sabato 15 ottobre 2022



La bellezza scaccia la vergogna

“Letizia Battaglia. Shooting the mafia”



“Ho cercato di trasformare la realtà, di piegarla a mio favore: la pancia di una donna nuda, sulla quale l’occhio si ferma, davanti ad un uomo ammazzato, che diventa marginale, ti aiuta a dimenticare quel morto, a superare quell’immagine di morte con la vita. In poche parole ho aggiunto ad una foto di morte una foto di vita. La bellezza che cancella la vergogna”

Letizia Battaglia in “Mi prendo il mondo ovunque sia”


C’è una foto, fra le tante della sterminata opera fotografica di reportage di Letizia Battaglia che racconta come poche altre il senso di tutto il suo lavoro sulle immagini della realtà. La foto si intitola “La bambina e il buio” e raffigura, nel suo fortissimo contrasto in bianco e nero, una bambina, ripresa in piena luce, su una strada di Palermo. La bambina è vestita elegante, forse deve partecipare a qualche cerimonia, non sorride ma si rivolge alla fotografa con un gesto di vanità infantile stirandosi la gonnellina plissettata. Di fianco a lei però dal buio vagamente minaccioso emerge una figura maschile. Anche lui è vestito elegante e porta un paio di occhiali scuri da sole che ne nascondono lo sguardo. Anche lui rivolge il suo sguardo verso la fotografa facendo un gesto con la mano sul fianco che ne vuole sottolineare l’autorità, la forza, una forza che si annuncia non amichevole. Dietro di lui, in secondo piano e quasi completamente immersa nel buio si avverte una figura femminile di donna matura, in una posizione che si rivela anche visivamente subalterna. Potrebbero essere i genitori della bambina o forse no. Non è importante saperlo. Quello che è invece importante è che questa fotografia sintetizza tutta l’opera della fotoreporter Letizia Battaglia che ha raccontato come pochi la sua città, Palermo, con una forza visiva impressionante, il contrasto viscerale tra il bene e il male, tra la luce e il buio per l’appunto, in un bianco e nero che non lascia scampo ad inutili estetismi. Kim Longinotto, documentarista inglese, figlia di un fotografo, con una vita tormentata alle spalle come la Battaglia e autrice da sempre attenta alle problematiche del mondo femminile, le dedica un ritratto fedele ed appassionato giocando nel titolo con il termine inglese “shooting” che si riferisce sia all’atto di fotografare, sia a quello di sparare. Alla mafia. 





Letizia Battaglia del resto è stata una temibile avversaria della mafia siciliana e soprattutto della cultura mafiosa che ne costituiva il brodo di coltura, con le sue miserie, la sua violenza, la sua sciatteria estetica, la sua ignoranza, la sua povertà culturale e valoriale. Per quanto la fotografa siciliana abbia lavorato a lungo anche a Milano e all’estero viene quasi sempre identificata e conosciuta per la sua impressionante mole di fotografie che ritraggono la sua città a cui l’ha sempre legata un rapporto viscerale di amore e odio. Quasi una malattia, come lei stessa ammette. La regista inglese concentra la sua attenzione soprattutto su questo tratto distintivo della sua opera, ma senza tralasciare altri aspetti altrettanto importanti della sua biografia raccontata in modo emozionante e spesso lancinante dalla sua stessa protagonista. Gli anni giovanili, i sogni spezzati da una cultura maschile violenta ed oppressiva, incarnata prima dal padre e poi dal marito, sposato giovanissima, il malessere psicologico che la conducono prima in clinica psichiatrica e poi in analisi, il rapporto bello e profondo con le sue figlie, l’amore per la sua città e la sua gente, soprattutto la più povera e reietta, e infine la sua salvezza, con la scoperta della fotografia a quarant’anni. 





Una passione che si trasforma in lavoro nei 19 anni passati al quotidiano palermitano di sinistra “L’Ora” e la possibilità di raccontare l’orrore della violenza mafiosa, la corruzione delle classi dirigenti siciliane colluse con gli uomini di Cosa Nostra e la terribile miseria in cui vivevano le classi sociali più povere. Un’opera, quella di Letizia Battaglia che presto trascende la cronaca nera e quella giudiziaria per raccontare una condizione umana degradata e una città che tutti i giorni deve fare i conti con la sua consolidata malattia impegnandosi nelle sue parti migliori nel tentativo estremo di contrastarla, di sanarla, di far emergere un’altra immagine di sé stessa, un’altra città possibile. E allora ecco le fotografie di Falcone e Borsellino, ritratti nei loro rari momenti di serenità, che poi la Battaglia si rifiuterà di fotografare da morti per rispetto nei loro confronti, ma anche per non fornire alla mafia alcun appiglio visivo della sua forza devastante che potrebbe in qualche modo rafforzarne l’immagine e legittimarla all’interno della società siciliana e palermitana. 






E poi l’impegno in politica, la partecipazione esaltante alla prima giunta Orlando della cosiddetta “Primavera siciliana”, eletta con i Verdi e assessore alla vivibilità urbana, con i tanti progetti piccoli e grandi realizzati in quel periodo. Ma anche, infine, l’abbandono della politica attiva, quando, eletta all’assemblea regionale si rende conto di essere stata parcheggiata in una dorata e confortevole posizione sociale, priva però di alcun potere nel cambiare la vita delle persone. E quindi il ritorno a tempo pieno alla fotografia, che continua ad essere per lei visione etica e politica, in quel rapporto viscerale con la realtà e con sé stessa che il mezzo consente e spesso pretende. “Penso che con la macchina fotografica si possa esprimere ciò che si è in una commistione unica con la realtà. Riesci ad esprimere te stesso riprendendo il mondo. Lo porti dentro, dentro una macchinetta e riesci a raccontarlo raccontando insieme te stessa. E’ qui, insomma, in questo duplice racconto, che nasce la bella fotografia”, afferma Letizia. Una bellezza che non nasce dall’estetica, ma dalla necessità di realizzare immagini che possano andare al di là del puro dovere di cronaca per trasformarsi in affresco vitale di una città, della sua storia utilizzando anche tecnicamente quegli strumenti, come il grandangolo, che le possano consentire quel corpo a corpo con la realtà, quel superamento della distanza fra macchina fotografica e realtà che è un tratto distintivo di tutta la sua opera fotografica, debitrice dichiarata del neorealismo cinematografico frequentato da giovane nelle sale cinematografiche palermitane, milanesi e parigine. 





