mercoledì 16 marzo 2016


Speciale di Balkania sulla quarta edizione del Balkan Florence Express, la manifestazione fiorentina organizzata da Oxfam dedicata al cinema dei Balcani Occidentali. Interviste a Simone Malavolti, storico e direttore artistico del Balkan, Dragan Von Petrovic, montatore del documentario "Goli/Naked Island" di Tiha Gudac, Marco Quinti, fotoreporter, autore, con Monica Baron, del libro fotografico "Bosnia, la memoria di oggi", e Andrea Ragona, giornalista e scrittore, autore, con Gabriele Gamberini, del libro di viaggio "Yugoland. In viaggio per i Balcani" (Ed. Beccogiallo). Musiche di Mostar Sevdah Reunion. Balkania, Radio ROARR (www.radioroarr.org) ore 16.00-20.00. Replica venerdì 18 marzo sempre alle 16.00. Da venerdì sera sarà disponibile anche il podcast. Buon ascolto con il cinema, la musica, le storie e la storia dei Balcani Occidentali...

domenica 6 marzo 2016


I Balcani occidentali fra storia e realtà
Il Balkan Florence Festival



Fra il 25 e il 27 febbraio scorso si è svolta a Firenze la quarta edizione del Balkan Florence Festival, una piccola, ma interessantissima manifestazione culturale organizzata da Oxfam, onlus internazionale fra le più attive a livello sociale nei Balcani e in altre parti del mondo, in collaborazione con la Regione Toscana, Quelli della Compagnia, il Sarajevo Film Festival e il Tirana Film Festival, dedicata al cinema dei Balcani Occidentali. La tre giorni è stata una intensa full immersion nella realtà sociale e nella storia di Serbia, Croazia, Kosovo, Slovenia e Bosnia, con rimandi molto forti a quanto sta succedendo nei Balcani anche in questi giorni. I film presentati hanno rivelato anche cinematografie molto vive sia sul piano linguistico, che produttivo, e molto interessate a riflettere sulla propria storia e sulle proprie realtà in modo molto aperto e poco ortodosso. Sul piano linguistico è difficile in molti casi fare una distinzione netta fra cinema di finzione e documentario perchè entrambi i generi vengono utilizzati dai cineasti di questi paesi in modo molto libero e personale per raccontare realtà in cui la storia viene vissuta ancora in modo molto viscerale e il passato non sembra mai passato davvero con risultati di grande qualità espressiva. 


E' il caso del bellissimo documentario della regista croata Tiha Gudac, “Goli/Naked Island” (2014), in cui la riflessione storica della giovane autrice sui lati oscuri della Jugoslavia di Tito nasce a partire dalla sua vicenda personale: la storia dell'amatissimo nonno scomparso per quattro anni dalla vita della nipote perchè incarcerato nella famigerata prigione di Goli Otok, un'isola vicino alla costa croata, in cui venivano rinchiusi gli oppositori politici del regime di Tito. Un viaggio oscuro e tormentato all'interno di una storia familiare e pubblica condotta con grande intensità dalla regista croata con la collaborazione fondamentale del montatore serbo Dragan Von Petrovic, a dimostrazione di quanto siano fittizi gli steccati nazionali e culturali imposti dalla storia.  


Un altro grande film presentato all'interno della rassegna fiorentina, il serbo “Krugovi/Circles” di Srdjan Golubovic (2013) racconta invece una storia abbastanza nota a chi si occupa di Balcani, avvenuta nel 1993, durante la guerra civile in Bosnia Erzegovina, quando, in una piccola cittadina, Treblinje, venne ucciso un soldato delle milizie serbo-bosniache dai propri commilitoni perchè aveva difeso un suo amico musulmano dalle loro angherie. Più che il fatto in sé, che comunque viene raccontato in un suggestivo flashback dilatato dalla memoria dei protagonisti, il regista serbo si sofferma sulle conseguenze dolorose di questo avvenimento sulle vite di chi è sopravvissuto, il padre del soldato, indurito dl dolore, il figlio di uno dei commilitoni assassini che si è suicidato poco tempo dopo, l'ex fidanzata emigrata in Germania insieme al figlio piccolo, in fuga da un matrimonio sbagliato e da un marito violento, aiutata proprio dall'amico musulmano salvato a suo tempo, a prezzo della vita, dalla violenza delle squadracce serbo-bosniache, e l'amico di un tempo, anch'esso emigrato in Germania, che, medico, ritrova in ospedale come paziente proprio il capo di tali famigerate milizie. Il confronto fra questi personaggi, condotto magistralmente da Golubovic, è un viaggio fra le macerie ancora fumanti di un passato che rifiuta di essere rimosso e nascosto nelle soffitte della storia. 



