venerdì 31 luglio 2020


Anina Ciuciu, un avvocato contro l’esclusione

“Sono rom e ne sono fiera. 
Dalle baracche romane alla Sorbona” 






“Un’ora più tardi, dopo aver camminato a passo svelto, eravamo tutti raggruppati in una casa. Bisognava aspettare il passeur, che arrivò qualche minuto dopo. Posso ancora sentire il rumore degli ammortizzatori scricchiolare sul lastricato della strada. Avevamo salutato molto velocemente la nonna e tutti i familiari che non sarebbero partiti. (…) 
Non sapevamo per quanto tempo saremmo stati via, né verso cosa stessimo andando. (…) 
Tutti i nostri cari ci raccomandarono di fare attenzione, prima di abbracciarci con le lacrime agli occhi. (…)
E poi il passeur ci mise fretta. Non sembrava accomodante né molto educato. Mamma riuscì a trattenere le lacrime davanti ai parenti; io non le nascosi.
Ero triste e felice al tempo stesso. Triste di dover lasciare il nonno che amavo tanto e le due nonne che mi avevano cresciuta, triste di abbandonare il quartiere. Ed ero felice all’idea di andare in Francia, quel posto così lontano che papà ci aveva descritto come la patria di Flaubert, Corneille, Victor Hugo. Quella Francia la cui grande storia e i grandi uomini mi facevano sognare.
Salimmo sul furgone, un vecchio furgone blu scuro che emanava uno spaventoso odore di benzina. Prendemmo posto in quel camioncino, con la testa piena di sogni e convinti di arrivare presto a destinazione.
Mio padre era seduto davanti, accanto al conducente. Qualche minuto prima l’avevo visto tirare fuori dalla tasca un mazzo di banconote, dei marchi. In seguito appresi che aveva pagato cinquecento marchi a testa, all’epoca una vera fortuna: quei soldi rappresentavano un anno di stipendio e di risparmi.
In quel veicolo che non era propriamente nuovo fiammante, gli adulti e mia sorella maggiore si ammassarono sui due sedili posteriori. Io, con i miei cugini e la mia sorellina, salii sul baule, dove normalmente si mettono le valigie.
C’erano almeno dieci bambini nel bagagliaio! Dieci bambini seduti gli uni accanto agli altri, in una posizione scomoda, uno contro l’altro, ma contenti di stare insieme. Ora capivamo perché bisognava portarsi solo lo stretto indispensabile. Ma poco importava, per noi era l’inizio di una grande avventura.
Il furgoncino si mise in moto in piena notte. Ci furono lacrime,  cenni di mani, occhi arrossati. E poi la strada si allontanò…
Eravamo seduti in fondo e non potevamo evitare di guardare fuori, vedendo il nostro quartiere sparire a poco a poco. Quindi, a sua volta, la città si dissolse. Sentivamo che ci stavamo davvero allontanando da tutto ciò che conoscevamo.”