“Consiglio di fotografare tutto da molto vicino, a distanza di un cazzotto, o di una carezza”, afferma Letizia. Perchè la realtà può essere orribile, ma può anche ritrarre e raccontare la bellezza. Come dimostra tutta un’altra parte della sua opera, quella dedicata alle bambine, a quelle  bellissime bambine palermitane vestite di stracci, ma dalla sguardo fiero e severo, che osservano l’adulta che le fotografa con uno sguardo interrogativo e duro come un atto d’accusa. Come uno sparo che infrange il vetro fragile dell’ipocrisia e denuncia senza sconti un mondo adulto che le costringe ad abbandonare i loro sogni e le loro speranze. Non ci sono attenuanti nelle bellissime e spesso terribili fotografie in bianco e nero di Letizia Battaglia, la radiografia di una sconfitta e di una speranza lanciata alle generazioni future, ma c’è sempre un atto d’amore, quello che lei racconta alla regista inglese e che condivide con i suoi amanti-complici delle sue avventure professionali, l’amore per Palermo e per la sua gente, per il suo popolo che non sempre accetta con fatalismo un destino già scritto dai potenti di turno e dai loro sgherri, ma che spesso si ribella e fa emergere la sua parte migliore con Falcone, Borsellino, Peppino Impastato, Rocco Chinnici e i tanti piccoli eroi dimenticati che Letizia racconta in “Shooting the mafia”. “La fotografia la amo e la ringrazio perchè mi ha salvata (…). Mi ha costretta a vedere l’orrore, mi ha invitato a cercare la bellezza”.



Marcello Cella




“Letizia Battaglia. Shooting the mafia”

Regia: Kim Longinotto

Produzione: Irlanda 

Anno di realizzazione: 2019

Anno di uscita: 2020

Durata: 97’

venerdì 13 maggio 2022

Il documentario di Daniele Gaglianone sul dopoguerra bosniaco racconta in modo radicale e struggente che cosa resta dopo un guerra nell’animo di chi l’ha vissuta sulla sua pelle.




Il silenzio, un pretesto per vivere
“Rata nece biti. La guerra non ci sarà” 
di Daniele Gaglianone

“Don Tonino Bello amava ripetere che i conflitti e tutte le guerre trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti. Quando cancelliamo il volto dell’altro allora possiamo far crepitare il rumore delle armi. Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non ci è permesso sfregiarne la dignità con la violenza”

Papa Francesco, “Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace”



Quello che rimane dopo una guerra è il silenzio. Anche dopo una battaglia. E’ quello che raccontano i civili scampati al massacro dell’Azovstal a Mariupol in Ucraina. Quando dopo settimane di assedio hanno potuto uscire dai sotterranei del complesso industriale bombardato incessantemente dai russi ed evacuare verso luoghi più sicuri la cosa che più li ha colpiti è stato il silenzio. Lo raccontano tutti. Il silenzio delle armi e delle bombe. Anche Daniele Gaglianone in questo documentario datato 2008, “Rata nece biti. La guerra non ci sarà”, parte da questo elemento, il silenzio. Gaglianone racconta un’altra guerra, quella che ha dilaniato l’ex Jugoslavia negli anni ’90, in particolare la Bosnia, utilizzando il silenzio per far emergere le parole dei dieci protagonisti di questa narrazione che riguarda la sopravvivenza dopo una guerra, i cambiamenti emotivi, psicologici, sociali che sempre avvengono sia a livello individuale che collettivo dopo un sanguinoso conflitto armato. “Rata nece biti” è un documentario lungo (dura quasi tre ore) e la narrazione si svolge lenta, come il fluire delle acque della Drina, il fiume bosniaco che accompagna spesso i racconti dei dieci personaggi, sopravvissuti alla guerra proprio in quelle zone di frontiera segnate dal suo corso, fra Sarajevo e la Serbia. 

Il silenzio e le parole, i volti sono i protagonisti del documentario, il silenzio dopo la fine della guerra che non è ancora pace anche perchè a certe latitudini il passato non è ancora passato e il presente fatica a colorarsi di futuro. “Volevamo indagare il presente. Ma poi ci siamo accorti che il presente non esiste perchè il passato sembra non riuscire a passare e quindi ci siamo ‘arresi’ e, come dice uno dei nostri personaggi, “qui non è finita la guerra, semplicemente non si spara più”, afferma Andrea Parena, autore del soggetto e della fotografia del film. 




E’ questa quotidianità malata, malinconica, pervasa da un senso struggente e ineluttabile di perdita che Gaglianone indaga con grande sensibilità, seguendo i suoi personaggi, il filo non sempre coerente dei loro pensieri, i loro racconti frammentati e dolorosi, il senso di un esistere che già di per sé è una forma di resistenza. La forza e l’attualità del bellissimo lavoro del regista torinese sta proprio in questa posizione di ascolto senza preconcetti, concedendo ai personaggi il tempo necessario per trovare il filo delle parole e dei pensieri e raccontarsi. Raccontarsi dentro una guerra. Il tempo prima della guerra, durante la guerra e dopo la guerra. “Ci vuole tempo: il tempo di incubazione che prepara queste guerre, poi c’è il tempo necessario a fare la guerra, ma poi c’è anche la lunghezza di questo dopoguerra infinito. (…) Questo documentario è un viaggio anche nel tempo. C’è l’immobilità del tempo interiore che, per il singolo individuo si è fermato in un certo giorno (…) ed è importante il tempo in cui io sono adesso: sono tutto immerso nel passato, quindi riesco ad essere nel presente? Posso immaginare il futuro? Ogni spostamento in questa cronologia è anche una parte della propria biografia” (Nicole Janigro). 

“La questione del tempo è centrale. La sensazione che si ha quando si è lì è di una sospensione pazzesca: il passato non è ancora passato, il presente non è ancora partito. Loro vivono in un tempo interiore che è rimasto fermo al tempo della guerra (…) Questo fa parte della sospensione della storia, dove le storie personali non riescono a trovare un’eco nella storia pubblica ” (Daniele Gaglianone). 



