giovedì 22 dicembre 2016

http://www.paololapi.it/critica_cella.htm
Un articolo del 2005 per ricordare l'amico pittore Paolo Lapi scomparso in questi giorni


La rivoluzione poetica del colore

"Non cambia il mondo/
se non cambia il mio/
non cambia il mondo/
ma forse cambio il mio"
Marco Parente, "w il mondo"



Pochi pittori come Paolo Lapi sfuggono ad ogni catalogazione stilistica, tecnica e di contenuto. Fedele solo all'innocenza del proprio sguardo bambino sul mondo e sulle cose e alla propria indipendenza intellettuale, Paolo Lapi, nel corso della sua carriera artistica più che cinquantennale, ha attraversato mode e stili rimanendo sempre coerente con la sua ricerca artistica di una verità poetica scevra dalle influenze del momento storico in cui essa avveniva. Innamorato del colore, il vulcanico artista pisano ha impostato tutta la sua ricerca estetica e poetica su questo elemento che è il vero trait d'union, di tutte le fasi artistiche in cui essa si è sviluppata. Inizialmente applicata ad una pittura influenzata dal naturalismo di derivazione macchiaiola e dalla realtà della terra Toscana, altro elemento importante presente nella sua opera, la ricerca sul colore di Lapi ha progressivamente abbandonato i riferimenti diretti alla realtà fenomenica per allargare il suo spettro, a partire dai tumultuosi anni Sessanta del secolo scorso, ad una pittura in cui il dato realistico viene filtrato dalla propria interiorità, dalla memoria, dalla fantasia per assumere forme e significati più informali e fantastici. Così la sua iniziale stagione di contenuto naturalistico (figure umane, paesaggi, nature morte) si è evoluta in una fase in cui la ricerca sui colori puri (rossi, gialli, blu) ha prevalso su qualsiasi considerazione stringente di contenuto o di fedeltà alle convenzioni accademiche, in una pittura liberata, di coraggiosa rottura anche ideologica in tempi in cui le ideologie contrapposte dominavano producendo i danni morali e materiali che il nostro Paese ha conosciuto. 


Una produzione fluviale che, pur non abbandonando il dialogo con la natura e il paesaggio, inteso anche come visione e interpretazione dell'esistenza umana, si esprime in numerosi cicli pittorici costruiti a mosaico, a frammenti come collage, in cui la visione di un tutto è costituita da parti (quadri) che si integrano a vicenda in funzione dell'insieme. Una frenesia produttiva in cui l'urgenza espressiva del pittore si realizzata in un "work in progress" continuo, in una sperimentazione tecnica dinamica (disegni, tempere, tecniche miste, pitture ad olio e acrilici, installazioni, gouaches, ecc.), anche se lontana da ogni sterile intellettualismo. Perché il bello della pittura di Paolo Lapi è che, qualunque sia il soggetto rappresentato o la tecnica utilizzata, per essere apprezzata pienamente deve essere 'sentita', passare attraverso l'emozione di chi la osserva prima di essere interpretata dalla sua razionalità cosciente. Un po' come i disegni dei bambini che sfuggono sempre all'analisi critica a causa della loro apparente `leggerezza': quella leggerezza innocente e trasgressiva proprio perché estranea agli schemi usurati della razionalità adulta, più adatti a catalogare la realtà, sterilizzarla e ucciderla piuttosto che a favorirne il cambiamento. La stessa di cui parlava Italo Calvino nelle sue "Lezioni americane": "Nei, momenti in cui il regno dell'umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell'irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro...". 


Ciò che importa per Lapi è la ricerca di un contatto quasi in presa diretta con la realtà, una registrazione istantanea di sentimenti e pulsioni evidente in mostre come 'Le carte" del 2000 o in quelle più attuali influenzate dai racconti orali della cultura africana. Il che non deve però far pensare ad una ricerca pittorica approssimativa o ad un eclettismo superficiale. Perché l'uso del colore nella sua pittura non è mai finalizzato a solleticare un facile consenso da parte dei fruitori, ma è sempre accompagnato dall'idea, dal progetto. Anzi, si fa esso stesso progetto, sintetizzando in sé il superamento del classico dualismo tra sensazione (colore) e costruzione (forma plastica, volume, spazio). Cosicché, come è già stato affermato da numerosi critici, il colore nella pittura di Lapi diventa elemento strutturale della visione e il dipinto acquista totale autonomia dal soggetto letterario o di attualità svelandone peraltro punti di vista e suggestioni inedite. E il suo presunto eclettismo non deve far pensare ad uno sguardo disimpegnato, superficiale o ambiguo sulla realtà della sua epoca, perché invece costante è rimasto nel tempo il suo desiderio di intervenire nella realtà politica e sociale contemporanea, come dimostrano il ciclo dei "carri da guerra" degli anni Settanta, il bellissimo dipinto dedicato alla morte dell'anarchico Serantini, i quadri sulla guerra in Bosnia o quelli più recenti sulla guerra in Iraq. 


























