sabato 23 dicembre 2017


Ai confini dell'impero


Tre recenti documentari raccontano le realtà più marginali ed oscure del mondo occidentale: “Brexitannia” di Timothy George Kelly, “Stranger in Paradise” di Guido Hendrikx e “The Workers Cup” di Adam Sobel.

Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo”. Con questa frase sibillina il replicante del film “Blade Runner” interpretato dall'attore Rutger Hauer, accoglieva minacciosamente il detective-cacciatore di replicanti Harrison Ford/Deckard. Nel 1982 forse non era ben chiaro il senso di questa affermazione o almeno la si applicava a realtà drammatiche come la guerra o i cataclismi naturali.  Oggi il terrore di non sapere più chi siamo o di non poter progettare il futuro appartiene all'esperienza quotidiana di milioni di persone che sono costrette a vivere in un presente che assomiglia sempre più ad una prigione senza possibilità di fuga a causa delle condizioni economiche imposte da un sistema politico-economico oligarchico, quello che denominiamo abitualmente neoliberalismo. I tre documentari presentati in questa rubrica odierna parlano sostanzialmente di questo, dell'angoscia di chi è costretto a vivere ai margini di questo sistema ricchissimo e spietato e per questo è costretto a scelte che non sono tali perchè non prevedono una qualche forma di riscatto, ma contengono solo qualche pallido anticorpo sotto le mentite spoglie di una protesta senza sbocchi. “Brexitannia” di Timothy George Kelly, “Stranger in Paradise” di Guido Hendrikx e “The Workers Cup” di Adam Sobel sono stati presentati recentemente all'interno del festival ferrarese della rivista Internazionale e, pur nelle diversità estrema di temi e stili, possono essere in qualche modo accomunati da questa riflessione amara sullo stato delle cose presenti nel mondo occidentale di oggi. 
“Brexitannia” del filmaker londinese ma di origine australiana Timothy George Kelly, si muove ai margini e sulle macerie sociali e culturali del dopo Brexit, il referendum che ha sancito la separazione della Gran Bretagna dal resto dell'Europa. In un racconto a più voci, il livido bianco e nero della fotografia ci accompagna in un viaggio nelle aree urbane britanniche più povere e in quelle rurali più lontane dalle grandi città globalizzate e tecnologiche, dove ha trionfato il voto “contro”. Il voto dei paesi contro le città, dei vecchi contro i giovani, dei cittadini comuni contro le classi dirigenti, dei penultimi (gli inglesi bianchi, poveri, disoccupati o che svolgono i lavori peggiori) contro gli ultimi (gli immigrati dall'Africa), in un puzzle di antica tristezza che qualcuno ha giustamente definito “un ritratto di una democrazia in decadenza”, dove i vecchi imperi sono tramontati e ne rimane solo un'acida nostalgia, il lavoro è sempre più privo di significato umano e sempre più automatizzato, il potere è sempre più lontano da chi ne subisce le scelte. La vera protagonista di questo drammatico e bellissimo documentario è però la solitudine delle persone trattate come “scarti di produzione” da un sistema sociale ed economico, quello neoliberale, sul cui significato il regista si sofferma in alcune illuminanti conversazioni parallele al racconto principale con personaggi come il filosofo americano Noam Chomsky o la sociologa ed economista statunitense Saskia Sassen. 
Con “Stranger in Paradise” del cineasta olandese Guido Hendrikx ci trasferiamo inaspettatamente in un'aula scolastica per rifugiati in Sicilia. Qui un attore-insegnante, in uno spettacolare e bizzarro gioco di ruolo, accoglie i richiedenti asilo che devono imparare la lingua e le regole del nostro paese e, più generalmente, dell'Occidente, e gli spiega con apparente cinismo “come stanno le cose” in questa parte di mondo. Ma non si tratta solo di apprendere come funzionano la burocrazia o le leggi in materia di immigrazione, ma delle vere “regole del gioco” non dichiarate che sottostanno a quelle leggi, il cui fine, neanche troppo nascosto, è di accogliere il minor numero possibile di rifugiati, ignorarne storie e condizioni, come le cause che li costringono a partire, e, nel caso che la “corsa ad ostacoli” preparata per loro non funzioni come deterrente, rendere la loro presenza sempre più invisibile e ininfluente. Il film di Hendrikx che si muove agilmente tra finzione e documentario seguendo le rigide regole di sobrietà visiva e narrativa dei cineastiche aderiscono a Dogma95, il movimento-manifesto cinematografico inventato dal regista danese Lars Von Trier, suddivide il suo film in tre capitoli intervallati da “tavole” foto-pittoriche di paesaggio accompagnate da brevi momenti musicali secondo modalità che ricordano proprio la struttura narrativa di “Le onde del destino” di Von Trier. Tre capitoli a cui corrispondono tre diversi gruppi di rifugiati e tre modalità diverse di comportamento da parte dell'insegnante-attore Valentijn Dhaenens. Al primo gruppo egli spiega quanto costano all'Europa, quali rischi portano e perché gli europei non li vogliono. Al secondo, dipinge un'immagine idilliaca in cui saranno accolti a braccia aperte e realizzeranno i loro sogni. Al terzo vengono poste invece domande burocratiche, sulle procedure seguite per arrivare e il diritto d'asilo alla fine delle quali solo tre di loro avranno diritto alla speranza di essere accolti. “Tre approcci, specchio degli atteggiamenti fallimentari dell'Occidente di fronte alla disperazione umana: il rifiuto, l'idealismo, l'indifferenza. I protagonisti sono veri rifugiati, sono vere le loro terribili storie. Un esperimento crudele? Non quanto la realtà” (N.D. “Un esperimento crudele? Non quanto la realtà”, Mymovies, 3/10/2017). 
Ma se l'esperimento sociale raccontato da “Stranger in Paradise” può essere visto come una parabola sotto forma di documentario, il racconto di “The Workers Cup” del regista britannico Adam Sobel è assolutamente reale, anche se avviene in un'altra parte del mondo, solo apparentemente molto lontana, e cioè il ricchissimo Qatar dove si stanno costruendo le faraoniche infrastrutture che accoglieranno i campionati mondiali di calcio del 2022. Infatti quando la commissione FIFA ha selezionato il Qatar per ospitare la Coppa del Mondo 2022, il paese ha utilizzato le proprie risorse per cominciare a costruire stadi e opere architettoniche grazie soprattutto a milioni di lavoratori migranti. Si calcola che siano 1,6 milioni gli immigrati impiegati in questi lavori, il 60% della popolazione del paese, provenienti da paesi come Nepal, Bangladesh, Filippine, India, Kenya, Ghana e tenuti in condizioni di semischiavitù. Ma all'interno di questo inferno fatto di sfruttamento lavorativo e orari massacranti per salari miserabili gli stessi sponsor dei mondiali organizzano da anni un torneo di calcio aziendale, “The Workers Cup” per l'appunto, in cui si affrontano le squadre di calcio formate dai lavoratori stranieri delle varie aziende presenti, una sorta di operazione di marketing finalizzata a ripulire la propria immagine, le violazioni dei diritti umani che avvengono sui luoghi di lavoro e lo squallore delle baraccopoli in cui questi lavoratori sono costretti a vivere lontani dal proprio paese, dalle proprie famiglie e anche dalla vista dei ricchi cittadini qatarioti, essendo loro vietato di uscire dai loro “villaggi” dopo l'orario di lavoro e di mischiarsi negli sconfinati centri commerciali con la popolazione locale. Il documentario di Adam Sobel segue una delle ultime edizioni del torneo raccontando sia l'aspetto sportivo e agonistico, sia e soprattutto le storie di questi lavoratori che vedono nella partecipazione al torneo una fragile strada di riscatto sociale. Eroi sul campo ma ai margini nella società qatariota, i lavoratori perdono progressivamente la speranza che li aveva spinti a emigrare, e i colori, i suoni, le urla festose che accompagnano le partite si perdono progressivamente nel vuoto, nel silenzio, nella solitudine del dopopartita e soprattutto nel ritorno alla amara quotidianità lavorativa dove non c'è spazio per i sogni e le vie di fuga si riducono alla finestrella che separa gli operai al lavoro per ampliare un centro commerciale dalle famiglie intente a fare shopping. Una piccola finestra quasi impercettibile, ma che separa due mondi lontanissimi, il centro del mondo ricco e globalizzato da quello povero di sogni e di oggetti degli “invisibili”. Un luogo che è anche una metafora, non troppo allegra, del mondo di oggi.