“Rata nece biti. La guerra non ci sarà” si/ci immerge in questa sospensione temporale, in questo spazio incerto dove l’affermarsi degli opposti nazionalismi ha fatto terra bruciata delle precedenti identità individuali e collettive utilizzando parole di guerra, manipolando linguaggi fino a deformare non solo palazzi, città e villaggi con le bombe, ma anche il senso più profondo del vivere, del vissuto quotidiano. Una vita senza punti di riferimento, senza un luogo che puoi chiamare casa o patria, straniero ovunque. 

“Karahasan appartiene a gente che si è sempre pensata Europa e scopre di non essere europea, che è stata pensata Oriente e non si è mai considerata Oriente, gente che è stata un po’ austriaca, un po’ turca, un po’ serba, un po’ balcanica. Non sono mai stati una cosa unica e un’identità monolitica: sono coinvolti in una guerra di sterminio basata sul principio di identità, e l’identità non ce l’hanno. Dovrebbero appartenere a qualcosa e non appartengono a niente” (Luca Rastello). E’ l’eterna storia dei Balcani, si dirà. E forse di tutta l’Europa dell’est, un mondo così vicino e così lontano, pieno di misteri per chi come noi occidentali si considera il centro del mondo e lontano dal pantano intriso di sangue e merda delle guerre che in quel mondo si consumano. “Per quelli della nostra generazione la guerra doveva essere altrove”, ancora Luca Rastello. 




Il merito del documentario di Gaglianone è proprio quello di deragliare progressivamente da un presunto centro narrativo per decentrarsi fisicamente e mentalmente in compagnia dei suoi personaggi in uno struggente viaggio di conoscenza che si snoda parallelamente allo sviluppo delle relazioni umane. I paesaggi principali del documentario, non a caso, sono i volti delle persone che raccontano, le emozioni che si disegnano sui loro volti e dentro i loro occhi perchè è lì il segreto più profondo di esistenze segnate da una guerra. E del resto già il vecchio maestro John Ford affermava che “il paesaggio più interessante del mondo è la faccia di un essere umano”. Anche le immagini di repertorio sono quasi inesistenti e gli eventi della storia pubblica sono evocati soprattutto mediante alcuni brani tratti dai discorsi dei politici dell’epoca inseriti solo a livello sonoro. Poche le immagini di Sarajevo e di Srebrenica che il regista centellina in una sorta di pudore che lo tiene a debita distanza da qualsiasi morbosità giornalistica da ‘turismo di guerra’. Per raccontare l’orrore di vite spezzate bastano le parole dei sopravvissuti, il racconto della loro quotidianità che non sarà mai più quella innocente e banale di prima della guerra, perché, come dice uno dei personaggi del documentario, “la guerra è una cosa che accade mentre stai guardando i Simpson”. E dopo non riuscirai più a vedere quel cartone animato con gli occhi di prima. 



Così “Rata nece biti. La guerra non ci sarà” progressivamente azzera la distanza fra chi osserva e chi è osservato e la sensazione che lo spettatore ha alla fine del film è quella di aver partecipato personalmente e profondamente ad una delle esperienze umane più forti che si possano immaginare, quella dei sopravvissuti ad una guerra, che hanno perso tutto, casa, lavoro, amicizie, affetti, progetti per il futuro e vivono in un presente che è quasi una condanna. Nulla sarà mai come prima. E anche la comoda posizione equidistante dello spettatore lontano dalla guerra non è una soluzione possibile.  

“E’ più comodo avere equidistanza, pensare che sono tutti uguali. Quindi è più comodo mettere in campo la pietà generica per la vittima generica. Me la spiego anche come una specie di pigrizia morale che trova più comodo acquietarsi dentro questo sentimento, l’orrore per la guerra, la pietà per le vittime della guerra, entrambi sentimenti generici, piuttosto che affrontare i problemi nuovi che quella guerra mette di fronte a noi” (Gianfranco Bettin). 

Perchè in fondo, come dice uno dei personaggi che Primo Levi incontra nel suo viaggio nell’inferno dei lager nazisti raccontato nel suo romanzo “La tregua”, “guerra è sempre”.


Marcello Cella



“Rata nece biti. La guerra non ci sarà”

Regia: Daniele Gaglianone

Con: Zoran Herceg, Haira Catic, Mohamed Bektic, Haira Selimovic, Aziz, Sasha, Jasmina Mameledzma, il personale dell'ICMP 

Fotografia: Andrea Parena, Daniele Gaglianone 

Montaggio: Enrico Giovannone 

Suono: Vito Martinelli 

Fonico: Angelo Galeano, Davide Favargiotti 

Organizzazione: Michele Biava 

Riprese: Daniele Gaglianone, Francesca Frigo, Pierpaolo Abbà, Andrea Parena 

Produzione: BabyDoc Film, Gianluca Arcopinto, Daniele Mittica 

Distribuzione: Derive Approdi 



Nota: le citazioni inserite nell’articolo sono tratte dal libro “Rata necé biti. La guerra non ci sarà” di Aa. Vv., Derive Approdi, 2011.





venerdì 28 gennaio 2022

 


Alla scoperta del cinema di Mauro John Capece. L’ambiguità, la denuncia, la politicità etica e estetica di un regista ancora troppo poco conosciuto, ma della stessa generazione dei vari Sorrentino, Garrone, Winspeare, Gaglianone.