No, non si tratta di qualcuno dei numerosi migranti africani o mediorientali che attraversano invisibili le nostre terre in cerca di un futuro migliore, ma di una bambina rom, in fuga dalla povertà e dalla discriminazione che vive nel suo Paese, la Romania, verso quella che appare come la patria dei diritti dell’uomo e della cultura europea, la Francia, un luogo dove ricominciare a vivere e a fare progetti. Anche se per arrivarci dovrà passare anche attraverso il terribile Casilino 900 di Roma, il più grande campo rom d’Europa all’epoca, poi sgomberato nel 2010, con le famiglie rom divise fra i cosiddetti “villaggi” di Candoni, Salone e Gordiani, ghetti etnici non meno tremendi.
Il libro di Anina Ciuciu, “Sono rom e ne sono fiera. Dalle baracche romane alla Sorbona” (Edizioni Alegre), da cui è tratto questo brano, è del 2016, ma è stato pubblicato in Francia nel 2013. Quindi non è una novità editoriale. Ma la vicenda raccontata da Anina, con le peripezie della sua famiglia dalla Romania al tremendo campo nomadi Casilino 900 a Roma e poi ai marciapiedi della Francia per chiedere l’elemosina a passanti ostili o indifferenti, fino all’incontro cruciale con una donna di grande sensibilità e cultura che aiuterà lei e la sua famiglia ad uscire dalla povertà e dalla clandestinità e a sostenere Anina fino ai più alti gradi dell’istruzione pubblica, hanno continuato a risuonarmi dentro in questi anni ogni volta che mi è capitato di leggere i racconti di migranti in fuga dai propri paesi di origine o di raccogliere i loro racconti quando mi sono giovato dei loro servizi. Come pochi giorni fa, quando due addetti al montaggio dei mobili di una grande azienda multinazionale, un giovane tunisino e un signore più anziano marocchino, sono venuti a casa mia per montarmi un armadio che avevo acquistato e il più giovane dei due, ultimo di 12 fratelli, mi ha raccontato le sue peripezie per arrivare in Italia anni fa con la sua famiglia (moglie e tre figli) con una piccola imbarcazione a motore pagando 1500 euro a testa agli scafisti. 
Del resto il pregio di questo libro e della sua giovane scrittrice è proprio quello di raccontare e riflettere sulle proprie disavventure esistenziali non rimanendo chiusa nella propria autobiografia, ma facendo di questa sua storia personale una storia esemplare e paradigmatica di una condizione di discriminazione, di esclusione e di sfruttamento che non riguarda solo il popolo rom, ma si applica costantemente a chiunque per motivi di necessità, che sia economica o di altra natura poco importa, sia costretto a fuggire dalla propria terra alla ricerca di una vita migliore. Una condizione che ovviamente va a tutto vantaggio del paese che li “accoglie” per tutta una serie di motivi, politici, economici, sociali, ecc. che qui non importa sottolineare. Ma la bellezza e l’utilità di questo libro non sta solo nella sua denuncia circostanziata e dettagliata di questa condizione di emarginazione, supportata da una capacità di scrittura e di riflessione non comuni, ma anche nel racconto del riscatto da tale condizione, di come sia possibile, grazie ad una volontà di ferro e alla coscienza di quale possa essere la strada per la propria emancipazione e integrazione che passa necessariamente attraverso l’istruzione, la scuola, dai quaderni e dai disegni ingenui dei bambini fino ai libri che permettono di arrivare alla laurea (in giurisprudenza, nel suo caso). 
“Sono rom e ne sono fiera” non è quindi solo un libro di denuncia scagliato contro le politiche e i comportamenti discriminatori dei “gagiè”, ma anche un libro rivolto alla propria comunità di appartenenza, in particolare ai giovani, e alle giovani donne rom ancora più espressamente, perché cominci a liberarsi dagli stereotipi che gli sono stati affibbiati dalle società che (non) li accolgono, e quelli pietistici spesso non sono meno pericolosi di quelli apertamente discriminatori, e che in qualche modo paradossalmente li rassicura, li comprime e li eternizza nella propria condizione di minorità sociale ed esistenziale. Si può dire che il libro di Anina Ciuciu ne contiene due, quello che racconta le proprie drammatiche vicende personali e quello che da queste vicende trae spunto per una analisi senza sconti delle dinamiche sociali e culturali che attraversano le società occidentali quando entrano in contatto con rom e migranti, e di quelle, perverse, che specularmente si attivano all’interno delle comunità discriminate e che colpiscono soprattutto le donne che così diventano il bersaglio di tre tipi diversi di discriminazione: quella di genere, quella di classe e quella di razza. 
Anina è infatti ben cosciente che senza una liberazione, per tutti, dagli stereotipi e dalle politiche discriminatorie e xenofobe nessun passo avanti potrà mai essere fatto sulla strada dell’emancipazione del popolo rom e di tutti quei migranti che affollano invisibili, ma utilissimi, le nostre società, arricchendole con il loro lavoro, la loro cultura e con una visione del mondo che fortunatamente non si ferma alle asfittiche porte di casa nostra. 
Del resto, come scrive nella prefazione Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio che da anni si batte a Roma e altrove contro la discriminazione del popolo rom e per la valorizzazione della sua cultura, “i rom sono la più consistente minoranza presente sul territorio europeo. Nei paesi membri del Consiglio ‘Europa (47 paesi, circa 800 milioni di cittadini) gli appartenenti alle comunità rom sono stimati intorno ai 12-14 milioni di individui, mentre sono circa 6 milioni quelli che vivono all’interno dell’Unione Europea. Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa in Italia è stimata una presenza di rom e senti che oscilla tra le 160.000 e le 180.000 unità, circa lo 0,25% del totale della popolazione italiana, una tra le percentuali più basse del continente. 
Nel nostro immaginario collettivo, il più delle volte costruito e alimentato da un messaggio politico amplificato dai media, il termine “rom” si accompagna a quello di “asociale”, abitante della periferia più estrema, spettro di paure che affondano le radici nella nostra infanzia.
Eppure rispetto ai quasi 180.000 rom presenti nel nostro paese solo 35.000 vivono nei cosiddetti “campi nomadi”, in condizione di povertà, precarietà abitativa ed emarginazione sociale. I restanti risiedono in abitazioni convenzionali, lavorano, frequentano le scuole, contribuendo alla crescita  di un paese e di un continente dei quali si sentono pienamente parte. Nessuno ha una contezza esatta di quanti siano, sa dove si trovino e conosce il loro passato. Sono cittadini “mimetizzati”, che la paura di essere discriminati ha reso ombre prive di un’identità dichiarata e riconosciuta.”
Perciò “vi supplico, quando domani per strada incrocerete una signora con la schiena curva, con un cartello di cartone sulle ginocchia, quando vedrete che accanto a lei c’è seduta una bambina dai capelli lunghi e neri, non giudicatela, non insultatela, non picchiatela. 
Ho vissuto tutto questo e ne sono stata segnata a vita. Ma oggi, davanti a me, ci sono le porte della Sorbona che si aprono.”
Oggi Anina Ciuciu è un avvocato che si batte in Francia per i diritti umani di tutti coloro che vengono ingiustamente esclusi e discriminati.