Una storia di vendette dalle motivazioni oscure che continua a perseguitare una madre e i suoi due figli è anche quella raccontata dal film sloveno “Drevo/The Tree” (2014) di Sonja Prosenc, raccontata dal punto di vista dei tre protagonisti, costretti a vivere una vita da reclusi in un piccolo villaggio a causa dei pericoli, mai esplicitati chiaramente, che circondano le loro vite dopo un incidente in cui è morto un amico del figlio più grande. L'incidente innesca il desiderio di vendetta della famiglia del ragazzo morto che non avrà pace fino a quando non sarà soddisfatta. Un film di grande impatto visivo e dagli intensi risvolti psicologici e simbolici grazie anche alla bella prova attoriale dei tre protagonisti. 


Oltre alla riflessione dolorosa sulla storia recente la rassegna di film presentata dal Balkan Florence Festival ha offerto anche un altro elemento tematico molto forte, quello dell'emigrazione, quella di chi dai Balcani è emigrato nei paesi del Nord Europa e quella attuale di chi dall'Africa o dai paesi arabi fugge nei Balcani o li attraversa con la speranza di approdare anch'esso in Germania o in altri paesi ricchi. 
E' questo il caso di documentari come il bellissimo “Logbook_Serbistan”(2015) del vecchio regista serbo Zelimir Zilnik, già vincitore di un Orso d'oro a Berlino nel 1969 con il film “Opere giovanili” (e autore, nell'ambito del festival, di un incontro su “Il cinema jugoslavo da Tito ai giorni nostri”) o il kosovaro “Trapped by law” (2015) di Sami Mustafa, ma anche di film di finzione anch'essi molto intensi come “Babai” (2015) del kosovaro Visar Morina o il montenegrino “Djecaci iz ulice Marska i Engelsa” (“The kids from Marks and Engels street”, 2014) di Nikola Vukcevic. 


In “Logbook_Serbistan”, girato l'anno scorso prima di quella che poi è diventata l'emergenza migranti nei Balcani, Zilnik, con uno stile registico che ricorda molto quello del “cinema verità”, segue il viaggio irto di ostacoli di due giovani emigranti africani e di un mediatore siriano lungo la strada che dalla Serbia li dovrebbe portare verso l'Ungheria, un viaggio che fornisce molti punti di riflessione dolorosi, ma spesso anche spiazzanti e umoristici, allo spettatore sulla condizione dei migranti e di chi li accoglie.  


Film dai risvolti kafkiani, se non fosse drammaticamente reale, è l'incredibile vicenda, raccontata dal documentario “Trapped by law”, di due fratelli kosovari, cantanti rap, residenti con la loro famiglia in Germania da almeno 20 anni, che da un giorno all'altro a causa di un permesso di soggiorno non del tutto in regola, vengono letteralmente deportati in Kosovo, paese in cui non hanno mai vissuto, e da cui cercano disperatamente di partire e ritornare in Germania. Fra concerti, frammenti di quotidiana vita precaria e follie burocratiche si dipana la vicenda tragicomica di questi due fratelli che per la prima volta si trovano a confrontarsi con le proprie radici familiari e culturali, prima di decidere, dopo tre anni di scontri con il muro di gomma della burocrazia migratoria, di ritornare a Germania da clandestini. 


Un percorso simile a quello dei due fratelli di “Trapped by law”, è quello seguito dal protagonista di “Babai”, un bambino di 10 anni che decide di raggiungere il padre emigrato per lavoro dal Kosovo in Germania negli anni '90, affrontando un viaggio in cui la sua caparbia ingenuità si scontra con un mondo adulto spietato. 