L’enigma doloroso 
Il cinema di Mauro John Capece

“Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”

George Orwell


Pochi registi come Mauro John Capece sanno creare narrazioni così violentemente realistiche e allo stesso tempo così drammaticamente fantastiche e ambigue, al limite dell’horror. Anche se l’orrore che racconta il regista abruzzese classe 1974 è qualcosa che conosciamo bene, che ci appartiene perchè lo frequentiamo da molto tempo. E’ l’orrore dei rapporti di forza che continuamente si rimodulano nelle società occidentali tardo capitalistiche, delle miserie che corrodono le relazioni umane e sociali, della solitudine degli esseri umani atomizzati e abbandonati a sé stessi nella corrente impetuosa della competizione globale, l’orrore di una cultura quasi completamente mercificata che non lascia spazio alla creatività dei singoli, alla loro riflessione e pretende solo la loro sottomissione senza se e senza ma. I personaggi dei film di Mauro John Capece quasi mai riescono a riscattarsi da questo legame oppressivo con il potere del denaro, ma continuano comunque a combattere per sopravvivere all’indifferenza, all’acquiescenza, alle sottili perversioni del potere e il regista dissemina gli spazi e i tempi narrativi di crepe, di vie di fuga, di zone d’ombra, di ambiguità che lo preservano dalla retorica del cinema apertamente politico senza perdere nulla della violenza della denuncia con cui si scaglia contro lo status quo. Questo approccio realistico ed enigmatico allo stesso tempo è ben presente soprattutto nei film che costituiscono una ideale trilogia, e cioè “La scultura” (2015), “Sfashion. La neoborghese Via Crucis” (2017) e “La danza nera” (2020). 




Ne “La scultura” sono già ben presenti tutti i temi su cui Capece riflette nelle sue opere cinematografiche e narrative (è autore anche di cinque libri) da quando ha iniziato il suo percorso artistico all’inizio degli anni 2000. Il film racconta con accenti pasoliniani e sul filo di una radicale sperimentazione linguistica il rapporto che si instaura fra Mosè, uno scultore di talento, ma oberato dall’assillo del denaro che non riesce a guadagnare, e Korinne, una affascinante escort che invece di denaro facile riesce a guadagnarne parecchio con il suo mestiere. Lo scultore affitta una stanza del suo appartamento a Korinne e da quel momento inizia un gioco di attrazioni non dichiarate tra chi frequenta per mestiere una bellezza estetica quasi fuori dal tempo e dai rapporti materiali, ma a rischio di estinzione, e chi prostituisce la propria bellezza per guadagnare denaro facile e adeguarsi ai tempi malsani in cui vive. L’incontro fra i due avrà conseguenze drammatiche per lo scultore che decide di vivere l’esperienza della prostituzione, ma sarà forse la via di salvezza per Korinne che scopre l’esistenza di una bellezza interiore ancora non contaminata dalle miserie della vita quotidiana. In questo primo lungometraggio di narrazione, dopo il documentario del 2012, “In the Fabulous Underground” sulla figura di Anton Perich, grande artista newyorchese di origine croata, assimilabile per certi versi al movimento della Pop Art di Andy Warhol, Capece inizia a proporre alcune costanti tematiche e linguistiche che caratterizzano tutto il suo cinema successivo. Prima di tutto la riflessione sulla creatività delle persone costrette a vivere una vita, tipica delle società occidentali (e non solo) tardo-capitalistiche, senza spazi per la bellezza scollegata dall’opprimente mercificazione del mondo, il rapporto con il denaro che spesso costringe i singoli a scelte contronatura, disumane e alla fine anche fallimentari. A livello linguistico invece Capece inizia quella ricerca minuziosa sugli spazi, sulle superfici, sulle geometrie che rendono la materia narrativa assolutamente realistica e assolutamente ambigua allo stesso tempo, come se la simmetria esibita, “troppo” esibita, la mancanza apparente di chiaroscuri fossero di per sé rivelatori di un secondo livello di significato, non dichiarato apertamente, sfuggente e misterioso. 





Allo stesso modo in “Sfashion” Capece racconta la vicenda drammatica di Evelyn, una imprenditrice elegante, colta, creativa, al timone di una storica azienda di moda ereditata dal padre e dal nonno, che si trova improvvisamente a fare i conti con un mercato dei prezzi completamente stravolto dalla globalizzazione finanziaria e da una tassazione iniqua. Una specie di Far West senza legge e senza regole, dove ai killer non servono le pistole per uccidere gli avversari, ma basta strangolarli lentamente per farli fallire. Evelyn, interpretata, come in tutti i film di Capece, dalla magnifica Corinna Coroneo, presenza forte e inquietante, vera musa e alter ego del regista, nonché sceneggiatrice e collaboratrice preziosa, cerca in tutti i modi di resistere al tracollo finanziario, con l’aiuto concreto di un amministratore fidato, Bartolomeo, e di una sorta di presenza spirituale incarnata da un antico ulivo, piantato sul terreno di famiglia quando lei era bambina, che lei chiama Antoine, a cui confida segretamente le proprie angosce e fragilità. Alla fine la donna, abbandonata da tutti, non potrà fare altro che prendere atto del fallimento imprenditoriale e personale ed iniziare, forse, una nuova vita altrove. Restano negli occhi  e nel cuore dello spettatore un senso profondo di solitudine, incarnato dall’ostinata e silenziosa disperazione di Evelyn, che attraversa gli enormi ambienti della fabbrica come se cercasse una risposta al proprio disorientamento, una via di fuga dall’alienazione della produzione industriale e dai suoi meccanismi feroci che hanno distrutto la sua vita, i suoi affetti, la sua storia. Una presenza che accomuna in qualche modo la Evelyn di Capece a tante protagoniste femminili, inquiete e sfuggenti, dei film di Michelangelo Antonioni. 





Il terzo film della trilogia, “La danza nera”, racconta a tinte noir, la ferocia del precariato lavorativo che travolge la vita di una ballerina, Manola, laureata, lesbica e senza fissa dimora che decide di farsi giustizia da sé con il rapimento del sindaco a cui aveva chiesto aiuto in passato ricevendone solo vaghe promesse e avances non richieste. Anche in questo caso le rigida simmetria degli spazi disegnati dalla fotografia di Capece alludono ad una sofferenza inespressa, compressa nelle ipocrisie della politica-spettacolo odierna, attenta solo alla manipolazione dei media in funzione dell’acquisizione del consenso, disinteressata ai problemi concreti della gente comune e che, proprio per questo stato di cose, esplode con maggiore violenza nel momento in cui saltano tutte le mediazioni possibili. Il rapimento e la tortura del sindaco da parte di Manola è chiaramente un’azione senza futuro, destinata ad un drammatico fallimento e alla morte, un atto di ribellione prepolitico, ma un urlo di disperazione drammaticamente reale. Capece evita le trappole del film di aperta denuncia politica per raccontare in modo viscerale il drammatico deragliamento esistenziale di una persona profondamente onesta e creativa costretta a vivere in un mondo profondamente ipocrita, violento, disumano e senza neppure l’ombra di una qualsiasi creatività. A questo proposito è significativo il discorso che il direttore del teatro in cui si esibiva Manola, John Butterfly, interpretato da un inquietante Franco Nero, pronuncia sul palco dopo la scomparsa della ballerina: “Una vita non creativa vissuta accanto a persone non sensibili e non creative è forse la peggiore condanna che possa capitare ad una persona insieme alla fame, alla malattia, alla morte”. 





