giovedì 22 dicembre 2016

http://www.paololapi.it/critica_cella.htm
Un articolo del 2005 per ricordare l'amico pittore Paolo Lapi scomparso in questi giorni


La rivoluzione poetica del colore

"Non cambia il mondo/
se non cambia il mio/
non cambia il mondo/
ma forse cambio il mio"
Marco Parente, "w il mondo"



Pochi pittori come Paolo Lapi sfuggono ad ogni catalogazione stilistica, tecnica e di contenuto. Fedele solo all'innocenza del proprio sguardo bambino sul mondo e sulle cose e alla propria indipendenza intellettuale, Paolo Lapi, nel corso della sua carriera artistica più che cinquantennale, ha attraversato mode e stili rimanendo sempre coerente con la sua ricerca artistica di una verità poetica scevra dalle influenze del momento storico in cui essa avveniva. Innamorato del colore, il vulcanico artista pisano ha impostato tutta la sua ricerca estetica e poetica su questo elemento che è il vero trait d'union, di tutte le fasi artistiche in cui essa si è sviluppata. Inizialmente applicata ad una pittura influenzata dal naturalismo di derivazione macchiaiola e dalla realtà della terra Toscana, altro elemento importante presente nella sua opera, la ricerca sul colore di Lapi ha progressivamente abbandonato i riferimenti diretti alla realtà fenomenica per allargare il suo spettro, a partire dai tumultuosi anni Sessanta del secolo scorso, ad una pittura in cui il dato realistico viene filtrato dalla propria interiorità, dalla memoria, dalla fantasia per assumere forme e significati più informali e fantastici. Così la sua iniziale stagione di contenuto naturalistico (figure umane, paesaggi, nature morte) si è evoluta in una fase in cui la ricerca sui colori puri (rossi, gialli, blu) ha prevalso su qualsiasi considerazione stringente di contenuto o di fedeltà alle convenzioni accademiche, in una pittura liberata, di coraggiosa rottura anche ideologica in tempi in cui le ideologie contrapposte dominavano producendo i danni morali e materiali che il nostro Paese ha conosciuto. 


Una produzione fluviale che, pur non abbandonando il dialogo con la natura e il paesaggio, inteso anche come visione e interpretazione dell'esistenza umana, si esprime in numerosi cicli pittorici costruiti a mosaico, a frammenti come collage, in cui la visione di un tutto è costituita da parti (quadri) che si integrano a vicenda in funzione dell'insieme. Una frenesia produttiva in cui l'urgenza espressiva del pittore si realizzata in un "work in progress" continuo, in una sperimentazione tecnica dinamica (disegni, tempere, tecniche miste, pitture ad olio e acrilici, installazioni, gouaches, ecc.), anche se lontana da ogni sterile intellettualismo. Perché il bello della pittura di Paolo Lapi è che, qualunque sia il soggetto rappresentato o la tecnica utilizzata, per essere apprezzata pienamente deve essere 'sentita', passare attraverso l'emozione di chi la osserva prima di essere interpretata dalla sua razionalità cosciente. Un po' come i disegni dei bambini che sfuggono sempre all'analisi critica a causa della loro apparente `leggerezza': quella leggerezza innocente e trasgressiva proprio perché estranea agli schemi usurati della razionalità adulta, più adatti a catalogare la realtà, sterilizzarla e ucciderla piuttosto che a favorirne il cambiamento. La stessa di cui parlava Italo Calvino nelle sue "Lezioni americane": "Nei, momenti in cui il regno dell'umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell'irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro...". 


Ciò che importa per Lapi è la ricerca di un contatto quasi in presa diretta con la realtà, una registrazione istantanea di sentimenti e pulsioni evidente in mostre come 'Le carte" del 2000 o in quelle più attuali influenzate dai racconti orali della cultura africana. Il che non deve però far pensare ad una ricerca pittorica approssimativa o ad un eclettismo superficiale. Perché l'uso del colore nella sua pittura non è mai finalizzato a solleticare un facile consenso da parte dei fruitori, ma è sempre accompagnato dall'idea, dal progetto. Anzi, si fa esso stesso progetto, sintetizzando in sé il superamento del classico dualismo tra sensazione (colore) e costruzione (forma plastica, volume, spazio). Cosicché, come è già stato affermato da numerosi critici, il colore nella pittura di Lapi diventa elemento strutturale della visione e il dipinto acquista totale autonomia dal soggetto letterario o di attualità svelandone peraltro punti di vista e suggestioni inedite. E il suo presunto eclettismo non deve far pensare ad uno sguardo disimpegnato, superficiale o ambiguo sulla realtà della sua epoca, perché invece costante è rimasto nel tempo il suo desiderio di intervenire nella realtà politica e sociale contemporanea, come dimostrano il ciclo dei "carri da guerra" degli anni Settanta, il bellissimo dipinto dedicato alla morte dell'anarchico Serantini, i quadri sulla guerra in Bosnia o quelli più recenti sulla guerra in Iraq. 


