Marcello Cella



BREXITANNIA 
Regia: Timothy George Kelly 
Produzione: Regno Unito, Federazione Russa
Anno di produzione: 2017 
Durata: 80' 




STRANGER IN PARADISE 
Regia: Guido Hendrikx 
Produzione: Paesi Bassi 
Anno di produzione: 2016 
Durata: 72' 





THE WORKERS CUP 
Regia: Adam Sobel 
Produzione: Regno Unito 
Anno di produzione: 2017 
Durata: 92' 









giovedì 20 luglio 2017


Balkania 19 maggio/20 luglio 2017
Luci e ombre sulla Polonia




Balkania in questa puntata si occupa di Polonia con la collaborazione e il contributo del giornalista free lance Matteo Tacconi. Balkania lo ringrazia pubblicamente, oltre che per l'intervista, per il discorso di Kaczynski sull'emigrazione in Polonia, per i contributi sugli ebrei polacchi, sui profughi ucraini in Polonia e sulla storia di Ryszard Siwiec. Interviste con lo scrittore e giornalista Roberto Polce, autore della guida "Polonia. Usi, costumi e tradizioni" (Morellini Editore, 2012), e con Salvatore De Bello, attivista del KOD - Komitet Obrony Demokracji, il Comitato per la difesa della democrazia, che dal 2015 si batte contro le politiche restrittive del governo conservatore espresso dal partito Diritto e Giustizia guidato da Jaroslaw Kaczynski. Musiche, in ordine di programma, di Panasewicz (“Miedzy nami nie ma juz”), Artur Rojek (“Syreny”), Kasia Kowalska (“Antidotum”), Ewa Farna (“Znak”), Lukasz Zagrobelny (“Dotre do ciebie”), Skubas (“Nie mam dla ciebie milosci”),  Edyta Bartosiewicz (“Sklamalam”), Ewelina Lisowska (“We Mgle”),  Varius Manx (“Wierze W Milosc”)...

Potete riascoltare tutti le puntate di Balkania al seguente indirizzo: https://www.mixcloud.com/marcellocella/. Materiale sui programmi lo trovate anche nella pagina facebook dedicata, Amici di Balkania.

venerdì 7 luglio 2017

Sopravvivere ai tempi del colera (finanziario)

“Piigs - Ovvero come imparai a preoccuparmi e a combattere l'Austerity” di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre 

Il documentario racconta gli effetti delle politiche economiche di austerity sulla vita delle persone attraverso le vicende di una cooperativa sociale di Monterotondo. Con testimonianze di economisti, giornalisti, intellettuali e attivisti come Noam Chomsky, Yanis Varoufakis, Erri De Luca, Vladimiro Giacchè, Warren Mosler, Stephanie Kelton, Paolo Barnard, Paul de Grauwe, Giuliano Amato, Stefano Fassina, Federico Rampini e la voce narrante di Claudio Santamaria. 


In una stanza ci sono cento cani, ma solo novantacinque ossi. Si dirà che i cinque cani che restano senza mangiare dovranno essere più veloci, più scaltri, più competitivi. Ma se ripetiamo l’esperimento, resteranno senza mangiare altri cinque cani. Chi ha deciso quali cani mangiano e quali no? Questo l'interrogativo posto dall'insider finanziario americano Warren Mosler, che aleggia senza risposta apparente per tutto il film dei tre giovani registi italiani.


Chi ha deciso che cinque cani resteranno comunque senza mangiare? E cosa c'entra tutto questo con l'economia e la crisi e l'austerity e la disoccupazione e la precarietà lavorativa e il taglio dei servizi sociali? Può sembrare una domanda lunare, ma c'entra moltissimo. Infatti il bel documentario dei tre cineasti cerca di mettere in relazione le problematiche della macroeconomia e le difficoltà crescenti della microeconomia. Ciò che in genere evita di fare l'informazione economica dei quotidiani specializzati, chiaramente indirizzata ad una platea di esperti e di fedeli al dogma economico dominante, e cioè quella particolare forma di capitalismo che si è affermato da pochi decenni, il capitalismo finanziario. Perchè di dogma si tratta, quasi di una religione e i suoi epigoni assumono spesso la veste di sacerdoti fondamentalisti, soprattutto quando affermano decisamente che “non c'è alternativa a questo sistema economico”. Ma, come sappiamo, la mancanza di alternative è sempre un regalo avvelenato di ideologie totalitarie perchè anche l'economia è una creazione umana e, come tutte le creazioni umane, imperfetta e subordinata alla finitezza della sua condizione. Parafrasando Giovanni Falcone, quando affermava che “la mafia è una creazione umana e come tutte le creazioni umane ha avuto un inizio, uno sviluppo e avrà anche una sua fine”, allo stesso modo l'economia vive all'interno di questi limiti oggettivi e di queste contraddizioni, messe bene in luce dal documentario che, lungi dall'essere un noioso pamphlet ideologico, si sviluppa come un'inchiesta tesa, giornalisticamente inattaccabile, ma dotata di un ritmo cinematografico mozzafiato. Si respira fin dall'inizio un'atmosfera inquietante da thriller e non può essere un caso che, proprio all'inizio, dopo le parole di Bush senior che incensano il maggiore ideologo del neoliberismo, Milton Friedman, sulle parole della voce narrante (l'attore Claudio Santamaria), la macchina da presa riprenda dall'alto il sinuoso percorso seguito da un'automobile (quella del protagonista occulto del film?) in corsa su una strada di montagna, proprio come all'inizio di “Shining” di Stanley Kubrick, come a suggerire l'affascinante paragone fra la corsa verso la follia e gli incubi notturni del suo protagonista (Jack Nicholson) con quella attraverso la follia criminale del sistema economico raccontato da “PIIGS”. 