La sua fuga dagli schemi ideologici troppo strutturati come dalle esplicite implicazioni politiche o etico-religiose deve essere vista come fuga dalle trappole della razionalità adulta, come strenua difesa della capacità di scoperta del proprio sguardo poetico, violentemente 'innocente' come quello dei bambini, in cui cronaca quotidiana e tempo del mito e della storia, raffigurazione e trascendenza, suggestioni esterne e interiorità poetica si fondono in una pittura pastosa e densa, naturalistica e astratta allo stesso tempo, il cui tratto essenziale rimane il suo dinamismo interiore, la sua inquietudine stilistica, il suo non accontentarsi mai dei risultati raggiunti, il suo guardare sempre oltre ciò che è e che, in quanto tale, è già stato, per proiettarsi verso quello che sarà o potrebbe essere. Infatti la storia, la tradizione non sono mai concepite da Lapi come concezioni statiche ma sempre come movimento in divenire che non consente ripetizioni, come inesauribile anelito al cambiamento di una realtà umana violenta e mediocre. E il mondo non cambia se non cambia prima di tutto il nostro.

Marcello Cella







Una riflessione su “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi e sull'estetica del selfie dominante nel mondo attuale dei media. 



“Fuocoammare” e l'estetica del selfie 

“I viaggi moltiplicano le vite degli uomini” 
Banana Yoshimoto, “Un viaggio chiamato vita” 








“Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film di viaggio girato come un documentario oppure un documentario girato come un film di viaggio, a seconda di come lo percepisce lo spettatore. Un film di  viaggio all'interno di  un'isola, Lampedusa, sembra una contraddizione in termini. Eppure la narrazione di Rosi si struttura per accumulazione di momenti visivi, incontri, dialoghi, divagazioni apparentemente laterali che stanno tutti sullo stesso piano, come se il regista si mettesse nei panni di un viaggiatore che nulla sa di Lampedusa e della sua drammatica attualità di approdo per migranti che arrivano dall'Africa in fuga da guerre e miseria, e che scoprisse questa realtà, la vita dei migranti e di chi li accoglie, ma anche molte altre storie, per la prima volta. E per la prima volta riflettesse su ciò che accade sull'isola, sul suo passato fatto di dura vita da pescatori, di storie di fatica e di mare, e sul suo posto nel mondo esattamente come accade a Samuele, il ragazzino-viaggiatore che in qualche modo unisce con la sua presenza, ma soprattutto con il suo sguardo indagatore e incantato di bambino i vari momenti narrativi di cui è costituito il film. Questo è lo stesso sguardo che assume Rosi per raccontare la sua storia-non storia, fuori da qualsiasi cliché televisivo o giornalistico, di cui la vicenda di Lampedusa è inevitabilmente intrisa con le sue scorie di attualità stracciona che tutto pretende di spiegare e catalogare e tutto ciò che non rientra nelle categorie pre-definite, pre-masticate lo lascia nell'ombra. Rosi invece procede in modo inverso. Parte dalle ombre, dai momenti apparentemente morti, dalle situazioni che sembrano far parte di una realtà misteriosa, atavica e forse magica per poi emergere all'attualità dei migranti in fuga e di chi li accoglie senza giudicare e senza usare le immagini per costruire il classico menù pietistico che da troppo tempo serve solo a mascherare la falsa coscienza di chi non vuole fare i conti con le proprie contraddizioni culturali, economiche, politiche e sociali. Uno sguardo apparentemente vuoto, ma che lascia allo spettatore il tempo per riflettere su ciò che vede  e su ciò che non vede, ma che Rosi lascia immaginare, e che disegna spazi che non hanno sempre bisogno della presenza umana per essere significativi. 