La sua fuga dagli schemi ideologici troppo strutturati come dalle esplicite implicazioni politiche o etico-religiose deve essere vista come fuga dalle trappole della razionalità adulta, come strenua difesa della capacità di scoperta del proprio sguardo poetico, violentemente 'innocente' come quello dei bambini, in cui cronaca quotidiana e tempo del mito e della storia, raffigurazione e trascendenza, suggestioni esterne e interiorità poetica si fondono in una pittura pastosa e densa, naturalistica e astratta allo stesso tempo, il cui tratto essenziale rimane il suo dinamismo interiore, la sua inquietudine stilistica, il suo non accontentarsi mai dei risultati raggiunti, il suo guardare sempre oltre ciò che è e che, in quanto tale, è già stato, per proiettarsi verso quello che sarà o potrebbe essere. Infatti la storia, la tradizione non sono mai concepite da Lapi come concezioni statiche ma sempre come movimento in divenire che non consente ripetizioni, come inesauribile anelito al cambiamento di una realtà umana violenta e mediocre. E il mondo non cambia se non cambia prima di tutto il nostro.

Marcello Cella







Una riflessione su “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi e sull'estetica del selfie dominante nel mondo attuale dei media. 



“Fuocoammare” e l'estetica del selfie 

“I viaggi moltiplicano le vite degli uomini” 
Banana Yoshimoto, “Un viaggio chiamato vita” 








“Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film di viaggio girato come un documentario oppure un documentario girato come un film di viaggio, a seconda di come lo percepisce lo spettatore. Un film di  viaggio all'interno di  un'isola, Lampedusa, sembra una contraddizione in termini. Eppure la narrazione di Rosi si struttura per accumulazione di momenti visivi, incontri, dialoghi, divagazioni apparentemente laterali che stanno tutti sullo stesso piano, come se il regista si mettesse nei panni di un viaggiatore che nulla sa di Lampedusa e della sua drammatica attualità di approdo per migranti che arrivano dall'Africa in fuga da guerre e miseria, e che scoprisse questa realtà, la vita dei migranti e di chi li accoglie, ma anche molte altre storie, per la prima volta. E per la prima volta riflettesse su ciò che accade sull'isola, sul suo passato fatto di dura vita da pescatori, di storie di fatica e di mare, e sul suo posto nel mondo esattamente come accade a Samuele, il ragazzino-viaggiatore che in qualche modo unisce con la sua presenza, ma soprattutto con il suo sguardo indagatore e incantato di bambino i vari momenti narrativi di cui è costituito il film. Questo è lo stesso sguardo che assume Rosi per raccontare la sua storia-non storia, fuori da qualsiasi cliché televisivo o giornalistico, di cui la vicenda di Lampedusa è inevitabilmente intrisa con le sue scorie di attualità stracciona che tutto pretende di spiegare e catalogare e tutto ciò che non rientra nelle categorie pre-definite, pre-masticate lo lascia nell'ombra. Rosi invece procede in modo inverso. Parte dalle ombre, dai momenti apparentemente morti, dalle situazioni che sembrano far parte di una realtà misteriosa, atavica e forse magica per poi emergere all'attualità dei migranti in fuga e di chi li accoglie senza giudicare e senza usare le immagini per costruire il classico menù pietistico che da troppo tempo serve solo a mascherare la falsa coscienza di chi non vuole fare i conti con le proprie contraddizioni culturali, economiche, politiche e sociali. Uno sguardo apparentemente vuoto, ma che lascia allo spettatore il tempo per riflettere su ciò che vede  e su ciò che non vede, ma che Rosi lascia immaginare, e che disegna spazi che non hanno sempre bisogno della presenza umana per essere significativi. 