Marcello Cella



La puntata di Balkania del 16 dicembre 2016 con lo speciale su Anina Ciuciu, autrice del libro "Sono Rom e ne sono fiera" (Edizioni Alregre, 2016) e protagonista di un emozionante incontro pubblico a Pisa l'8 dicembre 2016 presso la sede della locale Tavola Valdese, organizzato da una serie di associazioni di volontariato come Articolo 34, Africa Insieme, Associazione 21 luglio, Associazione Civic, Famiglia Aperta, Scuola Mondo di San Giuliano Terme e il nostro stesso programma radiofonico, Balkania. Musiche della tradizione rom.






martedì 7 luglio 2020

Una riflessione sui documentari di Giacomo Verde, videoartista, pittore, attore, regista, attivista e molto altro, recentemente scomparso.

Lo sguardo laterale 
I documentari di Giacomo Verde





“Ho sempre pensato che il valore delle immagini video sta prima di tutto nel loro essere comunque astratte. Più del cosa rappresentano è importante il come: il colore, la luminosità, il contrasto, il ritmo e la qualità del movimento interno o del montaggio, il rapporto con il suono”.
Giacomo Verde, da “Artivismo tecnologico - Scritti e interviste su arte, politica, teatro e tecnologie”, Pisa, BFS Edizioni, 2007, p.63

E’ difficile incasellare l’opera di Giacomo Verde, una di quelle personalità artistiche che sfugge sempre alle definizioni e alle mode culturali. Certo è che la sua ricerca che in più di quarant’anni di lavoro ha spaziato dall’arte al teatro, dal video al documentario, dall’attivismo politico all’analisi teorica dei linguaggi, dalla crossmedialità alla controinformazione, dalla pittura alla musica, ha rappresentato per l’asfittico e spesso opportunista panorama culturale italiano una ventata di aria fresca, con porte e finestre linguistiche aperte e sbattute in faccia al conformismo. 