PIIGS, un acronimo che indica quei Paesi europei appesantiti da un grave debito pubblico, Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, e che i tre giovani registi hanno ripreso nel titolo della loro opera, frutto di cinque anni di studi e due di riprese e montaggio. Un documentario che racconta l'economia e i condizionamenti che essa riversa sulla vita quotidiana delle singole persone mettendo in relazione gli autorevoli interventi di economisti, intellettuali e attivisti con le vicende molto più prosaiche della Cooperativa “Il Pungiglione” di Monterotondo, alle porte di Roma, nata nello stesso anno, il 1992, del famigerato Trattato di Maastricht che determinò i criteri di ingresso nell'Unione Europea, a rischio fallimento a causa della mancata riscossione di crediti per centinaia di migliaia di euro da parte degli enti locali, bloccati dal patto di stabilità che ne impedisce il versamento in rispetto di astratti parametri economici che il film si occupa di destrutturare e qualificare per quello che sono, e cioè menzogne ad alto tasso di ideologia senza nemmeno una vaga apparenza di scientificità, prodotte però con un fine ben preciso: smantellare lo stato sociale per come lo abbiamo conosciuto in Occidente nel secondo dopoguerra e tornare ad una sorta di “Ancien Régime” (come lo definisce senza mezzi termini un economista americano nel corso di una conferenza) precapitalista e profondamente classista. Per chiarire questi concetti “PIIGS” non è avaro di esempi e testimonianze. Come quella dello studente americano Thomas Herndon, autore di una clamorosa scoperta, e cioè che nei documenti di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, con cui l’Unione Europea giustificò le misure di austerity, ci sono dei banalissimi errori di allineamento di fogli e colonnine Excel. O come la vicenda di Guy Abeille che spiega meglio di qualsiasi altra cosa l'origine dell'assurdo parametro del 3%, il famigerato rapporto tra deficit e PIL ripetuto come un mantra da politici ed economisti per giustificare le loro devastanti scelte economiche e sociali, una letterale invenzione a casaccio. Guy Abeille, ex funzionario del ministero delle finanze francese quando all’Eliseo era presidente Mitterand la racconta così: “Il presidente voleva fissare un tetto alla spesa pubblica, cercava uno strumento semplice e per uso interno, nessuna teoria economica. In nemmeno un’oretta mettemmo il deficit in rapporto al PIL e con un’operazione alquanto casuale e legata ai parametri dell’epoca ci risultò il 3%. Fu poi Trichet nel 1992 durante la preparazione del Trattato di Maastricht a tirare fuori quel parametro. “Noi in Francia abbiamo un numero che funziona bene, possiamo utilizzarlo”. E così nacque quella cifra totalmente priva di senso”. Priva di senso si, ma con un unico obiettivo: “smantellare lo stato sociale”, come ricorda il linguista Noam Chomsky, “il più grande contributo delle socialdemocrazie europee del dopoguerra dato alla civiltà moderna”. Un enorme traguardo di civiltà, ma con un unico difetto: essere in totale disaccordo con il pensiero del massimo teorico del neoliberismo attuale, e cioè l'economista Milton Friedman e la sua cosiddetta Scuola di Chicago, che, negli anni Settanta del secolo scorso, fu consulente economico anche del feroce dittatore cileno Augusto Pinochet: “Tagliare ogni spesa pubblica a parte quelle per la difesa. (...) Il mondo va avanti grazie alle persone che perseguono i propri interessi, perché le grandi conquiste della civiltà non arrivano da uffici governativi e l’unico modo per le grandi masse di poveri di uscire dalla miseria è nelle società capitaliste dove il commercio è libero”. L'egoismo, l'avidità e l'individualismo sfrenato come strumento e fine del vivere sociale con gli effetti che oggi ben conosciamo in termini economici, sociali, politici, culturali e ambientali. E se così funziona il sistema anche i diritti individuali e sociali e la democrazia diventano potenziali ostacoli da abbattere.


“I diritti ottenuti nel dopoguerra sono diventati servizi, mentre il cittadino europeo oggi è un cliente. E ci sono servizi che non tutti i clienti possono permettersi”, spiega bene lo scrittore Erri De Luca. Insomma, la società che umilia i più deboli affidandosi alla cieca obbedienza dei dogmi economici del sistema dominante è una sceneggiatura già scritta: “Quando partecipai al primo meeting dei paesi dell’Eurozona proposi alla Troika un compromesso tra le nostre istanze, derivanti da un referendum popolare, e le loro”, commenta l’ex ministro dell’economia greco, Yannis Varoufakis. “Ma Schauble, il ministro delle finanze tedesco dell'epoca, mi disse che ‘le elezioni non possono essere permesse se cambiano il progetto economico della Germania’”.



E così, in questo cortocircuito continuo fra macroeconomia e microeconomia, “PIIGS” pone molte domande e cerca di fornire alcuni elementi di riflessione allo spettatore anche attraverso molti dati concreti, come il fatto che in Europa i lavoratori del sociale sono 15 milioni e forniscono aiuto e servizi fondamentali a 50 milioni di persone disabili e svantaggiate. E' giusto che questo lavoro rischi di scomparire perchè fuori dalle logiche selvagge e disumane del profitto ad ogni costo? E' giusto abbandonare i disabili e le persone svantaggiate, gli “scarti”, per usare un termine di Papa Francesco, al loro destino? E' giusto che una cooperativa di eccellenza come “Il Pungiglione” che dà lavoro a 100 persone e ne aiuta in media altre 500 fra disabili e persone svantaggiate rischi di chiudere perchè lo Stato non paga i suoi debiti per rispettare criteri economici palesemente falsi? E, per tornare al quesito iniziale, è giusto che in una stanza con cento cani affamati, il ricco padrone di casa lasci soltanto 95 ossi, insufficienti per sfamarli, ma utilissimi per farli sbranare fra loro?

Marcello Cella


Regia: Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre 
Sceneggiatura: Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre 
Montaggio: Federico Greco 
Musica: Paolo Baglio, Daniele Bertinelli, Antonio Genovino 
Cast: Noam Chomsky, Erri De Luca, Warren Mosler, Claudio Santamaria, Yanis Varoufakis
Produzione: Studio Zabalik 
Distribuzione: Fil Rouge Media
Italia, 2017, 76' 



venerdì 19 maggio 2017



Balkania presenta: 

East West. I racconti dell'andare.

Testimonianze e racconti di migrazione 
da Oriente a Occidente. 





Si tratta di una nuova rubrica in cui Balkania vuole raccogliere racconti e testimonianze di migrazione dall'Sst Europa in Occidente. A questa iniziativa possono collaborare anche gli ascoltatori che vorranno farlo con materiale in tema con la rubrica in forma scritta, sonora o audiovisiva. In questa prima puntata "Spaesamenti", la storia di Monika Brzozoska dalla Polonia.



sabato 15 aprile 2017


Guerra è sempre
My own private war” di Lidija Zelovic

Un amaro ritorno a casa e una riflessione su ciò che ha lasciato la guerra in Bosnia dentro le persone che l'hanno vissuta.

Guerra è sempre, diceva a Primo Levi, uno dei personaggi del suo romanzo “La tregua”. E' quello che non si può fare a meno di pensare guardando lo straordinario documentario “My own private war” (La guerra in casa) della regista bosniaca Lidija Zelovic, giornalista e documentarista che vive in Olanda dopo essere fuggita nei primi anni '90 dal suo paese allo scoppio della guerra. “My own private war” è un film che racconta come pochi altri che cosa è veramente una guerra per le persone che la vivono sulla propria pelle, al di là della violenza, del sangue e merda che le caratterizza, anche dopo che l'aspetto “spettacolare” delle persone che si uccidono è finito e i riflettori dei media si sono spenti. Ognuno deve allora fare i conti con la propria guerra privata, quella che continuerà a vivere dentro di sé per sempre. Ma che cosa si perde veramente in una guerra? E' quello che in fondo si chiede la regista bosniaca per tutta la durata del film che ha un percorso solo in apparenza crepuscolare. L'inizio, con quelle immagini autunnali di Sarajevo, delle sue strade, dei suoi giardini attraversate dalla spavalda ingenuità della giovane giornalista che pone ai passanti domande naif sulle stagioni, sul tempo che cambia è qualcosa che rimane negli occhi dello spettatore per tutto il film, mentre la guerra prepara il proprio catalogo di morte e macerie materiali e morali. Ecco, forse è proprio questo che in fondo la guerra uccide dentro le persone, la possibilità di sognare, di avere fiducia negli altri e nel futuro. Lidija questo interrogativo, come spiega anche nell'intervista che segue, se l'è portato dentro per tanto, troppo tempo e dopo tanti anni in cui lei ha ricostruito la sua vita lontano da Sarajevo e dalla Bosnia è costretta ad affrontarlo per aiutare il suo bambino a capire dove sono le sue radici e dove stanno il bene e il male che dovrà affrontare durante la sua vita. Lidija quindi torna a Sarajevo, nella sua Bosnia per raccontare al figlio quello che è stata la sua vita prima fuggire in Olanda, inseguita dall'eco delle bombe e delle stragi della guerra che ha insanguinato la sua terra. Inizia così il suo film di viaggio dentro sé stessa, dentro la sua famiglia, le sue amicizie, i luoghi che ha dovuto lasciare molti anni prima per capire chi era veramente e cosa è diventata la giornalista romantica e piena di sogni della sue giovinezza. La telecamera di Lidija è di rara dolcezza e sensibilità, ma anche senza reticenze, nel raccontare le proprie personali lacerazioni e quelle dei suoi familiari e amici che, in tutta evidenza, hanno vissuto un'altra guerra. C'è chi l'ha seguita nella fuga, come i suoi genitori, ma che non ha rinnegato gli ideali politici della propria giovinezza e non accetta la versione ufficiale di quei tragici eventi, c'è chi è rimasto e ha continuato a testimoniare la propria eroica opposizione alla violenza senza però accettare la criminalizzazione postuma del proprio popolo e c'è chi a quella violenza ha partecipato attivamente come emerge dallo straordinario dialogo con il cugino che ha fatto il cecchino nell'esercito serbo pieno di silenzi e di parole che raccontano altro da ciò che vorrebbero dire. Un percorso tormentato e lacerante in cui la regista mette a nudo le proprie contraddizioni e angosce, la sua incapacità di stabilire dove stanno il bene e il male, di catalogarli secondo le categorie morali che ha accettato per troppo tempo di assumere come le uniche valide (quelle stabilite dai vincitori come il padre le ricorda più volte), e la coscienza che quel destino di violenza che lei ha rifiutato e da cui è fuggita fanno comunque parte della sua vita. Lungo tutto il documentario si respira questo profondo senso malinconico di perdita che il viaggio di Lidija nel tempo (straordinario anche in questo caso il ritrovamento della casa in cui lei ha vissuto da bambina, ancora devastato dalla guerra, ma in cui, scopre, vive una famiglia di diseredati che ha conservato però i suoi vecchi libri di gioventù) e nello spazio con la lussureggiante campagna bosniaca illuminata dal sole estivo e la Sarajevo di oggi piena di vita e di colori diversi contribuiscono ad acuire. Resta la speranza di un futuro diverso, la gioia inconsapevole del bambino che Lidija porta con sé nel suo viaggio, la “vacanza” dallo scorrere della vita quotidiana che sempre attutisce e scolorisce tutte le angosce nell'oblio della routine sempre uguale per riconquistare una parte di sé, della propria storia e della propria identità. Come una ballata di Dino Merlin, famoso cantautore bosniaco anch'esso di Sarajevo, “My own private war” racconta la nostalgia di ciò che non c'è più sia a livello individuale che collettivo, ma anche la forza vitale di quello che resta, l'autunno delle nostre esistenze, a cui sempre succede la primavera e la voglia di continuare a vivere, pur nella consapevolezza di ciò che è stato.