Tutto il contrario di quanto avviene nell'estetica dominante attualmente nel cinema e su tutti i media, mutuata direttamente dall'individualismo autoreferenziale tipico dei social network, quella che potremmo definire “l'estetica del selfie”. Come è noto il selfie, termine derivato dalla lingua inglese, è un “autoritratto realizzato attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi o verso uno specchio, e condiviso sui social network”, come recita la Bibbia Wikipedia. E' quindi per sua natura uno spazio pieno, occupato dall'ossessiva presenza umana che sovrasta qualsiasi elemento paesaggistico o ambientale relegandolo in secondo piano. Inoltre è il contrario del tempo vuoto della vita che scorre nel suo flusso naturale, ma sottintende un tempo pieno in cui deve essere presente, in modo altrettanto ossessivo, una qualche azione umana, per quanto priva di significato essa sia, purchè sia visibile e “rumorosa”. Infatti anche i silenzi o il suono naturale delle cose, quello che pervade gli ambienti, naturali o artificiali, sono nemici del selfie che presuppone anche a livello sonoro un suono che riempie tempi e spazi, che annulla qualsiasi fonte sonora esterna all'esibizione della presenza umana, all'esibizione di sé, come succede quando si usa l'i- pod, parente stretto del selfie, e si sovrappone ai rumori, alle voci, ai suoni del mondo esterno la propria individuale colonna sonora.  Ma anche a livello narrativo l'estetica del selfie si esprime con la negazione dell'orizzontalità della narrazione, quella seguita dal film di Rosi, in cui si alternano momenti e situazioni ugualmente importanti sul piano esistenziale, per prediligere una verticalità narrativa artificiale e standardizzata che considera inutile tutto ciò che non fa progredire (“produrre”) la storia secondo una logica che tiene conto solo delle azioni umane, spesso decontestualizzate e del tutto gratuite, ma che danno allo spettatore un senso di stordimento e di apparente partecipazione emotiva alle situazioni del film, per poi lasciarlo vuoto e disorientato come dopo un rave party. 



Ciò che lascia poi lo spettatore dopato da overdose di selfie completamente stupefatto di fronte ad un film come “Fuocoammare” è l'assenza della voce narrante che in genere orienta (e spesso manipola) l'interpretazione dei fatti narrati da parte dello spettatore in questo genere di film o di documentari secondo una pessima abitudine televisiva che prevede appunto la presenza ossessiva della voce narrante e la stessa esibita presenza fisica del “narratore interno” (giornalista-conduttore) che sovrasta la semplice immagine audiovisuale di tali fatti, la loro profondità (di campo) e quindi la stessa possibilità del formarsi nella mente dello spettatore di interpretazioni alternative a quella sostenuta dal narratore interno. 




L'estetica del selfie che un film come “Fuocoammare” contraddice platealmente è quindi un'idea del cinema (e dei media) e quindi del mondo come luogo del cambiamento, come luogo del movimento fisico e mentale (motion-emotion, come rileva spesso un regista come Wim Wenders)libero da pre-giudizi, da mercanzia pre-confezionata, da mappe pre-masticate e aperto agli imprevistidella realtà, agli incontri non pre-visti, agli infiniti incroci esistenziali. Come nel viaggio raccontato dalla scrittrice giapponese Banana Yoshimoto nel suo romanzo “Un viaggio chiamato vita”: “La sola cosa che non cambia mai è una sensazione che precede ogni viaggio: non tornerò uguale a prima. Credo che sia la sensazione più importante, quando ci si mette in viaggio”. Anche Samuele, il bambino protagonista di “Fuocoammare”, alla fine del suo personalissimo viaggio nel passato e nel presente della sua isola, della sua Lampedusa, non sarà più uguale a prima, ma più forte, più consapevole, più maturo e forse, a sua volta, pronto per un nuovo viaggio. 


