sabato 15 aprile 2017


Guerra è sempre
My own private war” di Lidija Zelovic

Un amaro ritorno a casa e una riflessione su ciò che ha lasciato la guerra in Bosnia dentro le persone che l'hanno vissuta.

Guerra è sempre, diceva a Primo Levi, uno dei personaggi del suo romanzo “La tregua”. E' quello che non si può fare a meno di pensare guardando lo straordinario documentario “My own private war” (La guerra in casa) della regista bosniaca Lidija Zelovic, giornalista e documentarista che vive in Olanda dopo essere fuggita nei primi anni '90 dal suo paese allo scoppio della guerra. “My own private war” è un film che racconta come pochi altri che cosa è veramente una guerra per le persone che la vivono sulla propria pelle, al di là della violenza, del sangue e merda che le caratterizza, anche dopo che l'aspetto “spettacolare” delle persone che si uccidono è finito e i riflettori dei media si sono spenti. Ognuno deve allora fare i conti con la propria guerra privata, quella che continuerà a vivere dentro di sé per sempre. Ma che cosa si perde veramente in una guerra? E' quello che in fondo si chiede la regista bosniaca per tutta la durata del film che ha un percorso solo in apparenza crepuscolare. L'inizio, con quelle immagini autunnali di Sarajevo, delle sue strade, dei suoi giardini attraversate dalla spavalda ingenuità della giovane giornalista che pone ai passanti domande naif sulle stagioni, sul tempo che cambia è qualcosa che rimane negli occhi dello spettatore per tutto il film, mentre la guerra prepara il proprio catalogo di morte e macerie materiali e morali. Ecco, forse è proprio questo che in fondo la guerra uccide dentro le persone, la possibilità di sognare, di avere fiducia negli altri e nel futuro. Lidija questo interrogativo, come spiega anche nell'intervista che segue, se l'è portato dentro per tanto, troppo tempo e dopo tanti anni in cui lei ha ricostruito la sua vita lontano da Sarajevo e dalla Bosnia è costretta ad affrontarlo per aiutare il suo bambino a capire dove sono le sue radici e dove stanno il bene e il male che dovrà affrontare durante la sua vita. Lidija quindi torna a Sarajevo, nella sua Bosnia per raccontare al figlio quello che è stata la sua vita prima fuggire in Olanda, inseguita dall'eco delle bombe e delle stragi della guerra che ha insanguinato la sua terra. Inizia così il suo film di viaggio dentro sé stessa, dentro la sua famiglia, le sue amicizie, i luoghi che ha dovuto lasciare molti anni prima per capire chi era veramente e cosa è diventata la giornalista romantica e piena di sogni della sue giovinezza. La telecamera di Lidija è di rara dolcezza e sensibilità, ma anche senza reticenze, nel raccontare le proprie personali lacerazioni e quelle dei suoi familiari e amici che, in tutta evidenza, hanno vissuto un'altra guerra. C'è chi l'ha seguita nella fuga, come i suoi genitori, ma che non ha rinnegato gli ideali politici della propria giovinezza e non accetta la versione ufficiale di quei tragici eventi, c'è chi è rimasto e ha continuato a testimoniare la propria eroica opposizione alla violenza senza però accettare la criminalizzazione postuma del proprio popolo e c'è chi a quella violenza ha partecipato attivamente come emerge dallo straordinario dialogo con il cugino che ha fatto il cecchino nell'esercito serbo pieno di silenzi e di parole che raccontano altro da ciò che vorrebbero dire. Un percorso tormentato e lacerante in cui la regista mette a nudo le proprie contraddizioni e angosce, la sua incapacità di stabilire dove stanno il bene e il male, di catalogarli secondo le categorie morali che ha accettato per troppo tempo di assumere come le uniche valide (quelle stabilite dai vincitori come il padre le ricorda più volte), e la coscienza che quel destino di violenza che lei ha rifiutato e da cui è fuggita fanno comunque parte della sua vita. Lungo tutto il documentario si respira questo profondo senso malinconico di perdita che il viaggio di Lidija nel tempo (straordinario anche in questo caso il ritrovamento della casa in cui lei ha vissuto da bambina, ancora devastato dalla guerra, ma in cui, scopre, vive una famiglia di diseredati che ha conservato però i suoi vecchi libri di gioventù) e nello spazio con la lussureggiante campagna bosniaca illuminata dal sole estivo e la Sarajevo di oggi piena di vita e di colori diversi contribuiscono ad acuire. Resta la speranza di un futuro diverso, la gioia inconsapevole del bambino che Lidija porta con sé nel suo viaggio, la “vacanza” dallo scorrere della vita quotidiana che sempre attutisce e scolorisce tutte le angosce nell'oblio della routine sempre uguale per riconquistare una parte di sé, della propria storia e della propria identità. Come una ballata di Dino Merlin, famoso cantautore bosniaco anch'esso di Sarajevo, “My own private war” racconta la nostalgia di ciò che non c'è più sia a livello individuale che collettivo, ma anche la forza vitale di quello che resta, l'autunno delle nostre esistenze, a cui sempre succede la primavera e la voglia di continuare a vivere, pur nella consapevolezza di ciò che è stato.