L’ultima opera di Mauro John Capece, “Reverse” (2021), vira invece verso il thriller giudiziario con venature horror, quindi verso un cinema più orientato verso un genere codificato, senza però che vengano meno lo stile e la ricerca poetica del regista. Il titolo allude ad una tecnica di interrogatorio utilizzata dalla polizia americana per far confessare i colpevoli di un reato. In questo caso il colpevole è un famigerato serial killer psicopatico che uccide sistematicamente le influencer con un coltello blu. Ritenuto incapace di intendere e di volere rischia però di evitare la condanna. Un’ispettrice di polizia, convinta che la sua pazzia sia solo una finzione, è incaricata di smascherarlo per ottenere una lucida confessione dei suoi omicidi. Girato quasi tutto in interni durante il lockdown, “Reverse” si avvale di una messa in scena quasi teatrale per attivare un gioco di specchi fra i due protagonisti, interpretati ancora una volta dall’enigmatica Corinna Coroneo e da Adrien Liss, altro attore feticcio del regista abruzzese, in cui vittima e carnefice si scambiano continuamente i ruoli in una sorta di partita a scacchi dove però i giocatori presto si moltiplicano e quelli dietro le quinte assumono presto il ruolo di protagonisti occulti del gioco. In questo film la riflessione sulla verità e sulla finzione, sull’ambiguità delle superfici, delle maschere e sulla misteriosa insondabilità delle passioni umane assume i toni del thriller psicologico con colpo di scena finale che ribalta completamente le convinzioni dello spettatore perchè, come recita la scritta che compare su una delle pareti spoglie in cui avviene l’interrogatorio, nonostante tutti i tentativi di occultamento della verità, “la mente non mente”. Citazione dell'omonimo titolo di un libro della psicologa Antonella Canonico in cui è possibile leggere una affermazione in qualche modo illuminante riguardo al significato profondo di questo film: “Ci sono storie che non vogliono essere raccontate. In parte perchè non voglio essere raccontate. In parte perchè sembrano così assurde che nessuno potrebbe crederci. In parte perchè il loro protagonista soffrirebbe a raccontarle. Eppure un giorno, qualcun altro le racconterà per lui. Spesso una patologia lo costringerà a farlo”.



Marcello Cella 



Filmografia minima di Mauro John Capece: 


2021 » Reverse: regia, fotografia
2020 » La danza nera: regia, soggetto, sceneggiatura, montaggio, fotografia, produzione
2016 » Sfashion: regia, soggetto, sceneggiatura
2014 » La Scultura: regia, soggetto, sceneggiatura
2012 » In the Fabulous Underground: regia, sceneggiatura 



L’intervista che segue è il frutto di una lunga chiacchierata telefonica in una fredda e umida serata di dicembre con Mauro John Capece in una pausa della lavorazione del suo nuovo film.

L’importanza del sottotesto 
e dell’ambiguità
Intervista con Mauro John Capece


Prima di tutto volevo sapere qualcosa della tua biografia, perchè ho letto che hai iniziato come scrittore.
Ho iniziato come scrittore però in realtà ho iniziato a fare foto fin da bambino. Però non era la mia strada, come non lo era quella della scrittura. Quando ho iniziato a prendere la telecamera in mano e sono andato a studiare e fare cinema in America ho capito qual era la mia strada. Sono tornato ed ho iniziato a fare film. Considera che i primi tempi della mia formazione a New York c’era Darren Aronofsky, c’era tutto un nuovo cinema d’autore molto complesso e quindi diciamo che quella matrice un po’ indie mi è rimasta un po’ dentro.
E infatti ho notato che nel tuo documentario “In the Faboulous Underground” tu racconti un po’ questa esperienza newyorkese attraverso la figura di Anton Perich, la Pop Art di Andy Warhol…
…Si, questo film è una co-regia. Ho fatto questo film perchè prima di tutto amo tantissimo New York e in quel periodo avevo fondato una specie di factory che si chiamava Minimal Cinema che poi col tempo si è sciolta e mi avevano proposto, Marco Fioramanti e Betty L’Innocente, che sono due accademici esperti della Factory di Warhol, di fare questo documentario. Quindi, con un altro regista, Claudio Romano, siamo andati a Mikulići in Croazia, città natale di Anton, e a New York e lo abbiamo girato. Ovviamente la conoscenza della città di New York e dei suoi meccanismi sono stati molto utili anche per le immagini perchè sapevo dove andare a pescare. Quindi pur essendo una produzione di tre mesi sono riuscito comunque a fare qualcosa di bello sul piano visivo. E’ stata un’esperienza estremamente formativa. Poi Anton è un maestro, crede molto nell’indipendenza di un cinema diverso ed è stato anche questo che mi ha legato molto a lui. 