Marcello Cella



Fuocoammare 
Regia: Gianfranco Rosi. 
Attori: Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe 
Fragapane, Maria Signorello, Francesco Paterna, Francesco Mannino, Maria Costa 
Soggetto: Carla Cattani 
Sceneggiatura: Gianfranco Rosi 
Produttori: Gianfranco Rosi, Paolo Del Brocco e Donatella Palermo 
Fotografia: Gianfranco Rosi 
Montaggio: Jacopo Quadri 
Musiche: Stefano Grosso 
Durata; 107 minuti 
Produzione: Italia-Francia 
Anno: 2016. 

domenica 18 dicembre 2016


Venerdì 16 dicembre 2016 è tornato a trasmettere Balkania sulle onde di Radio ROARR (www.radioroarr.org) con uno speciale sulla giovane scrittrice Rom francese Anina Ciuciu, autrice del libro "Sono Rom e ne sono fiera" (Edizioni Alegre, 2016) e protagonista di un emozionante incontro pubblico a Pisa l'8 dicembre 2016 presso la sede della Tavola Valdese, organizzato da una serie di associazioni di volontariato come Articolo 34, Africa Insieme, Associazione 21 luglio, Associazione Civic, Famiglia Aperta, Scuola Mondo di San Giuliano Terme e la stessa Balkania. Interventi di Sultan Dibran, Carlo Stasolla (Associazione 21 luglio) e Sergio Bontempelli (Africa insieme). Musiche tratte dalla raccolta "World of Gypsies vol.1, vol.2, vol.3" (2000-2003)...Il podcast della puntata di Balkania si  può ascoltare al seguente indirizzo: 
https://www.mixcloud.com/marcellocella/





Sulla pagina dedicata agli approfondimenti tematici legati a Balkania, e cioè "Amici di Balkania"
potete trovare materiale di approfondimento sulla puntata di Balkania dedicata ad Anina Ciuciu: interviste, recensioni e video tratti da fonti di stampa italiane, francesi e romene....veniteci a trovare e iscrivetevi...

martedì 9 agosto 2016


Proteggici dal male...e dalla stupidità e dall'avidità che ne sono la causa



“Ovunque proteggi” di Massimo Bondioli. Il racconto della notte del 29 giugno 2009 nella stazione ferroviaria di Viareggio. La strage che ha ucciso 32 persone bruciate vive nelle loro case.

Ho sassi nelle scarpe
e polvere sul cuore,
freddo nel sole
e non bastan le parole.

Mi spiace se ho peccato,
mi spiace se ho sbagliato.
Se non ci sono stato,
se non sono tornato.

(...)

In ricchezza e in fortuna,
in pena e in povertà,
nella gioia e nel clamore,
nel lutto e nel dolore,
nel freddo e nel sole,
nel sonno e nell’amore.

Ovunque proteggi la grazia del mio cuore.
Ovunque proteggi la grazia del tuo cuore.

Vinicio Capossela, “Ovunque proteggi”