Marcello Cella




Intervista a Lidija Zelovic

Abbiamo incontrato Lidja Zelovic a Firenze durante il Balkan Florence festival alla fine di febbraio. 

Il suo film finisce con una domanda che mi sono posto anch'io durante tutta la visione del film. Che cosa ha davvero perso lei con la guerra in Bosnia?

Quel tipo di fiducia che ti fa dire: “andrà tutto bene”. E questa tranquillità, questa sicurezza di avere in mano la tua vita è la perdita più difficile da accettare. Come voi io abitavo nella mia città, ma all'improvviso tutto è cambiato e mi sono dovuta adattare. Probabilmente adattarsi a nuove circostanze fa parte della crescita, ma la guerra lo fa in maniera violenta e in condizioni più dure. 

Mi sono sempre chiesto cosa succede quando qualcuno diventa testimone di una guerra, quando pensi “non voglio essere torturata, non voglio essere violentata”, cosa fare quando la tua coscienza è a contatto con cose così grandi e terribili, come la perdita improvvisa della propria casa, degli affetti...

La domanda è eterna e sono cose con cui ci si deve spesso confrontare. Io quando ero a Sarajevo avevo 21 anni, pensavo ad andare in giro con i ragazzi e non alla guerra, ero una ragazza fortunata e non pensavo minimamente alla guerra, non pensavo che la cosa mi riguardasse. E quando è successo io ho incolpato i miei genitori, ho pensato “fate qualcosa, qualsiasi cosa per fermare questo”. Poi quando sono cresciuta e con un figlio piccolo ho pensato “che cosa sto facendo io per cambiare il mondo?”, con i problemi ambientali, altre guerre. Io faccio film, documentari che alla fine vengono visti da persone che la pensano come me, che sono già sensibili a questi temi. In fondo anch'io prego per la mia chiesa, mentre il mio desiderio sarebbe quello di raggiungere altre persone. Una cosa che ho imparato dalla guerra è quanto il tuo mondo sia piccolo. Solo quando un evento così sconvolgente coinvolge anche persone molto diverse da te pensi alla necessità di costruire ponti per raggiungere le altre sponde, altrimenti questo fossato diventa sempre più grande e può diventare nazionalismo, può diventare guerra. La guerra è una cosa dura, incomprensibile che uno pensa “non mi capiterà mai”. La conseguenza di perdere la casa è un altro tipo di trauma perchè la casa non la ritroverai mai. Quando però accetti questo, vivi in modo meno stabile, il che ha delle conseguenze sulla tua personalità, ma impari a conviverci. Certo non è bello. Avrei preferito essere più stupida e meno sensibile e avere casa mia. Quello che mi ha insegnato la guerra è di apprezzare la vita che si vive, per esempio il fatto di essere qui oggi, di essermi alzata presto, di essere qui con voi. 

Perchè questo film?

E' una storia che ho sempre avuto dentro. Durante la guerra sei impegnato a sopravvivere. Ma poi sono passati due anni, cinque anni e continuavo a pensare cose diverse durante questi anni. Ad un certo punto, quando mio figlio che ora ha dieci anni, ha cominciato a chiedere che cosa era stato, a voler sapere, ho capito che dovevo fermarmi per lui e anche per fermare la guerra che era nella mia testa. C'è una parte di me stessa che mi piace molto, cioè il fatto di essere molto romantica, di vivere sempre in maniera positiva, ma quando mio figlio mi ha detto “l'Olanda non mi piace molto, torniamo in Jugoslavia”, ho pensato che avevo dimenticato di dirgli che la Jugoslavia non esiste più. Allora ho detto, “andiamo in Bosnia” ed è bello andarci per le vacanze, ma la vita lì è un po' più complicata. E anche per questo ho capito che dovevo raccontare la mia esperienza. La prima volta che sono tornata in Bosnia è stato una settimana dopo gli accordi di pace e avevo ancora questa idea romantica, “ok, la guerra è finita, non si spara più e tutto può tornare come era prima”. Ovviamente non era così. Ho cominciato a ritornare periodicamente in Bosnia, cinque anni dopo, dieci anni dopo, a ritrovare i miei amici e a provare il senso di colpa quando ti raccontano la guerra che tu non hai vissuto e rimani scioccato perchè nulla è come te lo eri immaginato. Così sono anche le relazioni con le persone che sono rimaste lì che sono diventate persone totalmente nuove. Non per colpa di qualcuno, ma perchè ognuno vive la sua propria guerra. Non c'è una verità che è migliore dell'altra. E' un processo da accettare e anche queste relazioni vanno rinnovate ogni momento. Io ho intitolato il mio film “La mia guerra privata” perchè io l'ho vissuta così. Il che non vuol dire che quella degli altri, che l'hanno vissuta in modo altrettanto personale, ma in maniera del tutto diversa non sia la verità.