Ho visto che questa riflessione sulla creatività e sul rapporto con la realtà esterna ricorre molto nel tuo cinema…
…Questo è un po’ nel dna di un cinema intellettuale che non esiste quasi più e quindi ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà degli artisti. Io sono nato senza televisione in Italia. Io negli anni ’80 -’90 non avevo la tv, amavo il cinema degli anni ’70. Quindi ero una specie di errore perchè i registi della mia generazione volevano fare la fiction, volevano girare le cose in tv, ora vogliono fare le serie. Quindi io che ero legato al cinema, al film, ero un errore palese della mia generazione. Infatti non è un caso che nel 2005 a Rotterdam eravamo io, Garrone, Sorrentino, Gaglianone, Winspeare, e io sono l’unico che non ha fatto carriera, anche se erano tutti registi diversi rispetto a quello che c’è normalmente sugli schermi cinematografici. Quindi da lì parte tutto, dal fatto che volevo fare un cinema impegnato che però, per sua stessa natura, viene sempre finanziato con i soldi pubblici. E quindi c’è stata una questua per diversi anni, finché non mi sono deciso a fare due attività,
cioè dividere la mia carriera commerciale da quella di autore, per sopravvivenza. Per questo mi sono legato agli artisti. Oggi vedo molti artisti in giro, nelle università, che vorrebbero fare qualcosa di impegnato, ma è complesso fare quel tipo di carriera. Ci vogliono più soldi per fare quel tipo di percorso che non una carriera semplice. Quindi ho creato empatia con l’arte, per esempio con la scultura…La difficoltà di uno scultore…Mi sono reso conto che la scultura è una dipendenza al pari dell’eroina perchè devi comprare i materiali, hai bisogno di spazi, di trasporti, di altre persone e non vendi nulla…
…A suo modo è una metafora del cinema…Una cosa che mi ha incuriosito è il tuo modello di ispirazione perchè tu fai meditazione trascendentale e mi chiedevo come entri questa pratica nel tuo processo creativo…
Diciamo che con le mia pratiche notturne e diurne riesco ad avere una chiarezza mentale e ricevo delle immagini. Sembra ridicolo dirlo, ma una mente sana e spirituale ha grandissima facilità di accesso al mondo delle emozioni, del perturbante, del conturbante, cioè riesce a creare con più facilità. E’ una cosa che mi viene naturale. Per esempio, ora sto girando un film su uno script che non è nemmeno mio però ho delle idee che mi derivano dalle location, dai luoghi dove sto e grazie a questa pratica riesco ad interiorizzarle. Inoltre mi dà la possibilità di essere molto calmo. Sono una persona molto calma e non perdo mai la calma neanche rispetto agli eventi atmosferici avversi, alle piogge…L’altro giorno c’è stata un’alluvione sul set e io ho cercato di risolvere il problema senza strapparmi i capelli.


Guardando i tuoi film mi viene in mente la definizione di cinema enigmatico. Ho sempre l’impressione di qualcosa che sfugge nella tua visione della realtà…
… In effetti mi piace molto il sottotesto. Non mi piace una narrazione troppo lineare anche perché questo tipo di narrazione viene richiesta nel documentario o nel cinema semplice, il simple film. A me invece piace sottrarre, mi piace giocare con lo spettatore, creare sottotesti, non essere splatter nell’esporre le cose. Per esempio, ne “La danza nera” nell’intermezzo c’è una foto che è una rielaborazione di quella di Mafia Capitale. Ma come questo ce ne sono molti altri nei miei film. Non mi piace il realismo nel cinema. Per esempio, in “Reverse” a volte mi dicono: “ma una mamma non farebbe mai così male alla sua bambina”, ma invece questa mamma si. La realtà non è poi così interessante da mitizzare. Se facciamo film non dobbiamo sempre giustificare le cose. Quindi col tempo mi sono detto: “nascondiamo alcune cose, creiamo il sottotesto, il non detto”. Le cose della sceneggiatura le incasiniamo ulteriormente e sembrano quasi sbagliate…
…Sicuramente c’è sempre questa sensazione nei tuoi film di qualcosa che sfugge, ma che in realtà ha un significato…
… Io dico sempre una cosa. Il film funziona se tu il giorno dopo ti svegli e ci ripensi. Anche   se sul momento non ti piace, se poi ti rimane qualcosa in mente…Ecco, io cerco di fare questo, di fare dei film non concilianti, ma che ti lasciano un qualcosa dentro, che ti apre…Poi il primo passo verso la spiritualità è la perturbazione, la non accettazione di una realtà sensoriale banale…
Tu hai definito i tuoi film “La scultura”, “SFashion” e “La danza nera” la trilogia della riflessione. Come mai?
Perchè questi sono stati film che ho potuto girare con una tranquillità economica, relativa perchè non avevo i budget di Sorrentino o di Garrone, però avevo una tranquillità emotiva, il team giusto, ho scoperto degli attori a cui tengo tantissimo che chiamo sempre nei miei film. Sto anche cercando di creare un piccolo mondo dietro al mio cinema, chiamando sempre le stesse persone per dare continuità ad un’opera…Però io ero partito con l’idea di fare dei film di riflessione e me lo potevo permettere grazie o ad un finanziamento pubblico, o ad un finanziamento privato, o ad un aiuto come progetti culturali. Avevo un budget che potevo utilizzare come mi pareva, non dovevo recuperare. Quindi questa cosa mi ha dato una grande libertà ed ho potuto fare dei film di riflessione. Ora sono nella fase dei film di sensazione perchè chiaramente se devo fare dei film per delle piattaforme che devono recuperare soldi non posso più permettermi di fare “La scultura”. Posso cercare di metterci qualcosa dentro, ma, per esempio, in “Reverse” è veramente complicato trovarci degli elementi fondanti a livello culturale, non c’è quasi niente. Nei due film che sto facendo sto mettendoci dentro una bellissima sceneggiatura di sensazione, ma sono film per una piattaforma. Infatti “Reverse” sta avendo successo, è candidato ai David e credo che abbia recuperato ampiamente però…Ora quindi sono nella fase della trilogia della sensazione, sono in pausa con il mio cervello, sono solo un regista visivo che gira sceneggiature che non scrivo più io fra l’altro, ma sono opera di altre persone.