Mentre del tutto inverso è il viaggio affrontato da Stanko, il giovane protagonista montenegrino del film di Vukcevic, che dall'Inghilterra è costretto, dopo vent'anni, a tornare nel proprio paese d'origine a causa della morte del padre e scopre che è tutto cambiato: i suoi amici sbarcano il lunario con la malavita di Podgorica e anche la via in cui è cresciuto, “Via Marx e Engels”, ha cambiato nome e della storia comunista a nessuno importa più niente, immersi tutti in sogni straccioni di capitalismo degenerato. 


Infine della bella rassegna fiorentina vanno citati almeno altri due film documentari, “Lijepo mi je s tobom znas” (“I like that super most the best”, 2015) della regista croata Eva Kraljevic, e il bosniaco “Rus/Russian” di Damir Ibrahimovic e Eldar Emric, che preferiscono raccontare storie più intime o di personaggi che vivono ai margini della società. Il documentario della Kraljevic racconta in modo molto intenso e poetico la storia del suo rapporto bello e doloroso al tempo stesso con la sorella down fino all'inevitabile separazione. 


Mentre “Rus/Russian” è la storia tragicomica di un personaggio dagli incredibili risvolti esistenziali e narrativi: maltrattato da bambino dal padre diventa ladro e tossicodipendente fino a fuggire in Russia dove diventa milionario in modo rocambolesco per poi ritrovarsi pressochè senza dimora e vessato dagli strozzini in una malinconica Sarajevo dove ritrova sé stesso attraverso l'amore e il teatro.

Marcello Cella
Carte di Cinema
marzo 2016


Immaginando un altro cinema e un'altra vita
Riflessioni inattuali su “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado (Brasile/Italia/Francia, 2014) e “Dalla mia Terra alla Terra” di Sebastião Salgado 


“E' il desiderio di fotografare che mi spinge di continuo a ripartire. Ad andare a vedere altrove”. 
Sebastião Salgado 

Era destino forse che un instancabile viaggiatore del cinema e della vita come il regista tedesco Wim Wenders incontrasse sulla sua strada un uomo di immagini e di viaggi come il famoso fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Un uomo che ha sempre usato la luce come lo scrittore usa l'inchiostro,  ma senza la frenesia industriale di  produrre necessariamente qualcosa per un ipotetico mercato. Ciò che ha sempre mosso Salgado e Wenders è sempre stata la ricerca del senso profondo delle cose, osservando e ascoltando la realtà senza la necessità di avere preventivamente un punto di vista da difendere e dimostrare attraverso la propria opera. Il che non vuol dire produrre immagini senza etica, ma costruendo una morale delle immagini a contatto diretto con le realtà con cui si viene a contatto, condividendo modi di vita e riflessioni sul mondo che non diventano mai dogmi, ma nuovi punti di partenza da cui riprendere il viaggio. Senza fretta. Prendendosi tempo. Aspettando che qualcosa accada. Perchè qualcosa accade sempre.


“Chi non ama aspettare non può diventare fotografo (...) Bisogna saper assaporare la pazienza”. 
Sebastião Salgado 

Il tempo è un elemento dirimente nell'intera opera del regista tedesco che ha sempre fatto di una certa lentezza realizzativa e narrativa una cifra stilistica imprescindibile. Perchè la velocità è nemica della profondità e se si vogliono realizzare storie e immagini cariche di senso l'attesa non è mai inutile, soprattutto se si tratta di realtà che non condividono la dittatura del fare e del produrre a tutti i costi, tipiche del pensiero e della prassi dominanti nella cultura occidentale. La lentezza non significa pesantezza, ma soprattutto rispetto per ciò che si intende fotografare o filmare, oltre che per sé stessi. “Bisogna adattarsi alla velocità degli esseri umani, degli animali, della vita. Anche se il nostro mondo va molto velocemente, la vita segue un altro ordine di grandezza. E la vita va rispettata, quando la si vuole fotografare”, afferma Salgado nella sua autobiografia. 


