riflettuto, ma mi domando, però subito ne sono anche incerto, se non è un caso che è avvenuto quando noi avevamo dei figli, non dei figli grandi, ma già ci sentivamo in un rapporto di padri noi nei confronti delle nuove generazioni, e allora questo padre che in fondo ha un passato molto ricco, ecc., e che sente anche la difficoltà del momento, il dramma che sta vivendo non solo la generazione nuova ma coinvolge anche lui, mi domando se per caso in fondo non nasca per il fatto che noi, per la prima volta, sentivamo veramente la responsabilità di essere padri nei confronti dei giovani, perchè c'è una frase che veramente è nostra, che abbiamo sentito e che è una battuta che nasce anche da una nostra sofferenza, quando il padre dice all'inizio al figlio, 'guarda, io soffro dei dolori del mondo e sono abituato a tutto, ma una sola cosa credo che non riuscirò mai ad accettare, quella di vedere invecchiare te che sei mio figlio'. Mi rendo conto che quella frase è una frase che è nata dal nostro rapporto con i nostri figli.

E il vostro rapporto con la Toscana? Nei vostri film sembra che anche se non vivete più in Toscana, essa sia comunque sempre presente nella vostra mente e nei vostri occhi…
Paolo:…anche la Sicilia veramente…Molti mi chiedono, quando vado all'estero, 'ma voi vivete a Firenze, a San Miniato, a Pisa?'. Cioè pensano che noi viviamo ancora in Toscana. Pensa invece che siamo a Roma dal 1955…
Vittorio:…Però devo dire che i ritorni sono sempre molto belli, e questo si deve molto anche al nostro lavoro, nel senso che si và nei luoghi per fare delle cose interessanti. Quando siamo andati a San Miniato per La notte di San Lorenzo, per preparare il film a parlare con la gente, ed ecco una delle ragioni per cui abbiamo fatto quel film, ci siamo resi conto che quel luglio del 1944 così preciso, così storico, ecc., era risultato qualcosa di diverso nel racconto di chi l'aveva vissuto e di chi l'aveva sentito raccontare. Era diventato un mito, ognuno se lo raccontava a modo suo, ma c'era un nucleo centrale ed era che in quel momento chi aveva saputo veramente non essere solo e prendere in pugno il proprio destino, sembrava tutto perduto, invece si è salvato. Questo era ciò che univa i racconti diversi di quei giorni di luglio. Allora da questo modo di sentire un fatto storico già come un fatto di leggenda e di mito che appartiene alla collettività è stato un'altra molla per cui abbiamo deciso di fare La notte di San Lorenzo. Ma anche ora quando siamo andati per Fiorile, avevamo bisogno dei rapporti con la campagna, ecc., abbiamo trovato proprio nella campagna, in chi lavora la terra una collaborazione e una grande cultura anche di cinema. Perchè noi, quando chiedevamo dove trovare certe terre e parlavamo con i fattori, e quando dico fattori magari noi intendiamo quelli di una volta, con i baffoni, mentre invece oggi sono dei giovani che hanno fatto Agraria all'università, che sanno tutto di tecnica, ecc., ci accorgevamo che erano ancora assolutamente legati alla terra da un rapporto di innamoramento e nello stesso tempo erano già uomini di scienza. Da parte loro abbiamo avuto veramente una grande collaborazione di entusiasmo legata anche al fatto che avere un rapporto con il nostro cinema è un fatto vero, creativo. Per cui tornare ogni volta in Toscana, a parte quando si vanno a trovare gli amici che però è una cosa che riguarda la nostra vita personale, è una riconferma che la Toscana sembrerebbe dover autorizzare quella illusione che fra storia e natura forse si può trovare la creatività.
Paolo: Sempre a proposito del paesaggio toscano, Martin Scorsese che ha visto Fiorile in una visione privata a New York, ci ha telefonato entusiasta e allora ha organizzato una proiezione sua personale con cinquanta amici che lui ama e stima, e prima del film ha parlato del film, ecc., ecc., e queste sono state le sue parole: "Vedrete un paesaggio straordinario, il paesaggio toscano, ma non vi illudete, se andate in Toscana quel paesaggio non lo trovate. Dovete andare a chiamare i fratelli Taviani che vi aiutino a trovare quel paesaggio che è certamente la loro Toscana, ma è una Toscana dell'anima più che una Toscana turistica". E queste parole ci hanno fatto molto piacere anche perchè contengono una verità, cioè quando scegli un paesaggio è vero che quel paesaggio può essere oggettivamente bello e suggestivo, ma diventa bello e suggestivo se è al servizio di un'idea più ampia che è quella appunto di una verità che è la verità di ognuno di noi.

Cosa vi sentireste di dire a un giovane regista?
Paolo: E' un mestiere stupendo, lo consiglierei, ma gli direi, 'guarda, se vuoi fare il regista devi sfidare il futuro, come fare cinque anni di guerra, devi mettere in conto di andare in guerra per cinque anni. Può anche darsi però che quella guerra tu la vinca o tu la perda, ma metti in conto anche il fatto che si può perdere. Se hai la forza di affrontare questi cinque anni allora fallo, altrimenti non lo fare perchè sennò è una grande illusione'.
Vittorio: Ci sono molti che dicono, 'vado a fare il cinema e mi dò un anno di tempo'. No, assolutamente, un anno non serve. Noi diciamo per quattro anni e undici mesi e ventotto giorni devi bussare a tutte le porte, devi farle sanguinare le tue mani a forza di bussare perchè nessuno ti aprirà. Forse all'ultimo giorno del quinto anno si aprirà un piccolo usciolino e potrai entrare. Ma se tu non metti in conto questo non venire perchè andrai incontro ad un fallimento e ad un grande dolore.
Paolo: Poi ci sono alcuni giovani che hanno voglia di fare il cinema vero, sentito profondamente e quello è fondamentale. Per molti invece fare il cinema è come fare un po' un'evasione, tanto è vero che noi spesso abbiamo avuto alcune esperienze negative con degli assistenti perchè, alcuni sono diventati molto bravi, ma la maggioranza dei giovani che venivano a fare gli assistenti volontari non immaginavano la fatica inenarrabile che è fare un film e soprattutto fare gli assistenti. Tanto è vero che dopo i primi venti giorni, un mese, in genere cominciano a dire, 'sai, ci ho la mamma che sta male, dovrei andare via', e l'ottanta per cento sono spariti dopo due, tre settimane di lavoro e hanno chiaramente capito che non era un mestiere adatto a loro.
Vittorio: Finale con aneddoto tra vero e non vero, ma forse vero. Mi ricordo che quando noi alla fine abbiamo preso la valigetta e siamo partiti per Roma, ci siamo detti, io penso che sia vero, 'dunque, ci diamo non cinque, diciamo dieci anni, ma se fra dieci anni non siamo riusciti a fare un film, con gli ultimi soldi ci compriamo una pistola e ci ammazziamo tutti e due'. Questo l'abbiamo detto. Se poi l'avremmo fatto non lo so, ma noi partimmo convinti che a questo punto, al decimo anno c'era una pistola nel nostro destino.
Paolo: E io ho sempre pensato che in quel momento sarei stato io il primo a sparare a lui e poi dopo si sarebbe visto (risate, ndr.).

intervista a cura di Marcello Cella e Simonetta Della Croce