Marcello Cella




Intervista a Lidija Zelovic

Abbiamo incontrato Lidja Zelovic a Firenze durante il Balkan Florence festival alla fine di febbraio. 

Il suo film finisce con una domanda che mi sono posto anch'io durante tutta la visione del film. Che cosa ha davvero perso lei con la guerra in Bosnia?

Quel tipo di fiducia che ti fa dire: “andrà tutto bene”. E questa tranquillità, questa sicurezza di avere in mano la tua vita è la perdita più difficile da accettare. Come voi io abitavo nella mia città, ma all'improvviso tutto è cambiato e mi sono dovuta adattare. Probabilmente adattarsi a nuove circostanze fa parte della crescita, ma la guerra lo fa in maniera violenta e in condizioni più dure. 

Mi sono sempre chiesto cosa succede quando qualcuno diventa testimone di una guerra, quando pensi “non voglio essere torturata, non voglio essere violentata”, cosa fare quando la tua coscienza è a contatto con cose così grandi e terribili, come la perdita improvvisa della propria casa, degli affetti...

La domanda è eterna e sono cose con cui ci si deve spesso confrontare. Io quando ero a Sarajevo avevo 21 anni, pensavo ad andare in giro con i ragazzi e non alla guerra, ero una ragazza fortunata e non pensavo minimamente alla guerra, non pensavo che la cosa mi riguardasse. E quando è successo io ho incolpato i miei genitori, ho pensato “fate qualcosa, qualsiasi cosa per fermare questo”. Poi quando sono cresciuta e con un figlio piccolo ho pensato “che cosa sto facendo io per cambiare il mondo?”, con i problemi ambientali, altre guerre. Io faccio film, documentari che alla fine vengono visti da persone che la pensano come me, che sono già sensibili a questi temi. In fondo anch'io prego per la mia chiesa, mentre il mio desiderio sarebbe quello di raggiungere altre persone. Una cosa che ho imparato dalla guerra è quanto il tuo mondo sia piccolo. Solo quando un evento così sconvolgente coinvolge anche persone molto diverse da te pensi alla necessità di costruire ponti per raggiungere le altre sponde, altrimenti questo fossato diventa sempre più grande e può diventare nazionalismo, può diventare guerra. La guerra è una cosa dura, incomprensibile che uno pensa “non mi capiterà mai”. La conseguenza di perdere la casa è un altro tipo di trauma perchè la casa non la ritroverai mai. Quando però accetti questo, vivi in modo meno stabile, il che ha delle conseguenze sulla tua personalità, ma impari a conviverci. Certo non è bello. Avrei preferito essere più stupida e meno sensibile e avere casa mia. Quello che mi ha insegnato la guerra è di apprezzare la vita che si vive, per esempio il fatto di essere qui oggi, di essermi alzata presto, di essere qui con voi. 

Perchè questo film?

E' una storia che ho sempre avuto dentro. Durante la guerra sei impegnato a sopravvivere. Ma poi sono passati due anni, cinque anni e continuavo a pensare cose diverse durante questi anni. Ad un certo punto, quando mio figlio che ora ha dieci anni, ha cominciato a chiedere che cosa era stato, a voler sapere, ho capito che dovevo fermarmi per lui e anche per fermare la guerra che era nella mia testa. C'è una parte di me stessa che mi piace molto, cioè il fatto di essere molto romantica, di vivere sempre in maniera positiva, ma quando mio figlio mi ha detto “l'Olanda non mi piace molto, torniamo in Jugoslavia”, ho pensato che avevo dimenticato di dirgli che la Jugoslavia non esiste più. Allora ho detto, “andiamo in Bosnia” ed è bello andarci per le vacanze, ma la vita lì è un po' più complicata. E anche per questo ho capito che dovevo raccontare la mia esperienza. La prima volta che sono tornata in Bosnia è stato una settimana dopo gli accordi di pace e avevo ancora questa idea romantica, “ok, la guerra è finita, non si spara più e tutto può tornare come era prima”. Ovviamente non era così. Ho cominciato a ritornare periodicamente in Bosnia, cinque anni dopo, dieci anni dopo, a ritrovare i miei amici e a provare il senso di colpa quando ti raccontano la guerra che tu non hai vissuto e rimani scioccato perchè nulla è come te lo eri immaginato. Così sono anche le relazioni con le persone che sono rimaste lì che sono diventate persone totalmente nuove. Non per colpa di qualcuno, ma perchè ognuno vive la sua propria guerra. Non c'è una verità che è migliore dell'altra. E' un processo da accettare e anche queste relazioni vanno rinnovate ogni momento. Io ho intitolato il mio film “La mia guerra privata” perchè io l'ho vissuta così. Il che non vuol dire che quella degli altri, che l'hanno vissuta in modo altrettanto personale, ma in maniera del tutto diversa non sia la verità.

Lei fa un mestiere, quella del giornalismo, che ha molto a che fare con la ricerca della verità. Lei quando torna in Bosnia si trova davanti a persone che hanno la loro verità e che non hanno alcuna intenzione di confrontarla con quella degli altri. Anche lei mi è sembrata in crisi durante alcuni confronti serrati con alcuni suoi amici e parenti.  E questo mi ha colpito molto. Poi volevo anche chiederle perchè inizia e finisce il suo film con le immagini dell'autunno. 