“Le storie a lungo termine mi appassionavano più delle notizie dell'ultimo momento”. 
Sebastião Salgado 

Il risultato di questa ricerca è necessariamente un atteggiamento verso la realtà che rifugge l'estetica ipercinetica delle cosiddette “news” che rispondono esclusivamente non solo ad una logica di mercificazione della vita, ma soprattutto ad un paradigma che si potrebbe definire “pornografico”, dominante nel  mondo odierno dei  media e nella percezione comune del mondo e delle immagini. Nel senso che, come nei film e nelle immagini del porno, le news hanno l'ossessione del tempo presente (niente passato e niente futuro) e dell'azione fine a sé stessa (assenza di tempi morti). Mentre la vita 
dell'uomo e della natura è fatta soprattutto di tempi morti, perchè è proprio in quella dimensione spazio-temporale apparentemente vuota che ogni cosa emerge nella propria essenzialità, nella propria inalienabile individualità, nel proprio essere necessariamente sé stessa e non altro. Come un uomo fra le dune di un deserto. O una barca in lontananza sulla superficie piatta del mare. 


“Un giorno, senza sapere come, né perchè, mi sono ritrovato ad occuparmi di temi sociali”. 
Sebastião Salgado 

In questo rispetto dei tempi e degli spazi in cui la vita umana (ma anche animale e vegetale) si svolge consiste anche la profonda eticità, e quindi politicità, delle immagini realizzate da Wenders e da Salgado. “Ogni fotografia è una scelta. Anche nelle situazioni difficili bisogna volerci stare e assumersi la responsabilità di esserci”, afferma Salgado nella sua autobiografia, svelando la propria scelta di campo che non consiste nel dimostrare una qualche tesi ideologica, ma nel mostrare nel modo più onesto possibile la realtà che si trasforma davanti ai suoi occhi. Senza far finta di essere oggettivi, perchè l'oggettività assoluta non è qualità appartenente al mondo umano e la fotografia, come il cinema, è sempre un linguaggio soggettivo. L'eterna dialettica fra ciò che sta in campo e ciò che sta fuoricampo attiene a questa continua tensione fra la soggettività di chi usa la macchina fotografica o la macchina da presa o la videocamera e la realtà in continuo movimento in cui l'autore (o gli autori) si trova immerso. La scelta quindi di mostrare la vita quotidiana dei lavoratori sfruttati, le drammatiche condizioni dei rifugiati o raccontare la vita di personaggi ai margini della società piuttosto che le magnifiche sorti e progressive divulgate quotidianamente dal potere e dai suoi media compiacenti ha molto più a che fare  con un modo di elaborare immagini e raccontare storie più vicino al  fuoricampo, in qualsiasi modo lo si voglia intendere, che ad un campo, recinto o prigione del pensiero che deresponsabilizzi l'individuo dal dovere morale di scegliere (altro che la “libertà di non scegliere”, decantata con enfasi da una pubblicità in onda su tutti i teleschermi in questi giorni). “Nessuno ha il diritto di mettersi al riparo dalle tragedie del proprio tempo, perchè siamo tutti responsabili in un certo modo di quello che succede nella società in cui abbiamo scelto di vivere”, afferma ancora Salgado. 


“Volevo fare reportage senza seguire la stretta attualità, ma per mostrare le trasformazioni in corso 
nel mondo”. Sebastião Salgado  