Comunque anche “Reverse” è pieno di ambiguità con questo ribaltamento dei ruoli fra i due protagonisti, quasi una partita a scacchi, e quella frase scritta sul muro “la mente non mente” che è anche il titolo di un libro della psicologa Antonella Canonico, la cui tesi di fondo riguarda proprio la capacità e nello stesso tempo l’impossibilità di mentire da parte della mente nel rapporto con il corpo che la contiene…
…Si, lì poi ho avuto la fortuna di lavorare con due grandi attori, Corinna Coroneo e Adrien Liss, che riescono sempre ad emozionare me e lo spettatore. Quindi non era nemmeno facile creare un film da due soldi con questa situazione inverosimile di una poliziotta che va dal serial killer per farlo confessare. Fra l’altro avevamo anche il problema del Covid, quindi non potevamo nemmeno tanto uscire, muoverci, però ho mantenuto alcune suggestioni e ci ho messo il sottotesto dove ho potuto. Nonché un atto d’amore, nel finale, per un certo tipo di cinema degli anni Ottanta, sia nel suono che a livello visivo.
Comunque il tuo è anche un cinema di sensazione. Per esempio, “La scultura” lo trovo un film fortemente sensoriale più che narrativo. Con questi due personaggi, la escort e lo scultore, che più che personaggi di una narrazione, sembrano elementi emozionali…Ho notato poi che nei tuoi film ci sono spesso disseminati degli elementi di denuncia politica e sociale che però non sfociano mai in una denuncia esplicita, ma rimangono sempre all’interno di queste individualità. Ne “La scultura”, per esempio, quando lo scultore dice “l’Italia è un paese senza colore” o ne “La danza nera” nel personaggio di Manola, attrice precaria, impoverita e incattivita…
…Si, la denuncia sociale non mi piace. Spesso in passato ho lavorato come aiuto regista in questo tipo di film e lì le cose venivano dette. A me questo non piace. Preferisco che gli elementi di denuncia sociale vengano dedotti dallo spettatore e soprattutto che rimanga nel punto di vista di un personaggio. Il sindaco de “La danza nera” non è un genio, è un uomo semplice che incarna un po’ la classe politica che abbiamo oggi, ma è lui come personaggio, non rappresenta tutti i sindaci. Mi piace molto vedere le cose dal punto di vista dei personaggi e non possono essere sempre estremi perchè non sono dei politicanti o dei sindacalisti o degli attivisti politici. Cerco di rimanere sulla storia. Ne “La danza nera” invece mi sono spinto oltre, ho fatto qualcosa nel vecchio stile dal punto di vista della denuncia sociale…




Un altro elemento che trovo nei tuoi film è questa dialettica fra verità e menzogna, spesso attraverso la seduzione, e in questo senso la protagonista dei tuoi film, Corinna Coroneo, mi pare estremamente adatta a dare questo tipo di sensazione di ambiguità…
Si, mi piace molto l’ambiguità. Mi piacciono i colpi di scena. Nel cinema di sensazione i colpi di scena possono essere splatter, mentre nel cinema d’autore può essere qualcosa che riguarda l’animo umano. Fondamentalmente siamo tutti un po’ ambigui, diciamo spesso delle bugie, soprattutto a noi stessi. Quindi mi piace molto…
…Anche questa “lotta di classe”, per semplificare, che potrebbe scatenarsi fra i personaggi dei tuoi film si risolve spesso in uno scontro di linguaggi, di personalità inconciliabili proprio sotto questo aspetto, come accade tra Manola e il sindaco in “La danza nera”….
Si, sicuramente. L’ambiguità nei personaggi del cinema mi piace molto perchè credo che la “santità” nell’umano non esista. C’è bisogno di colpi di scena nell’interiorità dei personaggi. E’ facile far vedere uno con una pistola che spara. E’ più difficile far vedere una persona che fa qualcosa di diverso, che muta durante il film. Pensa a “Taxi driver”, al cambiamento che fa quel personaggio.
Nei tuoi film ho notato che grande importanza hanno i corpi, le superfici, anche la stessa messa in scena con queste inquadrature geometriche che però hanno sempre qualcosa di ambiguo nella loro perfezione…
…Tengo molto alla simmetria e anche all’asimmetria quando serve. In base a come è narrata una scena cerco di essere molto classico da questo punto di vista. Curo molto anche l’illuminazione e spesso faccio io stesso la fotografia perchè cerco di ottenere una luce molto particolare, una resa quasi scultorea delle superfici. Poi curo molto anche le location. Mi piace lavorare in studio ma cerco spesso di trovare delle location adatte alla storia perchè lì si sente la differenza rispetto ad un posto che non è vissuto, che non esiste. La storia di un luogo aiuta molto la scena, quindi di base cerco sempre di trovare delle location interessanti che ispirino prima di tutto me stesso e poi anche lo spettatore. 



Trovo abbastanza impressionante la location di “SFashion”, questa azienda enorme e spesso vuota che dà un senso di angoscia. Tra parentesi dove l’avete trovata questa azienda?
Hai notato bene. In questo caso dovevamo trovare un’azienda manifatturiera che avesse determinate caratteristiche, che fosse grande, che avesse un brand perchè era fondamentale. Così cercando abbiamo trovato questo maglificio Gran Sasso che aveva vinto la Triennale di architettura. Poi, certo, a volte bisogna fare i conti anche con il budget. Spesso se vieni finanziato dalle Film Commission, e qui faccio una critica al finanziamento pubblico, ti costringono a girare in quattro regioni diverse, perchè i soldi arrivano da quattro canali diversi, anche se magari non c’entrano niente con il film. E questo è un problema del cinema italiano. 
A proposito di “SFashion”, come è nato questo film che forse è uno dei più forti che hai fatto?
Questo film sostanzialmente è nato per parlare della crisi economica dei primi anni Novanta di cui si è parlato molto poco al cinema. Il cinema ha fatto finta di niente
ignorando quegli imprenditori che si ammazzavano in quel periodo o le persone che perdevano il lavoro. I veri problemi della nostra economia sono nati lì, anche nel periodo della conversione lira-euro, quando sono state permesse le delocalizzazioni delle attività economiche strategiche. Era un film politico, chiaramente. Si cerca sempre di fare i film sui drammi che riguardano le forme di disagio più evidenti, che so, sulle persone che fanno l’elemosina alla stazione che costituiscono un dramma incredibile, ma ci hanno fatto sopra almeno quattrocento film. Però anche il dramma di un imprenditore che fallisce è molto interessante perchè dietro c’è un altro tipo di narrazione che in genere nel cinema non si affronta. E non si affronta perchè c’è sempre questo problema italiano della destra e della sinistra. Per esempio, nel mio caso mi hanno accusato di aver fatto un film di destra, ma non è vero perchè poi ho fatto “La danza nera” che racconta una storia opposta. Ma questo riguarda la superficialità di certa critica italiana per cui se fai un film su un imprenditore sei di destra. Questo invece è un film che racconta il fallimento di un imprenditore sommerso dalle cartelle esattoriali…