E' vero, come giornalista sono andata in maniera molto romantica e ingenua a cercare la verità. Quando però ti confronti con la realtà ti rendi conto, non che non ci sia, ma che magari è ancora troppo presto per accettarla e che magari è anche molto più articolata. D'altra parte però queste persone che mi hanno messo in crisi non le posso rifiutare, fanno parte di me anche se hanno una visione delle cose del tutto differente dalla mia. Quando ho accettato questo sono riuscita ad andare avanti. Ad esempio, c'era un mio amico che ero sicura avrebbe fatto il film perchè siamo amici e questa è la cosa più importante. E invece no. Lui aveva bisogno del suo processo di elaborazione ed in quel momento non lo poteva fare. Questo mi ha messo in crisi, ma anche questo è parte del film. C'è la tragedia della guerra, della morte, degli omicidi, ma c'è anche questo tipo di crisi che è una tragedia in sé. Quanto all'autunno, era mio padre che registrava queste cose e quando hanno cominciato a bombardare, la prima cosa che ha fatto è stato di prendere questi nastri e metterli in cantina al sicuro. Poi il tempo è passato e quindici anni dopo, le persone che erano andate ad abitare lì mi hanno contattata in Olanda e mi hanno spedito questo materiale. E' stato uno shock emotivo enorme. Quella era la mia vita, con le mie emozioni e mi sono rivista a 21 anni invincibile, ma anche ingenua a fare le interviste senza capire assolutamente quello che stava succedendo, ma quella era una parte di me che vorrei ancora avere e che comunque non è stata uccisa dalla guerra. C'è ancora in me quella parte romantica, invincibile. Per questo anche la scena finale è un omaggio a quella persona, a quella parte di me. 

Un'altra cosa che mi ha colpito molto del film è il momento in cui lei si confronta con quel suo cugino che durante la guerra ha fatto il cecchino. E' molto interessante perchè mentre lo osservavo parlare avevo l'impressione che non dicesse la verità. Volevo sapere se anche lei ha avuto la stessa impressione. 

Si. Ma anche questo è una questione di scelte. Quello che hai fatto è una cosa con cui dovrai sempre convivere. E questo vale anche per lui. Comunque è una persona a cui voglio bene, a cui sono molto legata e quando ho saputo che era un cecchino ho pensato “non lo voglio più vedere, così risolvo il mio problema”. Invece quando l'ho incontrato mi sono resa conto che era una persona importante, che mi mancava e quindi nella mia testa ho pensato “fa che non l'abbia mai fatto, fa che mi dica questa bugia”. E quando lui dice effettivamente “io non l'ho fatto” mi sono resa conto che non era vero e che comunque avrei dovuto vivere con questo non sapere perchè al 100% non lo saprò mai. E' un groviglio di emozioni. Quando si parla di guerra nei film si raccontano favole. C'è il buono e il cattivo, il bianco e il nero e se fosse così sarebbe tutto più semplice. Ma nella mia esperienza è tutto molto più complicato e mescolato. E' proprio questa la tragedia della guerra che volevo raccontare. Il fatto di non riuscire a segnare il confine fra il buono e il cattivo è proprio quello che ti mette in crisi. 

a cura di Marcello Cella
Firenze, Balkan Florence Festival, 26 febbraio 2017

Si ringraziano Cecilia Ferrara e Simone Malavolti per la gentile collaborazione.


My Own Private War (La guerra in casa)
regia di Lidija Zelovic
durata 57 min.
produzione: Serbia, Croazia, Paesi Bassi 
anno: 2016. 




venerdì 14 aprile 2017

Balkania 14 aprile 2017 - La Grecia da Panagoulis a Tsipras



Balkania ricorda la Grecia di Alekos Panagoulis con Efi Miskedaki, curatrice dell'edizione italiana del documentario "Cronaca della dittatura (1967-1974)" di Padelìs Vùlgaris, e Samantha Falciatori, autrice del libro "Alekos Panagoulis, il dovere della libertà". Poi parliamo della Grecia di oggi con un'intervista a Niccolò Zancan, inviato del quotidiano La Stampa di Torino e con il giornalista e scrittore greco Dimitri Deliolanes. Canzoni di Manos Loisos, Nikos Xiluris. Petros Pandis, Vassilis Papacostantinu, Maria Faranduri, Maria Dimitriadi, Dionisis Savopulos, Grigoris Biticozis, Manos Hadjidakis...


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venerdì 3 marzo 2017

Balkania 3 marzo 2017 

Voci dal Balkan Florence Festival




Balkania dedica uno speciale al Balkan Florence Festival di Firenze. Il festival cinematografico e non solo che da cinque anni l'associazione La Compagnia di Firenze organizza in collaborazione con OXFAM. Un racconto a più voci con Simone Malavolti e CeciliaFerrara, codirettori del festival, Selma Nametak, curatrice della mostra fotografica "Il paradosso balcanico. Balcani radici e (s)nodi di migrazioni" (con foto di Mario Boccia, Giuseppe Chiantera e Danilo Balducci), Simonetta Di Zanutto, giornalista e autrice dei testi della mostra fotografica itinerante e del relativo catalogo "Around Srebrenica", con fotografie di Alessandro Coccolo, con il fotografo Danilo Balducci, Riccardo Sansone, responsabile dei progetti di cooperazione nei Balcani per Oxfam, e i registi Danis Tanovic, Lidija Zelovic e Danilo Marunovic. Musiche di Mostar Sevdah Reunion, Dubioza Kolektiv, Dino Merlin.

https://www.mixcloud.com/marcellocella/balkania-3-marzo-2017-voci-dal-balkan-florence-festival-parte-1/
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Balkania 17 febbraio 2017

Cose turche. Dove va la Turchia di Erdogan?



Dove va la Turchia di Erdogan? Balkania ne ha parlato con Marta Ottaviani, giornalista e scrittrice, esperta di Turchia e autrice, fra gli altri, del recente libro "Il Reis. Come Erdogan ha cambiato la Turchia", e Lorenzo Marinone, giornalista e caporedattore per l'area Medio Oriente di East Journal. Musiche di Mercan Dede e Husnu Senledirici.


sabato 18 febbraio 2017


Balkania 10 febbraio 2017
Migranti: vivere e morire nei Balcani




Migliaia di migranti vivono e muoiono in condizioni subumane ai confini dell'Europa che conta, dalla Grecia fino all'Ungheria, passando per Serbia, Croazia, Macedonia, Bulgaria, nell'indifferenza dell'Unione Europea, dei politici e dei popoli impauriti dalla crisi. Ne abbiamo parlato con Maddalena Avon, volontaria e attivista della ONG Centro Studi per la Pace di Zagabria, Mauro Mondello, giornalista free lance e reporter di guerra per molte testate italiane ed estere, di ritorno da Belgrado, e il giornalista e fotografo Mario Fornasari, autore negli ultimi anni di alcuni bellissimi servizi fotografici sulla rotta dei Balcani, come "Exodus - Trappola nei Balcani". Musiche del musicista macedone Kiril Džajkovski.

venerdì 20 gennaio 2017




Lo Sparviero della Maremma. 
A tavola col brigante
di Maura Moscatelli
(Editrice effequ, Orbetello, 2016)

