giovedì 22 dicembre 2016


Una riflessione su “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi e sull'estetica del selfie dominante nel mondo attuale dei media. 



“Fuocoammare” e l'estetica del selfie 

“I viaggi moltiplicano le vite degli uomini” 
Banana Yoshimoto, “Un viaggio chiamato vita” 








“Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film di viaggio girato come un documentario oppure un documentario girato come un film di viaggio, a seconda di come lo percepisce lo spettatore. Un film di  viaggio all'interno di  un'isola, Lampedusa, sembra una contraddizione in termini. Eppure la narrazione di Rosi si struttura per accumulazione di momenti visivi, incontri, dialoghi, divagazioni apparentemente laterali che stanno tutti sullo stesso piano, come se il regista si mettesse nei panni di un viaggiatore che nulla sa di Lampedusa e della sua drammatica attualità di approdo per migranti che arrivano dall'Africa in fuga da guerre e miseria, e che scoprisse questa realtà, la vita dei migranti e di chi li accoglie, ma anche molte altre storie, per la prima volta. E per la prima volta riflettesse su ciò che accade sull'isola, sul suo passato fatto di dura vita da pescatori, di storie di fatica e di mare, e sul suo posto nel mondo esattamente come accade a Samuele, il ragazzino-viaggiatore che in qualche modo unisce con la sua presenza, ma soprattutto con il suo sguardo indagatore e incantato di bambino i vari momenti narrativi di cui è costituito il film. Questo è lo stesso sguardo che assume Rosi per raccontare la sua storia-non storia, fuori da qualsiasi cliché televisivo o giornalistico, di cui la vicenda di Lampedusa è inevitabilmente intrisa con le sue scorie di attualità stracciona che tutto pretende di spiegare e catalogare e tutto ciò che non rientra nelle categorie pre-definite, pre-masticate lo lascia nell'ombra. Rosi invece procede in modo inverso. Parte dalle ombre, dai momenti apparentemente morti, dalle situazioni che sembrano far parte di una realtà misteriosa, atavica e forse magica per poi emergere all'attualità dei migranti in fuga e di chi li accoglie senza giudicare e senza usare le immagini per costruire il classico menù pietistico che da troppo tempo serve solo a mascherare la falsa coscienza di chi non vuole fare i conti con le proprie contraddizioni culturali, economiche, politiche e sociali. Uno sguardo apparentemente vuoto, ma che lascia allo spettatore il tempo per riflettere su ciò che vede  e su ciò che non vede, ma che Rosi lascia immaginare, e che disegna spazi che non hanno sempre bisogno della presenza umana per essere significativi. 





Tutto il contrario di quanto avviene nell'estetica dominante attualmente nel cinema e su tutti i media, mutuata direttamente dall'individualismo autoreferenziale tipico dei social network, quella che potremmo definire “l'estetica del selfie”. Come è noto il selfie, termine derivato dalla lingua inglese, è un “autoritratto realizzato attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi o verso uno specchio, e condiviso sui social network”, come recita la Bibbia Wikipedia. E' quindi per sua natura uno spazio pieno, occupato dall'ossessiva presenza umana che sovrasta qualsiasi elemento paesaggistico o ambientale relegandolo in secondo piano. Inoltre è il contrario del tempo vuoto della vita che scorre nel suo flusso naturale, ma sottintende un tempo pieno in cui deve essere presente, in modo altrettanto ossessivo, una qualche azione umana, per quanto priva di significato essa sia, purchè sia visibile e “rumorosa”. Infatti anche i silenzi o il suono naturale delle cose, quello che pervade gli ambienti, naturali o artificiali, sono nemici del selfie che presuppone anche a livello sonoro un suono che riempie tempi e spazi, che annulla qualsiasi fonte sonora esterna all'esibizione della presenza umana, all'esibizione di sé, come succede quando si usa l'i- pod, parente stretto del selfie, e si sovrappone ai rumori, alle voci, ai suoni del mondo esterno la propria individuale colonna sonora.  Ma anche a livello narrativo l'estetica del selfie si esprime con la negazione dell'orizzontalità della narrazione, quella seguita dal film di Rosi, in cui si alternano momenti e situazioni ugualmente importanti sul piano esistenziale, per prediligere una verticalità narrativa artificiale e standardizzata che considera inutile tutto ciò che non fa progredire (“produrre”) la storia secondo una logica che tiene conto solo delle azioni umane, spesso decontestualizzate e del tutto gratuite, ma che danno allo spettatore un senso di stordimento e di apparente partecipazione emotiva alle situazioni del film, per poi lasciarlo vuoto e disorientato come dopo un rave party. 



Ciò che lascia poi lo spettatore dopato da overdose di selfie completamente stupefatto di fronte ad un film come “Fuocoammare” è l'assenza della voce narrante che in genere orienta (e spesso manipola) l'interpretazione dei fatti narrati da parte dello spettatore in questo genere di film o di documentari secondo una pessima abitudine televisiva che prevede appunto la presenza ossessiva della voce narrante e la stessa esibita presenza fisica del “narratore interno” (giornalista-conduttore) che sovrasta la semplice immagine audiovisuale di tali fatti, la loro profondità (di campo) e quindi la stessa possibilità del formarsi nella mente dello spettatore di interpretazioni alternative a quella sostenuta dal narratore interno. 




L'estetica del selfie che un film come “Fuocoammare” contraddice platealmente è quindi un'idea del cinema (e dei media) e quindi del mondo come luogo del cambiamento, come luogo del movimento fisico e mentale (motion-emotion, come rileva spesso un regista come Wim Wenders)libero da pre-giudizi, da mercanzia pre-confezionata, da mappe pre-masticate e aperto agli imprevistidella realtà, agli incontri non pre-visti, agli infiniti incroci esistenziali. Come nel viaggio raccontato dalla scrittrice giapponese Banana Yoshimoto nel suo romanzo “Un viaggio chiamato vita”: “La sola cosa che non cambia mai è una sensazione che precede ogni viaggio: non tornerò uguale a prima. Credo che sia la sensazione più importante, quando ci si mette in viaggio”. Anche Samuele, il bambino protagonista di “Fuocoammare”, alla fine del suo personalissimo viaggio nel passato e nel presente della sua isola, della sua Lampedusa, non sarà più uguale a prima, ma più forte, più consapevole, più maturo e forse, a sua volta, pronto per un nuovo viaggio. 


Marcello Cella



Fuocoammare 
Regia: Gianfranco Rosi. 
Attori: Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe 
Fragapane, Maria Signorello, Francesco Paterna, Francesco Mannino, Maria Costa 
Soggetto: Carla Cattani 
Sceneggiatura: Gianfranco Rosi 
Produttori: Gianfranco Rosi, Paolo Del Brocco e Donatella Palermo 
Fotografia: Gianfranco Rosi 
Montaggio: Jacopo Quadri 
Musiche: Stefano Grosso 
Durata; 107 minuti 
Produzione: Italia-Francia 
Anno: 2016. 

Nessun commento:

Posta un commento