Lei fa un mestiere, quella del giornalismo, che ha molto a che fare con la ricerca della verità. Lei quando torna in Bosnia si trova davanti a persone che hanno la loro verità e che non hanno alcuna intenzione di confrontarla con quella degli altri. Anche lei mi è sembrata in crisi durante alcuni confronti serrati con alcuni suoi amici e parenti.  E questo mi ha colpito molto. Poi volevo anche chiederle perchè inizia e finisce il suo film con le immagini dell'autunno. 

E' vero, come giornalista sono andata in maniera molto romantica e ingenua a cercare la verità. Quando però ti confronti con la realtà ti rendi conto, non che non ci sia, ma che magari è ancora troppo presto per accettarla e che magari è anche molto più articolata. D'altra parte però queste persone che mi hanno messo in crisi non le posso rifiutare, fanno parte di me anche se hanno una visione delle cose del tutto differente dalla mia. Quando ho accettato questo sono riuscita ad andare avanti. Ad esempio, c'era un mio amico che ero sicura avrebbe fatto il film perchè siamo amici e questa è la cosa più importante. E invece no. Lui aveva bisogno del suo processo di elaborazione ed in quel momento non lo poteva fare. Questo mi ha messo in crisi, ma anche questo è parte del film. C'è la tragedia della guerra, della morte, degli omicidi, ma c'è anche questo tipo di crisi che è una tragedia in sé. Quanto all'autunno, era mio padre che registrava queste cose e quando hanno cominciato a bombardare, la prima cosa che ha fatto è stato di prendere questi nastri e metterli in cantina al sicuro. Poi il tempo è passato e quindici anni dopo, le persone che erano andate ad abitare lì mi hanno contattata in Olanda e mi hanno spedito questo materiale. E' stato uno shock emotivo enorme. Quella era la mia vita, con le mie emozioni e mi sono rivista a 21 anni invincibile, ma anche ingenua a fare le interviste senza capire assolutamente quello che stava succedendo, ma quella era una parte di me che vorrei ancora avere e che comunque non è stata uccisa dalla guerra. C'è ancora in me quella parte romantica, invincibile. Per questo anche la scena finale è un omaggio a quella persona, a quella parte di me. 

Un'altra cosa che mi ha colpito molto del film è il momento in cui lei si confronta con quel suo cugino che durante la guerra ha fatto il cecchino. E' molto interessante perchè mentre lo osservavo parlare avevo l'impressione che non dicesse la verità. Volevo sapere se anche lei ha avuto la stessa impressione. 

Si. Ma anche questo è una questione di scelte. Quello che hai fatto è una cosa con cui dovrai sempre convivere. E questo vale anche per lui. Comunque è una persona a cui voglio bene, a cui sono molto legata e quando ho saputo che era un cecchino ho pensato “non lo voglio più vedere, così risolvo il mio problema”. Invece quando l'ho incontrato mi sono resa conto che era una persona importante, che mi mancava e quindi nella mia testa ho pensato “fa che non l'abbia mai fatto, fa che mi dica questa bugia”. E quando lui dice effettivamente “io non l'ho fatto” mi sono resa conto che non era vero e che comunque avrei dovuto vivere con questo non sapere perchè al 100% non lo saprò mai. E' un groviglio di emozioni. Quando si parla di guerra nei film si raccontano favole. C'è il buono e il cattivo, il bianco e il nero e se fosse così sarebbe tutto più semplice. Ma nella mia esperienza è tutto molto più complicato e mescolato. E' proprio questa la tragedia della guerra che volevo raccontare. Il fatto di non riuscire a segnare il confine fra il buono e il cattivo è proprio quello che ti mette in crisi. 

a cura di Marcello Cella
Firenze, Balkan Florence Festival, 26 febbraio 2017

Si ringraziano Cecilia Ferrara e Simone Malavolti per la gentile collaborazione.


My Own Private War (La guerra in casa)
regia di Lidija Zelovic
durata 57 min.
produzione: Serbia, Croazia, Paesi Bassi 
anno: 2016. 




venerdì 14 aprile 2017

Balkania 14 aprile 2017 - La Grecia da Panagoulis a Tsipras



Balkania ricorda la Grecia di Alekos Panagoulis con Efi Miskedaki, curatrice dell'edizione italiana del documentario "Cronaca della dittatura (1967-1974)" di Padelìs Vùlgaris, e Samantha Falciatori, autrice del libro "Alekos Panagoulis, il dovere della libertà". Poi parliamo della Grecia di oggi con un'intervista a Niccolò Zancan, inviato del quotidiano La Stampa di Torino e con il giornalista e scrittore greco Dimitri Deliolanes. Canzoni di Manos Loisos, Nikos Xiluris. Petros Pandis, Vassilis Papacostantinu, Maria Faranduri, Maria Dimitriadi, Dionisis Savopulos, Grigoris Biticozis, Manos Hadjidakis...


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