La Maremma è terra di sapori forti e di storie grasse, come la terra rossa, polposa che ne costituisce l’humus naturale. Se andate a cena in Maremma con persone originarie di quei luoghi non mancheranno mai una cucina saporita, abbondante e ricca, per quanto non molto complessa nella preparazione, vini pastosi in quantità e, soprattutto, storie e barzellette a sfondo sessuale piuttosto esplicite, nonché storiacce di violenza e di sangue che emergono all’improvviso durante la cena come la nebbia sulla laguna di Orbetello, dando un tocco di mistero a paesaggi che ispirano apparentemente solo pensieri idilliaci e pacate riflessioni sul senso della vita. Ma della vita fa parte anche la morte. E il popolo maremmano sembra esserne più cosciente di altri, forse per esorcizzarla ed allontanarne gli effetti nefasti, o forse per riaffermare al suo cospetto la propria inesauribile carica vitale. 
Se questa è la filosofia di fondo che alberga in Maremma il bel libro della maremmana doc Maura Moscatelli, “Lo Sparviero della Maremma. A tavola col brigante”, edito nel 2016 per i tipi della effequ, ne costituisce la quintessenza con una storia che racchiude in sé tutti gli elementi principali della sua terra: la storia (vera) del brigante ottocentesco Enrico Stoppa detto Righetto e della sua compagna, Ottavia, ex prostituta dalle forme generose e dalla vita altrettanto travagliata e costellata di sconfitte e resurrezioni improvvise, infarcita dalle ricette tipiche della cucina contadina maremmana che spesso proprio nei luoghi in cui è ambientata la storia raccontata dalla albinese Moscatelli hanno la loro origine. 
E dunque, mentre il lettore sta sulle spine per i delitti e le feroci imboscate ai ricchi possidenti della zona preparate e messe in atto dal brigante Righetto nelle campagne intorno a Talamone, da cui anni prima era partito Garibaldi con i suoi Mille alla volta della Sicilia borbonica da liberare, può prepararsi una gustosa bruschetta o farsi venire l’acquolina in bocca apprendendo le modalità di preparazione del pollo alla cacciatora o dei tortelli maremmani. Mentre indovina gli sguardi lascivi degli avventori della taverna gestita dall’Ottavia prepararsi mentalmente una panzanella o una schiaccia coi friccioli, oppure ordinarsi dei saporiti crostini toscani al ristorante mentre si intristisce per la tormentata fuga del brigante in Egitto, prima di rimanere a bocca aperta dall’orrore per la tragica e inevitabile fine di un personaggio nato e cresciuto sul lato sbagliato della vita in attesa di un buon bicchiere di Morellino di Scansano o di Bianco di Pitigliano. 
Ma non inganni l’andamento apparentemente svagato di questa recensione. “Lo Sparviero della Maremma” di Maura Moscatelli è libro dalla struttura narrativa ferrea e frutto di ricerche minuziose sul campo, negli archivi della Maremma e nel mistero spesso sanguinoso delle sue storie orali. Una storia che, attraverso le drammatiche vicende del brigante Righetto racconta una Maremma socialmente marginale e sconfitta, ma mai doma, un mondo atavico apparentemente lontanissimo dalla modernità eppure ancora ben presente in quei luoghi, una storia sociale senza redenzione e senza lieto fine in cui si ride e si piange di gusto allo stesso modo. Come nelle leggendarie cene con i maremmani in cui si ride grasso, si mangia e si beve in abbondanza, si raccontano storiacce di sesso e di sangue che coinvolgono spesso ignoti e misteriosi personaggi locali, magari si litiga lanciandosi addosso terribili minacce, prima di abbracciarsi come se niente fosse davanti ad un cinghiale in umido o una schiaccia di Pasqua ben innaffiata dal vino locale. 
Un libro per palati fini e stomaci forti. Astenersi vegetariani.

Marcello Cella


Tramonto sul mare nei pressi di Albinia




Anina Ciuciu “Sono Rom e ne sono fiera”
Contro la discriminazione, il razzismo 
e la violenza del pietismo

“Ci sono anche altri sogni, dei quali uno molto ricorrente. Mi vedo moderna, vestita secondo la moda occidentale, come sono oggi, mentre cammino per strada. Vicino a me c'è una ragazzina: piccola, lacera, miserabile. Sono sempre io, ma da bambina. Da bambina. Camminiamo insieme. Vedermi così è triste, ma insieme rassicurante. Sono i miei due lati che convivono uno accanto all'altro. Per sempre. Insieme”.
Senait G. Mehari, “Cuore di fuoco” (2006)