Tutto il contrario di quanto avviene nell'estetica dominante attualmente nel cinema e su tutti i media, mutuata direttamente dall'individualismo autoreferenziale tipico dei social network, quella che potremmo definire “l'estetica del selfie”. Come è noto il selfie, termine derivato dalla lingua inglese, è un “autoritratto realizzato attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi o verso uno specchio, e condiviso sui social network”, come recita la Bibbia Wikipedia. E' quindi per sua natura uno spazio pieno, occupato dall'ossessiva presenza umana che sovrasta qualsiasi elemento paesaggistico o ambientale relegandolo in secondo piano. Inoltre è il contrario del tempo vuoto della vita che scorre nel suo flusso naturale, ma sottintende un tempo pieno in cui deve essere presente, in modo altrettanto ossessivo, una qualche azione umana, per quanto priva di significato essa sia, purchè sia visibile e “rumorosa”. Infatti anche i silenzi o il suono naturale delle cose, quello che pervade gli ambienti, naturali o artificiali, sono nemici del selfie che presuppone anche a livello sonoro un suono che riempie tempi e spazi, che annulla qualsiasi fonte sonora esterna all'esibizione della presenza umana, all'esibizione di sé, come succede quando si usa l'i- pod, parente stretto del selfie, e si sovrappone ai rumori, alle voci, ai suoni del mondo esterno la propria individuale colonna sonora.  Ma anche a livello narrativo l'estetica del selfie si esprime con la negazione dell'orizzontalità della narrazione, quella seguita dal film di Rosi, in cui si alternano momenti e situazioni ugualmente importanti sul piano esistenziale, per prediligere una verticalità narrativa artificiale e standardizzata che considera inutile tutto ciò che non fa progredire (“produrre”) la storia secondo una logica che tiene conto solo delle azioni umane, spesso decontestualizzate e del tutto gratuite, ma che danno allo spettatore un senso di stordimento e di apparente partecipazione emotiva alle situazioni del film, per poi lasciarlo vuoto e disorientato come dopo un rave party. 



Ciò che lascia poi lo spettatore dopato da overdose di selfie completamente stupefatto di fronte ad un film come “Fuocoammare” è l'assenza della voce narrante che in genere orienta (e spesso manipola) l'interpretazione dei fatti narrati da parte dello spettatore in questo genere di film o di documentari secondo una pessima abitudine televisiva che prevede appunto la presenza ossessiva della voce narrante e la stessa esibita presenza fisica del “narratore interno” (giornalista-conduttore) che sovrasta la semplice immagine audiovisuale di tali fatti, la loro profondità (di campo) e quindi la stessa possibilità del formarsi nella mente dello spettatore di interpretazioni alternative a quella sostenuta dal narratore interno. 




L'estetica del selfie che un film come “Fuocoammare” contraddice platealmente è quindi un'idea del cinema (e dei media) e quindi del mondo come luogo del cambiamento, come luogo del movimento fisico e mentale (motion-emotion, come rileva spesso un regista come Wim Wenders)libero da pre-giudizi, da mercanzia pre-confezionata, da mappe pre-masticate e aperto agli imprevistidella realtà, agli incontri non pre-visti, agli infiniti incroci esistenziali. Come nel viaggio raccontato dalla scrittrice giapponese Banana Yoshimoto nel suo romanzo “Un viaggio chiamato vita”: “La sola cosa che non cambia mai è una sensazione che precede ogni viaggio: non tornerò uguale a prima. Credo che sia la sensazione più importante, quando ci si mette in viaggio”. Anche Samuele, il bambino protagonista di “Fuocoammare”, alla fine del suo personalissimo viaggio nel passato e nel presente della sua isola, della sua Lampedusa, non sarà più uguale a prima, ma più forte, più consapevole, più maturo e forse, a sua volta, pronto per un nuovo viaggio. 


Marcello Cella



Fuocoammare 
Regia: Gianfranco Rosi. 
Attori: Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe 
Fragapane, Maria Signorello, Francesco Paterna, Francesco Mannino, Maria Costa 
Soggetto: Carla Cattani 
Sceneggiatura: Gianfranco Rosi 
Produttori: Gianfranco Rosi, Paolo Del Brocco e Donatella Palermo 
Fotografia: Gianfranco Rosi 
Montaggio: Jacopo Quadri 
Musiche: Stefano Grosso 
Durata; 107 minuti 
Produzione: Italia-Francia 
Anno: 2016. 

domenica 18 dicembre 2016


Venerdì 16 dicembre 2016 è tornato a trasmettere Balkania sulle onde di Radio ROARR (www.radioroarr.org) con uno speciale sulla giovane scrittrice Rom francese Anina Ciuciu, autrice del libro "Sono Rom e ne sono fiera" (Edizioni Alegre, 2016) e protagonista di un emozionante incontro pubblico a Pisa l'8 dicembre 2016 presso la sede della Tavola Valdese, organizzato da una serie di associazioni di volontariato come Articolo 34, Africa Insieme, Associazione 21 luglio, Associazione Civic, Famiglia Aperta, Scuola Mondo di San Giuliano Terme e la stessa Balkania. Interventi di Sultan Dibran, Carlo Stasolla (Associazione 21 luglio) e Sergio Bontempelli (Africa insieme). Musiche tratte dalla raccolta "World of Gypsies vol.1, vol.2, vol.3" (2000-2003)...Il podcast della puntata di Balkania si  può ascoltare al seguente indirizzo: 
https://www.mixcloud.com/marcellocella/





Sulla pagina dedicata agli approfondimenti tematici legati a Balkania, e cioè "Amici di Balkania"
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