Il fulcro del suo lavoro sta nell’incontro fecondo fra arte e impegno sociale e politico, fra etica ed estetica che mai ha abbandonato nel suo percorso artistico ed esistenziale, nella sua produzione di “azioni e processi” più che di oggetti. Tutta la sua opera è una continua contaminazione di linguaggi espressivi e di generi, una continua riflessione senza sconti e senza ipocrisie sui meccanismi economici, sociali e culturali che regolano le nostre società, un inesausto sforzo di liberare sguardi e menti dai pregiudizi e dai dogmi che li incatenano e gli impediscono di sperimentare la felicità che si prova nell’attraversare mondi e incontrare gli altri, l’Altro, dimenticandosi per una volta, o per sempre, del proprio Ego e confluire nella infinita creatività collettiva. Del resto la sua concezione dell’arte può essere racchiusa in una affermazione come questa: “Dipingere è qualcosa che si riferisce alla propria espressione personale (…). Preferisco fare qualcosa di più collettivizzante, interessante e utile al mondo”. 
Quindi è sempre difficile dare una paternità autoriale al suo lavoro, perché, pur non rinunciando mai ad un evidente livello interpretativo del reale mutuato dai vari linguaggi utilizzati, Giacomo Verde rifiuta il privilegio autoreferenziale nel definirsi “autore”, a favore di una creatività collettiva, il General Intellect, che si esprime negli infiniti linguaggi e materiali della vita quotidiana, nella loro poesia incontaminata dalla ragione economica. E’ qui che sua la “visione orizzontale” della società, che nega gerarchie e modelli culturali ed estetici imposti dall’alto e a senso unico si incontra con il suo costante tentativo di umanizzare la tecnologia, di democratizzarne i meccanismi, di metterli al servizio della creatività di tutti gli umani. E’ qui che sta la sua ricerca di “un’arte nascosta nelle attività quotidiane, diffusa, che sa parlare anche delle zone d’ombra senza bruciarle alla luce, che non si chiude negli spazi privilegiati di musei e gallerie nel nome di una propria “originalità”, un’arte che non inibisce, ma stimola la creatività di ogni individuo, che segue i principi di “Bellezza e Giustizia” (come scritto da James Hillman) piuttosto che i soli principi di “economia politica” e affermazione personale”. In questo senso si fatica a dedurre nella sua immensa produzione artistica qualcosa che possa essere indicato e definito esplicitamente e senza dubbio alcuno come “documentario” nel senso di un genere cinematografico dedito più di altri alla riflessione sulle realtà sociali della nostra epoca, perché tutta la sua opera potrebbe essere definita in questo modo. Non c’è una produzione espressiva di Giacomo Verde che non sia una riflessione sulla realtà sociale, culturale, politica, economica della nostra epoca utilizzando di volta in volta un determinato linguaggio, e non c’è opera di Giacomo Verde che non sia contemporaneamente una riflessione sulle modalità espressive, sulle potenzialità e i limiti di un determinato linguaggio all’interno dei meccanismi sociali in cui si manifesta. Quindi qualcosa che svela la propria natura politica non in base al tema di cui tratta, ma in base al processo da cui nasce, qualcosa che non si limita a criticare il sistema capitalistico come bersaglio culturale e artistico di denuncia, ma come processo di pensieri e azioni che ne legittimano l’esistenza anche quando apparentemente lo criticano, perché non escono da quell’individualismo “borghese”, da quella personalizzazione dell’opera d’arte che è connaturata alla concezione dell’arte e della cultura unicamente come “genere”, cioè come tassello da inserire placidamente e senza intoppi in un “mercato”. 



In questo senso anche i lavori che più decisamente possiamo definire come “documentari” non escono da questa logica espressiva e politica. “Solo limoni” (2001), “documentario poetico sui fatti del G8 di Genova del 2001”, e “S’era tutti sovversivi. Dedicato a Franco Serantini” (2002) in effetti rispondono a ciò che Giacomo Verde definisce come “documentario creativo”, cioè un’opera cinematografica che non si limita a riprendere il reale, a registrarlo nella sua, impossibile, oggettività, e che non rinuncia a proporre un proprio punto di vista, etico ed estetico, “d’autore”, inteso come entità collettiva e non individuale. Semmai, per quanto riguarda il reale, Verde cerca non di riprenderlo, ma di “sorprenderlo”, secondo quella tecnica dello “straniamento” ben esplicitata dal sociologo e mass-mediologo Mario Perniola che lo concepisce come un “trasporre l’oggetto delle propria percezione abituale in una nuova percezione imprevista e sorprendente”. 