Non so se Anina Ciuciu conosca il libro di Senait Mehari, la storia autobiografica di una ragazzina eritrea, abbandonata dalla famiglia e ritrovatasi arruolata come bambina soldato nella guerra civile del suo Paese, prima di fuggire in Germania, insieme alle sue sorelle, e diventare una popstar, ma la sua storia assomiglia in modo significativo a quella di Senait. Con la differenza che Anina non viene da un paese in guerra, ma dalla Romania e dalla sua comunità Rom. Una Romania in cui i rom in un non lontano passato comunista erano trattati nel modo in cui lo descrive lei: “Sotto il regime comunista i rom non esistevano ufficialmente. Dagli inizi degli anni Sessanta, e in seguito con l'arrivo di Ceausescu, i rom divennero vittime di una politica di omogeneizzazione etnica. A quel tempo ad esempio ai rom era vietato parlare la loro lingua. Dal momento che il nostro popolo agli occhi del potere era sinonimo di povertà e sottosviluppo, lo stato fece di tutto per “rumenizzarci”. Coloro che non si sottomettevano, che non volevano diventare schiavi delle fattorie di stato erano condannati alla prigione o ai lavori forzati” (pag. 24-25). 
La famiglia di Anina viveva in un quartiere di Craiova, un quartiere ghetto, ma in cui la comunità rom locale aveva trovato un proprio modo di vivere e una relativa tolleranza. Ma un giorno il padre perde il lavoro che permetteva alla sua famiglia di vivere dignitosamente a causa di una “soffiata” di qualcuno che rivela la sua origine rom ai responsabili dell’ufficio in cui lavora e da lì iniziano i guai e la decisione di partire alla volta della Francia. Non che l’infanzia di Anina fosse tutta rose e fiori e la discriminazione era sicuramente qualcosa che mordeva la sua pelle e la sua anima. 
“I miei genitori hanno sempre cercato di darci il meglio, di comprarci le stesse cose degli altri perché non fossimo rifiutate. Sempre in quest’ottica, quando veniva a prendermi a scuola mamma si vestiva in modo da non attirare l’attenzione su di lei. Ma ad un certo punto le altre ragazzine della mia classe, che iniziavano ad avere dei dubbi, avevano fatto delle osservazioni. “Tu sei una rom!”, “sei una gitana!”, “sei sporca!”, mi dicevano. Col passare del tempo, dato che non rispondevo, le loro affermazioni si erano fatte più pesanti: “Non vogliamo giocare con te, vattene”, “abbiamo già le nostre amiche!”. Mi ricordo anche che quando arrivava il momento di mettersi in fila per due per entrare in classe nessuno voleva darmi la mano. (…) Le bambine della mia scuola non vollero mai giocare con me. Non capivo perché mi rifiutassero e non mi volessero. Quando ne parlavo con i miei genitori sentivo che anche loro ne erano feriti, ma mi dicevano che non importava, che le altre erano gelose perché avevo una cartella più bella della loro, che non erano migliori di me…Malgrado gli sforzi, anche se ero sempre ben vestita e lavoravo duramente in classe, mi rifiutavano sistematicamente, semplicemente perché sospettavano la mia appartenenza alla comunità rom. Per quanto mio padre tentasse di rassicurarmi, di dirmi che non importava, io soffrivo molto per la situazione. Avevo solo sette anni, come le altre bambine della mia classe. Come si può essere così crudeli sin da piccoli? Come si possono pensare certe cose a quell’età?” (pg. 31-33). Quindi nonostante gli sforzi della sua famiglia di comportarsi e avere uno stile di vita simile agli altri, nonostante il tentativo dei suoi genitori di dissimulare, di nascondere le proprie origini, Anina ed i suoi famigliari sono costretti ad intraprendere il loro “viaggio della speranza” verso occidente nelle stesse condizioni spaventose in cui lo fanno tutti i giorni i migranti dal sud del mondo affidandosi a passeur avidi e senza scrupoli.  
“Preferisco dimenticare quel viaggio, dimenticare quelle lunghe ore passate nel camion, senza bere né mangiare” (pg.43).  
Ma l’arrivo si rivela perfino peggio. La famiglia di Anina non è arrivata in Francia, ma a Roma, nel campo rom più grande e degradato d’Europa, Casilino 900, “un accampamento squallido, il posto in cui scaricavano i rom, i candidati all’esilio, il posto in cui i passeur corrotti scaricavano le loro prede. (…) Vedendo quel posto immondo mi misi a piangere. Non avevo mai visto una simile miseria, una tale desolazione. Quando ci ripenso, mi dico che effettivamente non ho mai conosciuto niente di peggio. Era un’immensa discarica con rifiuti ovunque. E quando dico ovunque, soppeso le parole: non solo ricoprivano il suolo, ma ve n’erano appesi ai tetti, altri volavano nel vento. Tra le carcasse di auto abbandonate, le assi dei pallet e i detriti di ogni genere c’erano delle galline, dei galli, dei cani, dei ratti, dei bambini. (…) Dal primo giorno, da quando mettemmo piede in quel campo, iniziammo a piangere. Tutti piangevamo e volevamo rientrare, tornare nella nostra terra. Li era ancor più miserabile che in Romania” (pg. 47-49).
Seguono sei mesi di inferno, di stenti, umiliazioni, fame e malattie. Sei mesi in cui l’unico sogno è fuggire da quell’incubo, sopravvivendo a tutto. Ma per farlo servono soldi che i genitori di Anina non hanno. Così la bambina e sua madre conoscono per la prima volta l’umiliazione di chiedere l’elemosina.
“Avevo vergogna.
Avevo vergogna per mia madre, obbligata a chiedere l’elemosina per darmi da mangiare.
Vergogna nel dirmi che lo faceva per me e le mie sorelle.
Vergogna perché avevo sette anni, e nessuna bambina di sette anni dovrebbe chiedere l’elemosina per strada, su un marciapiede” (pg. 53).
E il comportamento degli italiani nei confronti dei rom non è migliore di quello dei romeni.
“Se i rom in Romania erano considerati come “mezzi uomini”, qui in Italia erano assimilati ai parassiti” (pg.55). 
Quindi di nuovo la fuga. Anina e la sua famiglia riescono finalmente a trovare i soldi e la fortuna per arrivare in Francia. Ma anche in questo nuovo Paese le cose all’inizio non migliorano molto. Con la solita trafila di clandestinità, scarse possibilità di accesso ai servizi sociali, altre fughe, altre umiliazioni e ancora l’elemosina. 
“Quando sentivamo certe persone dire che mendicare è una vita facile, avevamo solo un desiderio: rispondergli che non è un piacere, ma una necessità, una risposta all’istinto di sopravvivenza, e che non avevamo scelta perché ci vietavano di lavorare. Non avrei mai chiesto l’elemosina se avessi avuto altra scelta” (pg. 78). 
L’esistenza e il destino di Anna e della sua famiglia sembrano segnati, fino a quando, all’improvviso, la loro vita cambia grazie all’incontro con due persone, un’infermiera, Marie Claude, e, soprattutto, un’insegnante dal cuore grande, Jacqueline. Il racconto di questo incontro è una delle pagine più toccanti del libro.
“Una mattina dell’aprile del 1999, mamma ebbe un incontro che rivoluzionò le nostre vite.
Da diverse settimane ogni mercoledì, giorno del mercato, una donna le dava una o due monetine. Ma quel giorno la donna si avvicinò a mia madre, si inginocchiò davanti a lei e, porgendole la sua offerta, le disse: “Romania”.
(…) In quel preciso momento il suo viso si illuminò. Tentarono poi di approcciare un dialogo ma mamma non parlava una parola di francese. (…) Malgrado tutto attraverso i gesti e le movenze finirono per capirsi. Quella donna distinta aveva in pochi secondi analizzato la nostra situazione e capito l’urgenza.
Ritornò la settimana seguente accompagnata da suo figlio. (…) Anche lui si chinò per darci una moneta e qualche frutto. Ci diede anche il buongiorno, sorridente. E a quel punto vidi un immenso sorriso illuminare il viso di mamma, felice che un ragazzino francese non la considerasse una nullità.
Con le poche parole di francese che conoscevo cercai di raccontare loro la nostra storia. La signora mi disse di chiamarsi Jacqueline, e suo figlio Alexis. Mi disse anche che lei e suo marito si erano recati spesso in Romania e che conosceva il nostro paese, il nostro popolo.
Per lei non eravamo né rumeni né rom ma gente bisognosa, abbandonata da tutti e caduta nella miseria. Attraverso i gesti mia madre le spiegò dove vivevamo. L’indomani fu un gran giorno per noi: la signora Jacqueline venne a farci visita. Voleva incontrarci a casa nostra, nel nostro camioncino, lontano dal marciapiede dove chiedevamo l’elemosina. Quel giorno pioveva a dirotto. Era mattina. Me lo ricordo molto bene. 
Mamma aveva svegliato me e le mie sorelle e ci aveva fatte tutte belle. Aveva anche fatto le pulizie nel furgoncino e preparato della cioccolata calda. Io e Maria stavamo disegnando sui nostri quaderni quando la signora Jacqueline arrivò. 
Era molto sorridente ma si vedeva anche la sua commozione nel vedere la miseria di quel luogo che ci faceva da casa. Bevve la cioccolata insieme a noi e ci domandò se fossimo già andate a scuola.
“Certo”, le risposi. “Ma io non ci voglio più andare. La mia maestra a Macon mi diceva che ero stupida, che non ero capace di leggere”.
Allora la signora Jacqueline mi guardò, analizzò i nostri quaderni con le lacrime agli occhi, e con la sua voce dolce mi rispose: “Io ti insegnerò a leggere”. Poi voltandosi verso Maria le promise: “Anche a te, piccola mia” (pg. 81-82).
Da quel momento la vita di Anina e della sua famiglia cambiano. Grazie all’aiuto di Jacqueline i suoi genitori riescono a regolarizzare la loro posizione e Anina ad andare a scuola, a finire le elementari, a fare le medie, le superiori, ad iscriversi all’università fino alla laurea in legge. Sempre senza aver paura di mostrare agli altri ciò che è. 
“Arrivata all’università ebbi anche il coraggio e la maturità di dire che ero rom. Ebbi il coraggio di affermarlo senza vergogna. Ogni volta che me lo chiedevano, rispondevo: “Si, si, sono rumena”. E precisavo anche: “Sono rumena, ma soprattutto rom di Romania” (pg. 114). Ma Anina ormai è anche francese: “Oggi mi sento più francese che rom. Vivo come una francese, penso in francese, ma resto rom e a casa tutti parlano romani’. E’ il nostro modo di non dimenticarci da dove veniamo. Quando vedo le immagini mediatiche degli smantellamenti dei campi rom mi sento scossa, è ovvio. So quel che stanno vivendo, ci sono passata. So cos’è la miseria. In fondo a me stessa sono sempre la bambina di Craiova. I ricordi restano, anche se il mio futuro è in Francia. Ma una parte di me è a Craiova, nella stradina di pietra dive vivevamo tutti insieme” (pg.154). 