…di un’imprenditrice che fra l’altro è una figura molto poco raccontata nel cinema italiano…
…che è anche un modo per raccontare l’emancipazione femminile che la puoi fare in due modi o raccontando personaggi femminili o dando lavoro sul set alle donne. Nel cinema italiano invece è una cosa un po’ ipocrita, è una finta emancipazione perchè c’è pieno di truccatrici, costumiste, ecc. e poi non hanno mai i ruoli principali e c’è sempre il maschio alfa dominante come protagonista. Mi piaceva giocare con il ruolo dell’imprenditrice grazie anche alla grandissima interpretazione di Corinna Coroneo. Quando abbiamo presentato il film a Montreal gli spettatori si stupivano e chiedevano: “ma in Italia state messi davvero così male?”. Beh, si, gli dicevo, abbiamo anche queste problematiche. Però era il periodo in cui molti perdevano il lavoro soprattutto nel settore manifatturiero in regioni come  Toscana, Marche, Lazio. 
Perchè gli hai messo come sottotitolo “La Neoborghese Via Crucis?”
Questo me lo ha voluto suggerire un attore che poi non ha voluto lavorare nel film, Gabriele Lavia. E quella Via Crucis che ho inserito nel film come intermezzo mi è costato come metà film. Ma mi piace inserire degli intermezzi ed è stata una cosa potente da fare.
Anche per quanto riguarda la parte sonora dei tuoi film, ho notato una grandissima cura, come per la musica elettronica di Marco Del Bene in “Reverse” o l’inserimento delle canzoni come “Lilì Marlene” o “La vie en rose” che ascolta la protagonista di “SFashion”. Che ruolo ha la musica nei tuoi film?
La musica narra molto. Diciamo che essendo io una persona che coltiva molto anche la sua anima di artista mi piace molto ascoltare la musica. Non ho dei generi precisi, ascolto tanto anche cose classiche. Poi il mio primo cortometraggio, “Il sopranista”, era un musical. Un musical triste però perchè parlava di un sopranista che veniva schifato da tutti. Quindi la musica è sempre stato un elemento fondamentale nei miei film. La prima cosa che faccio sempre è cercare un compositore con cui dialogare. Voglio conoscerlo quando c’è solo la sceneggiatura, voglio conoscere le cose che fa prima, non dopo la realizzazione del film. Il leit motiv del film lo voglio prima e poi eventualmente inserisco dei prezzi ‘storici’ come per esempio “Lilì Marlene” in “SFashion” con quei rimandi alla Seconda Guerra Mondiale, ai tedeschi, alla Merkel, con quei sottotesti per cui ci stava benissimo.



Un’altra cosa che mi ha impressionato molto dei tuoi film è come racconti la solitudine dei personaggi. E in questo senso le interpretazioni di Corinna Coroneo sono sempre molto intense…
I personaggi che hanno un contrasto con la realtà li vedo un po’ simili a me e agli artisti che conosco. Un personaggio completamente banale, troppo semplice non mi appassiona. Non riuscirei mai a fare un film dove non ci sia questo contrasto forte. Con Corinna mi sono trovato molto bene anche a livello di scrittura. Abbiamo questa cosa in comune. Lei è un’attrice drammatica pura, non la vedrei a fare commedie o a fare film più semplici di quelli che fa. Comunque per me la solitudine è importante. Poi da amante della meditazione una vita senza solitudine mi sembrerebbe anche noiosa per certi versi, anche se non è facile stare soli. Anche i miei personaggi quando sono soli, si sentono soli, soffrono. Per esempio, in “SFashion” quando la protagonista perde il suo confidente crolla tutto…
…però questi personaggi hanno una profondità che li riscatta dalla solitudine in cui vivono. Mentre invece un personaggio come il sindaco di “La danza nera”, che non riesce a stare solo, diventa una macchietta…
…quando i personaggi non hanno profondità diventano delle macchiette. E questo è anche un modo un po’ snob di vedere la questione. Ma oggi il problema principale che abbiamo in Europa è l’educazione. C’è stato un decadimento drammatico dell’educazione dovuto ad anni di tv spazzatura, di vecchi inutili, per cui i giovani fondamentalmente non hanno più la voglia di ricercare qualcosa. I personaggi che incarnano questo decadimento sono macchiette e mi piace farli vedere ancora più piatti di quello che sono, li carico molto. Mentre i personaggi più colti sono più affascinanti, più sexy, più belli, li fotografo meglio. C’è una cura diversa. 



In questo libro “La mente non mente” che ho avuto sotto mano in questi giorni c’è una cosa che in qualche modo ricollego ai tuoi personaggi perchè l’autrice sottolinea il ruolo fondamentale della sofferenza per lo sviluppo mentale. Anche i tuoi personaggi sono profondi perchè soffrono…
…la sofferenza è purificazione, è una parte della nostra vita che va accettata, va vissuta. E anche il Covid ce l’ha fatto capire. La sofferenza nobilita sia l’uomo che i personaggi…
…Io invece da educatore sono sempre molto colpito dal fatto che i giovani rifiutano totalmente questa dimensione della sofferenza…
…non hanno il piacere della malinconia, non riescono a vivere pienamente sentimenti come la nostalgia…
…forse perchè non riescono mai ad essere veramente soli con questa connessione direi quasi patologica con i mezzi elettronici…
…però stanno portando lo spettatore dove volevano loro. Pensa che anche il nuovo 007 è diventato una specie di ‘mammo’. Anche il cinema commerciale sta diventando sempre più semplice…Lo vedo anche parlando con certi produttori perchè oggi il cinema con il multiculturalismo deve essere targhetizzato anche sul livello di paesi che sono usciti dal feudalesimo solo cento anni fa. Quindi devi per forza cambiare codici. Dovevano creare una livella culturale e l’Europa con il suo livello culturale era un problema.
 
a cura di Marcello Cella