Questa tecnica è particolarmente evidente in “Solo limoni” che racconta dal vivo e in prima persona (plurale) i drammatici avvenimenti del G8 di Genova del 2001 secondo una logica inedita e, appunto, sorprendente, sghemba rispetto alle due narrazioni dominanti di quegli avvenimenti, quella del Potere e quella, contrapposta, ma spesso speculare del Movimento. Nel libretto che accompagna la pubblicazione del video, “Il popolo dei limoni”, Giacomo Verde lo presenta in questo modo: “Abbiamo scelto di parlare di limoni. Abbiamo scelto un approccio sghembo, un punto di vista apparentemente slogato e slegato dal ferro, dal fuoco, dal fumo, dal sangue di Genova e se abbiamo scelto di parlare d’altro è stato perché fosse chiaro che era proprio di Genova che volevamo parlare, è stato perché non volevamo cadere nella trappola vetero-ideologica del presunto impegno che mortifica la forma e fa ammalare di elefantiasi i contenuti, poiché Genova è stato qualcosa che ha travolto tanto i contenuti quanto le forme del nostro pensare, del nostro agire, del nostro immaginare, del nostro assentire o del nostro ribellarci. Un attimo prima che tutto fosse definitivamente sepolto dalla polvere delle Twin Towers. Abbiamo scelto lo spostamento laterale, metonimico, per sottrarci al disinganno di chi credeva che Genova fosse solo l’inizio, mentre oggi si rivela la fine di un certo modo, di un certo mondo e dunque, ovviamente, il principio di un inizio davvero nuovo, stupefacente, terribile, imprevedibile e inevitabile”. Coerentemente con questo assunto “Solo limoni è un’opera che spiazza lo spettatore fin dall’uso spericolato e anti-realistico della colonna sonora, piena di echi e di inquietanti suoni elettronici che sembrano prefigurare il dramma collettivo che si va compiendo a livello visivo, con le cariche selvagge della polizia, i caroselli delle autoblindo, le reazioni violente dei manifestanti, i pestaggi assurdi, le incursioni dei “black bloc”, le auto incendiate, il sangue, le urla, gli insulti, fino al momento culminante della morte di Carlo Giuliani. Ma Giacomo Verde non si limita alla registrazione degli eventi e usa il livello sonoro per raccontare ciò che avviene a Genova secondo un’altra ottica, un’altra interpretazione che gli viene suggerita dai testi letterari che lo accompagnano, dal “Don Chisciotte” di Cervantes alle parole di Lello Voce, Patrick Chamoiseaux, Elio Pagliarani, Bertold Brecht, Piero Jahier, Roque Dalton, Elemire Zolla e dello stesso Giacomo Verde. Inoltre la telecamera spesso devia dall’”azione” principale e si avventura nelle strade laterali, fisiche e narrative, che inseguono spesso altri eventi apparentemente slegati dal racconto e altre contraddizioni. Come l’anziano signore che attraversa i luoghi devastati dagli scontri fra polizia e manifestanti come l’aborigeno impassibile che, durante la Seconda Guerra Mondiale, incontra i soldati americani nella foresta di Guadalcanal, in “La sottile linea rossa” di Terrence Malick, ignorandone la pericolosità e finanche l’esistenza. Nell’episodio intitolato ironicamente “Super discount”, la telecamera di Giacomo Verde si sofferma lungamente su un manifestante no global che esce da un supermercato devastato e saccheggiato trascinando un pesante carrello pieno di ogni ben di dio. Mentre, nell’episodio “Non calpestare le aiuole”, il racconto di Verde si concentra sui manifestanti che strappano i fiori da alcune aiuole e li pongono pietosamente sul sangue rappreso lasciato sull’asfalto dal cadavere rimosso di Carlo Giuliani. E potremmo continuare.  “Solo limoni” assume comunque un tono rabbioso e malinconico, come se stesse raccontando la nostalgia per la fine di qualcosa di bello e di giusto (il movimento no global con i suoi sogni di cambiamento della società) e prefigurasse un futuro oscuro. In questo senso il mistero, svelato nel finale, della foto regalata a Giacomo Verde da un manifestante, che lo ritrae insieme ad una sua amica mentre si ripara dietro un albero dai lacrimogeni della polizia, assume un significato evocativo ed esplicito: la foto infatti richiama nei colori e nella composizione il famoso quadro di Masaccio “La cacciata dal paradiso terrestre”. 