Oggi Anina è una ragazza francese, fresca di laurea in legge alla Sorbona e che diventerà magistrato. Una storia apparentemente a lieto fine anche se costellata di sofferenze inimmaginabili, raccontate lucidamente e senza retorica in pagine che ricordano a tratti il Primo Levi de “La tregua”. E la condizione di discriminazione e di violenza che subisce il popolo rom è spesso troppo simile a quella degli ebrei perseguitati dai nazisti. Ma Anina guarda avanti senza dimenticare mai chi è e da dove viene e conclude la prima parte del suo libro con una supplica a noi gagè. “Vi supplico, quando domani per strada incrocerete una signora con la schiena curva, con un cartello di cartone sulle ginocchia, quando vedrete che accanto a lei c’è seduta una bambina dai capelli lunghi e neri, non giudicatela, non insultatela, non picchiatela. Ho vissuto tutto questo e ne sono stata segnata a vita. Ma oggi, davanti a me, ci sono le porte della Sorbona che si aprono” (pg. 164).
Tutto finito, dunque? Per niente, perché Anina aggiunge al libro una seconda parte che per certi versi è anche più sofferta. Una seconda parte scritta dopo la prima pubblicazione del libro in Francia che assume la funzione di specchio, di riflessione sulle reazioni al libro e al suo nuovo ruolo di figura pubblica improvvisamente assurta ad un rango di notorietà, di “eccezionalità” che cela forme più raffinate e subdole di discriminazione. 
“Cosa c’è di straordinario nel fatto che una giovane rom studi diritto alla Sorbona? (…) Quello che dovrebbe essere presentato come straordinario è la violenza che ci è stata fatta, a noi e a tanti altri, per il solo fatto di essere rom. (…) E’ questa violenza che dovrebbe essere presentata come di eccezionale gravità, che dovrebbe spaventare, rivoltare, commuovere, stupire, e non l’attitudine per lo studio universitario di una giovane rom. Perché quello che ho dovuto sconfiggere con la volontà, gli sforzi, i sacrifici miei e della mia famiglia, e l’aiuto di buoni samaritani, non è una malattia, un handicap legato alla mia natura rom, ma concretamente l’ostilità di una società politica schizofrenica che prima ci esclude dai ranghi degli “uomini liberi ed uguali nel diritto” e poi ci accusa di una presunta indole alla non integrazione, come per giustificare i suoi meccanismi di esclusione ed accanimento. Allora come potrei non sentirmi asfissiata da questo abito che mi si vuole incollare addosso, quando il quotidiano più letto della Francia il 2 maggio del 2013 intitolava: “Anina Ciuciu, ex mendicante Rom e futuro giudice”? (…) No, non sono nata mendicante. Sono le politiche che si sono succedute a rendermi tale, come potrebbero farlo con ognuno di voi” (pg. 168-171).
Ed è qui che la palla passa sopra la rete dei media per atterrare nel nostro campo di cittadini mediamente democratici e progressisti, nel campo della nostra identità assopita dal consumismo e dal conformismo, della rassicurante pietà verso il diverso, verso il povero, a cui facciamo volentieri l’elemosina ma non siamo altrettanto pronti ad accordare diritti.
“In effetti se l’indifferenza mi ferisce, la pietà mi fa ancora più paura: è una doppia violenza perché riflette nello sguardo dell’altro quella vergogna che, dentro, sta già devastando colui che ne è oggetto, e dà il colpo di grazia alla sua dignità. Peggio ancora, accettare la pietà equivale ad accettare la miseria che l’ha generata, e accettare quella situazione di implacabile inferiorità che rende dipendenti dalla misericordia altrui ed infligge un danno irreparabile alla dignità, alla fierezza e all’orgoglio, che si ritrovano segnati per sempre come da una cicatrice indelebile” (pg.173).
Ma nella sua analisi sulla condizione del popolo rom e sul nostro modo di considerarlo, Anina si addentra ancora più in profondità, fino a considerare, all’interno di un universo umano discriminato quell’ulteriore forma di discriminazione che colpisce le donne in quanto tali, comune spesso a tutte le comunità marginalizzate.
“Partite da lontano, per raggiungere l’uguaglianza le rom devono far cambiare anche i rom e la percezione che hanno di loro stessi, e questo è il loro primissimo compito. Perché degradati, declassato da una società politica che li svilisce e li rifiuta solamente per quello che sono, dei rom, l’unico modo che hanno per difendere la propria integrità, l’autorità che li definisce come uomini, e il loro orgoglio ferito, è a loro volta dominare il più debole.
E chi può essere più debole se non le loro donne, che si trovano in una situazione di fragilità sociale amplificata dall’essere mantenute in uno stato di minorità all’interno della stessa comunità marginalizzata? 
Ecco perché saranno emancipate solo emancipando gli uomini stessi, e cambiando innanzitutto l’immagine devastata che hanno di sé rispetto ai gagè. Quando rifiuteranno l’umiliazione politica permanente, considerandosi uguali agli altri all’interno della società, non avranno più bisogno di dominare le proprie mogli.
E per sentirsi uguali dovranno affrontare e superare la vergogna e la violenza politica di cui sono oggetto. È solamente cosi che si ritroveranno fieri di ciò che sono davanti a tutti, e non solo gli uni di fronte agli altri all’interno della comunità.
È compito delle rom far capire tutto questo agli uomini” (pg. 195). 
Parole che fanno riflettere anche considerando altri contesti in cui si manifesta il malessere che attraversa le nostre società e che si esprime con la violenza verso i più deboli e contro le donne in particolare. Ma Anina si spinge ancora più in avanti, non si limita a raccontare il passato e a fotografare il presente. Cerca anche di partecipare alla realizzazione di un futuro diverso. Infatti il 13 maggio 2016 Anina, in occasione della Festa dell’Insurrezione Gitana in ricordo della rivolta di uomini e donne rom contro i nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz Birkenau il 16 maggio 1944, un episodio di ribellione ai nazisti ben poco conosciuto, ha partecipato alla fondazione di un nuovo movimento politico, il Movimento 16 maggio, pronunciando una solenne “Dichiarazione d’indipendenza e d’amore” sul sagrato della Basilica di Saint Denis insieme ad altri 50 rom. 
“Noi, rom, siamo belli, ma ovunque il vostro mondo ci imbruttisce.
Sui vostri marciapiedi, nelle vostre prigioni, nelle baraccopoli che i vostri stati ci costruiscono, il vostro mondo ci imbruttisce, salvo nei vostri sogni, nei vostri circhi, sui vostri palchi o nei vostri film.
La vostra immaginazione è il nostro spazio politico. Solo nei vostri sogni siamo liberi.
Mai appariamo a voi senza una maschera, per piacervi, o sottometterci.
È un gioco cosi’ vecchio che ormai ad entrambi sembra naturale.
Quando gli stati cercano di distruggerci, è sempre davanti ai vostri giudici che sono chiamati a risponderne. E tutti sono assolti.
E alla fine, nei vostri tribunali, perfino i nostri morti sono sempre presunti colpevoli. (…)
Anche quando gli stati tentano di curare il male che, come vedete, ci rovina la vita – la vecchiaia sul viso di una giovane mamma, l’infezione al fegato di un figlio che muore a ventisei anni, i polmoni delle ragazzine avvelenati dalla vicinanza di una fabbrica di cemento, il cadavere carbonizzato di un neonato nella miseria delle vostre città – lo fanno con l’idea che la fonte di questo male sia in noi, e che per curarlo dovreste farci smettere di essere noi stessi. La chiamano integrazione, che è un altro modo di distruggerci. 
Basta guardare: più le politiche d’integrazione si intensificano e più noi soffriamo, ovunque in Europa. Ma ormai lo sappiamo, non è in noi l’origine del male di cui moriamo. Man mano che le nostre sofferenze crescono, i vostri mostri politici appaiono: i muri, la polizia di frontiera, i campi di concentramento in Grecia in cui tenete i rifugiati. Anche il mar Mediterraneo, che vi ha dati alla luce, sta diventando un carnaio. E state pur certi, cari fratelli e care sorelle rom, che ciò di cui muoiono i bambini, le donne e gli uomini che arrivano dall’Africa o dalla Siria, è lo stesso nostro male. Moriamo tutti di questa Europa.
Oggi in memoria della rivolta delle donne e degli uomini che il 16 maggio 1944 si ribellarono nei “campi delle famiglie gitane di Auschwitz Birkenau”, noi uomini e donne in vita dichiariamo la nascita del Movimento del 16 Maggio. 
Il Movimento del 16 Maggio è un’organizzazione politica rom autonoma, una medicina con la quale abbiamo deciso di curare da soli il male di cui soffriamo. Siamo grati ai vostri rimedi, ma finora sono stati più che altro un veleno. La nostra salute dipende solo da noi. Ormai lo abbiamo capito: non è imitandovi che staremo meglio, perché sappiamo che anche voi siete malati. 
Quando avremo lavato via la bruttezza e curato le cicatrici che il vostro razzismo, la vostra violenza e la vostra pietà hanno inciso sulla nostra pelle, sarete voi a voler essere come noi, e non solo portando le nostre gonne e i nostri cappelli. Vorrete assomigliare a quello che siamo, e come non ci avete mai visti. Dalla nostra salute dipende anche la vostra. Poiché se noi siamo quelli che soffrono, il male è tra di voi” (pg. 201-203).
Pochi libri riescono, a partire da un microcosmo dimenticato e disprezzato, ad illuminare tutta la scena sociale di cui fa parte. “Sono rom e ne sono fiera. Dalle baracche romane alla Sorbona” di Anina Ciuciu per le meritorie Edizioni Alegre di Roma, è uno di questi perché non solo è una grande storia drammatica e a suo modo epocale, seppur rischiarata da un lieto fine che però non ne attenua la problematicità, ma ha il merito di andare oltre il suo fine di denuncia per fornire importanti chiavi di lettura del nostro tempo e delle disuguaglianze che lo attraversano. Un libro a suo modo imprescindibile.

Marcello Cella