Come raccontare il dolore, la sofferenza umana senza essere retorici e senza cadere nella denuncia, magari anche giusta e motivata, ma fredda e spesso astratta? Chi fa documentari a carattere sociale conosce questa domanda e sicuramente al momento di realizzare il proprio lavoro trova anche una risposta possibile. Ma è una domanda terribilmente difficile a cui rispondere. Anche chi scrive, nel suo piccolo, a volte ha dovuto porsi questa domanda. In qualche caso ha deciso di procedere cercando di mantenere una posizione di assoluto rispetto della dignità delle persone e del racconto. A volte ha preferito, anche se a malincuore, rinunciare. Il bel cortometraggio del regista Massimo Bondioli, “Ovunque proteggi”, che prende il titolo da una famosa canzone di Vinicio Capossela e racconta la strage della stazione di Viareggio del 29 giugno 2009 in cui morirono 32 persone bruciate vive a causa del deragliamento di un treno merci in transito e della fuoriuscita di gas da una cisterna contenente GPL perforatasi nell'urto, a suo modo risponde alla domanda iniziale. Bondioli sceglie un percorso che non è solo di documentazione dell'ennesimo disastro italiano, dell'ennesima “strage che dimostra in maniera tragica lo sfascio, l'incuria e l'arroganza di chi governa”, come affermò a suo tempo il viareggino doc Mario Monicelli, a ridosso degli avvenimenti, ma la storia di una resistenza, di una forma di resurrezione dal dolore, di un “istinto disumano di sopravvivenza”. Un uomo corre lungo un viale, ai giardinetti, mentre intorno a lui la vita scorre come sempre, i passanti, i commercianti che ordinano la merce. Scene di vita quotidiana, come tante. Poi l'uomo si ferma. E' stanco. Rifiata. E il ricordo lo colpisce come l'esplosione di una bomba. La tenue tela autunnale dell'uomo che corre lungo il viale attraversato da un pallido sole autunnale viene squarciata dalla violenza brutale della cronaca dei fatti, dalla vera esplosione di un vagone merci caricato a GPL che mette a ferro e fuoco un intero quartiere di una tranquilla e un po' noiosa cittadina di mare, come se improvvisamente venisse trasformata in una qualsiasi cittadina del Medio Oriente dilaniata da una guerra lontana. Come se fosse Aleppo. L'uomo è Marco Piagentini e nella strage perse la moglie Stefania, 39 anni, e due figli, Luca e Lorenzo, di 4 e 2 anni. E' uno dei due protagonisti del documentario, insieme a Daniela Rombi che, dopo 41 giorni di agonia, vide morire per le ustioni anche Emanuela, la figlia di 21 anni. Il cortometraggio, sceneggiato insieme a Luigi Martella e prodotto dalla Caravanserraglio Film Factory, è stato premiato recentemente al Global Short Film Festival di New York. “Ovunque proteggi” è un esempio raro di equilibrio e sensibilità, frutto di un lungo lavoro a stretto contatto con i familiari delle vittime (10 mesi) e dove la denuncia emotiva delle malefatte del potere (che pure ci sono e grandissime) o la retorica dei sentimenti non è di casa. Lo spiegano bene gli autori nel filmato extra contenuto nel dvd su una bella e commovente manifestazione dello scorso anno a Viareggio, seguendo il filo delle riflessioni su alcune parole chiave come “ricordare”, “dimenticare”, “compatire”, “condividere”. “Ricordare contiene la parola latina “cuore” e significa  rivivere un evento con il cuore, con affetto, con amore. Dimenticare contiene la parola “mente” e vuol dire togliere, rimuovere dalla mente qualcosa, un avvenimento, una persona, come un fastidio. Compassione contiene la parola “patire” e vuol dire “patire con”, provare gli stessi sentimenti, sia di sofferenza che di gioia, o di speranza con qualcuno. Condividere vuol dire “dividere con”. Dividere il peso con qualcuno vuol dire sentirlo meno insopportabile, condividere un dolore significa non sentirsi soli, vuol dire sentire che qualcuno ti vuole essere vicino e ti vuole aiutare a portare con te una parte del tuo peso”. In attesa dell'annunciato lungometraggio che si svilupperà da questo progetto cerchiamo questo piccolo gioiello di dolore e di resurrezione e condividiamone la sofferenza emotiva, senza però dimenticare di aggiungere anche qualche doverosa riflessione sullo stato etico comatoso del paese in cui viviamo e che produce tragedie come quella di Viareggio. 

Marcello Cella




“Ovunque proteggi” 
Regia: Massimo Bondielli
Interpreti: Livio Bernardini, Daniela Rombi, Marco Piagentini, Walter Ubaldi
Aiuto regista: Luigi Martella 
Sceneggiatura: Massimo Bondielli, Luigi Martella
Suono: Gian Luca Cavallini
Musica: Egildo Simeone 
Fotografia: Matteo castelli
Produzione: Caravanserraglio Film Factory
Durata; 12'
Italia, 2015




mercoledì 27 luglio 2016


Nell'ultima puntata estiva, Balkania dedica uno speciale ai Mostar Sevdah Reunion, uno dei gruppi musicali più interessanti dell'est europeo, paragonato da molte riviste musicali ai Buena Vista Social Club e a Van Morrison per l'intensità delle loro canzoni e la capacità di rielaborare e rivitalizzare l'immenso patrimonio musicale dei Balcani occidentali. La puntata verrà diffusa direttamente in podcast alle 18.00 di venerdì 29 luglio 2016 sul sito di Radio ROARR (www.radioroarr.org) e sulle pagine Facebook deidcate al programma. Balkania riprenderà regolarmente le trasmissioni a settembre. La pagina FB del programma (https://www.facebook.com/balkania.radioroarr/) e la pagina dedicata "Amici di Balkania" (https://www.facebook.com/groups/1656879624594773/?fref=ts) verranno aggiornate periodicamente. Sul canale di mixcloud dedicato a Balkania (https://www.mixcloud.com/marcellocella/) è possibile riascoltare tutte le puntate del programma.
Lo staff di Balkania augura una buona estate a tutti gli ascoltatori. A risentirci a settembre...