In “Solo limoni” è evidente, inotre, un’altra caratteristica del particolare documentarismo di Giacomo Verde, e cioè l’azzeramento, o comunque la forte limitazione, della distanza fra realtà e osservatore, quella distanza su cui Verde aveva già riflettuto anni prima parlando della distanza tra il quadro e l’osservatore: “La distanza tra il quadro e l’osservatore non funziona più quando “tutti siamo nel quadro”. Tutti siamo parte del tessuto audiovisivo, del flusso sensoriale che caratterizza l’esperienza contemporanea: leggere l’opera vuol dire oggi leggere sé stessi”. Ed evitare un altro rischio dell’artista e dell’arte contemporanea, il rischio dell’’artista-zombie’ “che si nutre di organismi viventi, di eventi vitali e di vita reale per trasformarli in simulacri, rappresentazioni, feticci museali, cose senza vita, decorazioni, nature morte”. L’unica via di fuga per l’artista, come per il documentarista, rimane l’immaginario. Perché “le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà, ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo (…) Nei media si tende ad utilizzare le immagini televisive come rappresentazioni del reale, non dell’immaginario”. Qui sta l’inganno, la manipolazione cui cerca di sfuggire Giacomo Verde. I suoi documentari non cercano mai di fissare nella mente dello spettatore un determinato punto di vista sulla realtà, ma semmai cercano di moltiplicare i punti di vista e dichiarano sempre esplicitamente la loro natura ibrida di realtà rappresentata, interpretata e immaginaria al tempo stesso. 
Anche in un documentario più classico nella forma come “S’era tutti sovversivi”, che racconta la storia di Franco Serantini, lo studente anarchico ucciso dalla polizia a Pisa durante una manifestazione antifascista il 7 maggio 1972 e, in filigrana, un periodo storico, il movimento del ’68 pisano con le testimonianze di molti dei suoi protagonisti, il tono disincantato e malinconico della narrazione, delle interviste e degli inserti audiovisivi di repertorio, viene in qualche modo ribaltato dal tono rabbioso e corrosivo delle musiche e dei suoni che la accompagnano e contrappuntano, con le canzoni di Paolo Pietrangeli, Caterina Bueno, Michele Straniero e Cesare Bermani. Mentre il montaggio non rinuncia agli ambigui incroci con la videoarte che donano al documentario un livello di interpretazione sotterraneo, profondo e misterioso, dove, forse, nel silenzio emblematico della riflessione, alberga il vero significato del film e degli avvenimenti che racconta, il non detto che rende “S’era tutti sovversivi” quanto mai attuale, nella sua accusa implicita contro una società ipocrita e violenta che sopprime i suoi figli migliori per mantenere ciecamente in vita un potere muscolare senza futuro e senza poesia che la conduce al disastro politico, morale e culturale. Cosa resta dunque di tanto pensare e agire, di tanta generosa ribellione alle lusinghe melmose del potere? Forse solo ciò che il potere ignora e che solo il popolo minuto riconosce come la vera ricompensa alle proprie sofferenze e delusioni, la creatività quotidiana, quelle piccole azioni e produzioni che rimangono nell’ombra dei media, quelle piccole/grandi lotte e insubordinazioni che hanno, come unica ricchezza, il profumo della libertà. Come il profumo dei limoni. 
“Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri
la nostra parte di ricchezza
Ed è l’odore dei limoni”
Eugenio Montale


Marcello Cella
















SOLO LIMONI
Documentario poetico sui fatti del G8 di Genova del 2001 
regia: Giacomo Verde
montaggio video: Fracesco Pera Turrini, Federico Carmassi
musica originale: Mauro Lupone
composizione video: Mauro Lupone, Uliano Paolozzi Balestrini, Elena Recchia, Giacomo Verde, Lello Voce
riprese video di: Giacomo Verde (giac), Teresa Paoli (ze) - Italy.IndyMedia - Uliano Paolozzi Balestrini, Pulika Calzini, Luca Tomassini, Tiziano, Lorenzo, Edoardo, Philippe, Vincent, Florence etc. - SocialPlus, Fluid video crew, Digipresse - Elena Recchia (bobò), Umberto Sebastiano, Francesco Villa - D.INK -
testi di: Giacomo Verde, Lello Voce, Patrick Chaamoiseaux, Miguel Cervantes de S.,Elio Pagliarani, Bertold Brecht, Piero Jahier, Roque Dalton, Elemire Zolla
voci fuori campo: Giacomo Verde, Lello Voce
foto di: Mirco Del Carlo
produzione: ShaKe Edizioni Underground, Reset, SeStessi Video
nazionalità: Italia
anno: 2001
durata: 44'35" 
S'ERA TUTTI SOVVERSIVI (dedicato a Franco Serantini) 
regia di Giacomo Verde 
durata: 56' / 
master: Betacam (girato in MiniDV) Pisa - Lucca, 
maggio 2002 
Produzione:
BIBLIOTECA FRANCO SERANTINI archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea Pisa / BFS EDIZIONI soc. coop. a r. l. 





Sito internet di Giacomo Verde: http://www.verdegiac.org