Il viaggio diventa quindi un elemento fondamentale sia per Wenders che per Salgado in questa spasmodica ricerca di un incontro con il mondo fuori dalle regole narrative e dalle logiche del mercato. Per entrambi raccontare il mondo significa, secondo una certa suggestione romantica da sempre intellettualmente presente in Wenders, più istintiva in Salgado, entrare nel mondo, farne parte, fondersi con esso, magari anche perdersi in esso. “Quando si fonde con il paesaggio e con la situazione che vive, la costruzione dell'immagine finisce per emergere davanti ai suoi occhi. Ma per riuscire a vederla, il fotografo deve far parte di ciò che accade. Allora tutti gli elementi si mettono a giocare con lui (...). Questa è la fotografia. A un certo punto gli elementi si collegano, le persone, il vento, gli alberi, lo sfondo, la luce”. E' allora che il racconto può cominciare, secondo una struttura che non diventa mai una gabbia in cui i personaggi muoiono nello stereotipo, ma in cui essi continuano a dialogare con ciò che sta fuoricampo, con un prima e con un dopo che impedisce di chiuderli in una monodimensionalità asfissiante e profondamente falsa. Forse per questo sia le fotografie di Salgado che i film di Wenders si ricordano soprattutto per la grande quantità di immagini di paesaggio, per i campi lunghi in cui i personaggi ritratti si immergono nello spazio circostante, alternati a primi piani mai casuali in cui essi 
sembrano in qualche modo rivolgersi direttamente allo spettatore in un dialogo muto, ma ricco di suggestioni. Immagini spesso in bianco e nero...


“La vita è a colori, ma il bianco e nero è più realistico”, Samuel Fuller in “Lo stato delle cose” (1982). 

La scelta del bianco e nero è una costante nel lavoro di entrambi gli autori. Il regista tedesco ne ha fatto una sua peculiarità, mai rinnegata, fin dai suoi primi film, ma anche Salgado lo ha sempre preferito al colore, almeno fino agli anni Duemila, quando utilizzando anche il digitale ha cominciato a lavorare anche sulle immagini a colori. Indubbiamente questa scelta non ha solo a che fare con una scelta stilistica, ma per entrambi rispecchia una posizione etica rispetto alla realtà, una particolare predilezione a concentrare la propria attenzione e quella dello spettatore sull'intensità, sulla profondità delle immagini e di ciò che ritraggono, mentre il colore tende a distrarre l'occhio dello spettatore su dettagli magari molto godibili a livello visivo, ma inevitabilmente dispersivi. E' lo stesso Salgado a spiegare bene le ragioni di questa scelta.”Con il bianco e nero e tutta la gamma dei grigi posso concentrarmi sull'intensità delle persone, sui loro atteggiamenti, sui loro sguardi, senza che siano disturbati dal colore. Certo, nella realtà niente è in bianco e nero. Ma quando guardiamo un'immagine in bianco e nero, questa entra a far parte di noi, la assimiliamo e inconsciamente la coloriamo. Penso che il potere del bianco e nero sia davvero straordinario e per questo l'ho utilizzato senza alcuna esitazione per rendere omaggio alla natura: fotografarla così era per me il modo migliore di mostrare la sua personalità, far emergere la sua dignità. Bisogna sentire la natura, bisogna amarla e rispettarla per poterla fotografare, come per le persone e gli animali. E tutto questo per me è veicolato dal bianco e nero”. Ed è questo che da sempre fornisce una particolare qualità documentaria al cinema di Wenders che in tempi recenti sembra sempre più orientato a frequentare il documentarismo anche come genere cinematografico, peraltro già ben presente nella sua cinematografia (“Lampi sull'acqua - Nick's Movie“, “Tokyo-Ga”, “Buena Vista Social Club”, “Appunti di viaggio su moda e città”, “I fratelli Skladanowsky”, “Pina”). 


“Il sale della terra” sintetizza bene le riflessioni e i temi sparsi finora in queste righe: il viaggio, il bianco e nero, il rapporto dell'uomo con il paesaggio, la dialettica fra campo e fuoricampo, tra immagini fisse e in movimento, l'importanza dell'ascolto del mondo, dell'osservazione della natura, della lentezza, il rapporto fra bellezza e giustizia sociale. Wenders lo fa utilizzando in qualche modo Salgado come suo alter ego, il quale a sua volta sembra rispecchiarsi  perfettamente nella concezione cinematografica aperta, cosmopolita e profondamente libertaria del regista tedesco. In questo affascinante gioco di specchi cinematografico i due autori dialogano e si scambiano spesso i ruoli a tal punto che spesso non si sa bene chi ritrae chi. Ma forse non è così importante saperlo. In fondo, citando ancora una volta Salgado, “una foto non parla solo di chi è ritratto, ma anche di chi ritrae”. 

Marcello Cella
Carte di Cinema
marzo 2016