mercoledì 6 luglio 2016


Balkania (venerdì 8, sabato 9 e mercoledì 13 alle ore 17.00 su Radio ROARR, www.radioroarr.org) si avventura per la prima volta nel Caucaso e nelle Repubbliche ex sovietiche. In questa puntata si parla di Ossezia del Sud con il suo rappresentante diplomatico in Italia, Mauro Murgia, e con il viaggiatore e responsabile di OTRA - Viaggiatori Indipendenti, Luca Pingitore di ritorno da un viaggio in questo paese. Poi parliamo di Georgia con la fotografa Emanuela Marenz, autrice del libro "Ogni giorno in più - Il volto della Georgia contemporanea" (DelMiglio Editore, 2013). Musiche della cantante uzbeka Yulduz Usmanova. Da lunedì 11 luglio sarà disponibile anche il podcast. Tutte le puntate di Balkania sono riascoltabili su https://www.mixcloud.com/marcellocella/. A breve sarà riattivata anche la pagina dedicata Amici di Balkania (https://www.facebook.com/groups/1656879624594773/?fref=ts). Buon ascolto

domenica 26 giugno 2016

Balkania 25 giugno 2019 - Speciale calcio slavo: "Storie di calcio e di guerra"


Balkania (www.radioroarr.org) dedica una puntata al calcio slavo con due interviste al saggista Fabriozio Tanzilli, autore di "Ad un passo dal paradiso - Il calcio slavo, gli artisti dei Balcani rivali della Storia" Edizioni UltraSport), e al giornalista Roberto Quartarone, autore di "Due eroi in panchina" (Edizioni Incontropiede). Nel corso della puntata si parlerà anche di due altri libri: "Dallo scudetto ad Auschwitz" di Matteo Marani (Imprimatur editore) e "L'ultimo rigore di Faruk - Una storia di clacio e di guerra" di Gigi Riva (Sellerio). E poi la compilation musicale di Balkania in occaione di Euro2016 con Aurela Gace (Albania), Prljavo kazalište (Croazia), Myslovitz (Polonia), Tara Fuki (Repubblica Ceca), Kino (Russia), Elán (Slovacchia), Kesmeşeker (Turchia), Gorgisheli (Ucraina), Tankcsapda (Ungheria), Luna Amara (Romania). E' inoltre possibile riascoltare tutte le puntate di Balkania al seguente indirizzo:https://www.mixcloud.com/marcellocella/.

domenica 5 giugno 2016

Balkania ritorna con una puntata sulla sevdah, un genere musicale di origine molto anitca, ma che viene ancora oggi suonato e cantato in tutti i Balcani sud occidentali, soprattutto in Bosnia. Ne parliamo con il musicista, scrittore e giornalista Gianluca Grossi, dell'Osservatorio sui Balcani e sul Caucaso. Musiche di Amira Medunjanin, Mostar Sevdah Reunion, Saban Bajramovic, Damir Ivanovic, Beba Selimovic, Safet Isovic...

giovedì 26 maggio 2016


Il sale della terra
Rubrica di documentarismo, cinema della realtà, fotografia sociale, realismi narrativi 

La fabbrica e il falso
“La fabbrica fantasma – Verità sulla mia bambola” di Mimmo Calopresti
Questa rubrica nasce come tentativo di riflettere e far riflettere su quello che consideriamo e definiamo, nel cinema, come in altre realizzazioni dell'ingegno umano, come “realtà”. Se questo è vero un documentario come “La fabbrica fantasma – Verità sulla mia bambola” di Mimmo Calopresti, nonostante la sua apparenza di riflessione personale sul mercato del falso, si presta a numerose considerazioni e non solo sul concetto di realtà, ma sulla sostanza stessa di un processo storico in cui ci troviamo immersi, quello della cosiddetta globalizzazione economica. L'opera di Calopresti che per comodità definiamo documentario, ma che incrocia altri generi di narrazione come il reportage giornalistico, la narrazione diaristica o il resoconto di viaggio, racconta il mondo della contraffazione attraversando città e culture le più diverse, da Torino a Napoli e poi in Ungheria e Ucraina sulle tracce dei trafficanti che invadono i mercati europei di prodotti dannosi per l'economia e spesso anche per la salute dei consumatori, soprattutto quella dei bambini. Una produzione, una “fabbrica” che tutti conoscono, ma che nessuno è disposto a denunciare, relegata ai margini dell'impero, in non luoghi che hanno spesso, significativamente, preso il posto di luoghi con una storia e un'identità ben precisa, come le vecchie fabbriche manifatturiere, facendo evaporare le antiche divisioni di classe, ben lungi peraltro da essere superate, nascondendole dietro una “vetrina” permanente di oggetti, merci in perpetua disponibilità dei “consumatori”. In questo senso il titolo del documentario di Mimmo Calopresti, “La fabbrica fantasma” è molto azzeccato: in effetti la realtà della produzione e dei rapporti di classe che essa sottende anche oggi non è per niente superata, ma si presenta come entità fantasmatica, come oblio dietro una sterminata quantità di oggetti colorati che appaiono al consumatore come nati dal nulla, oggetti senza storia, “apparsi”, non prodotti da qualcuno. Ma quella fabbrica esiste, per quanto frammentata e dai contorni geografici e temporali ambigui, e il merito del documentario di Calopresti è proprio quello di rivelarlo agli spettatori nella sua crudezza materiale e nella sua pericolosa natura classista e mortifera, con toni che a volte possono perfino apparire didascalici, ma che in realtà non abbandonano mai la strada di una sorta di intima riflessione di viaggio, un viaggio sulla natura di quello che noi siamo abituati a chiamare con il termine etico ed esistenziale di “realtà”. Va detto che il fine de “La fabbrica fantasma” è in effetti anche un intento etico. Infatti questo documentario è inserito nel forum multimediale di informazione contro le mafie “A mano disarmata” e sostenuto dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Ma sarebbe un errore considerarlo solo un'opera di denuncia contro un cancro che sta distruggendo economie, società, intelligenze. La denuncia ovviamente c'è ed è chiara a partire dai dati che vengono portati alla riflessione dello spettatore. Il mercato del falso in Italia produce ricavi per le mafie pari a 6 miliardi e 535 milioni di euro ogni anno e toglie all'economia legale 105.000 lavoratori a tempo pieno. I falsi rappresentano il 12% del mercato dei giocattoli in Italia. A Napoli una sigaretta su 3 è di contrabbando. I settori più colpiti dalla contraffazione sono abbigliamento (34,3% dell'intero valore), cd, dvd e software (27,3% del totale) e prodotti alimentari (15,8% del totale). Lo stesso Calopresti dichiara: “Comprando merci contraffatte ed illegali non solo finanziamo la mafia internazionale, ma facciamo un danno a tutto il sistema economico e produttivo. Creiamo schiavitù, povertà, inquinamento e in più rischiamo di danneggiare la nostra salute. Insomma, un disastro”. Ma c'è un danno più subdolo, e forse anche peggiore di quelli elencati, che l'autore torinese paventa nel suo bel documentario: quello di distruggere la fiducia delle persone nel mondo in cui vivono, la  loro capacità di sognare un mondo diverso, o anche solo di giocare con trasporto ingenuo con oggetti e simboli, come fanno i bambini, abbandonandosi alla loro verità immaginifica. Ed è proprio da una riflessione del regista stesso con la sua bambina, Clio, di fronte ad un servizio televisivo sull'esodo dei migranti attraverso i Balcani della scorsa estate che inizia il suo viaggio all'incontrario, dai giocattoli e dalle bambole della bambina alle origini di questa produzione. Il regista e sua figlia, insieme ai suoi amichetti, commossi dalle immagini dei bambini migranti, decidono di fare un'opera benefica, vendere una parte dei loro giocattoli per comprarne di nuovi per loro. Ed è in questo momento che scoprono un'altra realtà, quella del falso, che si nasconde dietro le forme ed i colori ammiccanti dei prodotti per bambini, e che a sua volta nasconde, come in una scatola cinese, la reale consistenza etica di un modo di produrre e di una struttura sociale che, mentre da una parte pretende libertà assoluta di movimento (quella delle merci), non è disposta a concedere la stessa possibilità di movimento alle persone.



“Perchè gli Stati erigono muri per impedire il passaggio di migranti e invece non riescono a controllare il transito di merci contraffatte?”, si chiede Calopresti. A questa domanda nessuno risponde, ma la risposta sta nel viaggio del regista da Torino a Napoli e poi in Ungheria e nelle riflessioni amare che lo accompagnano in questo sfacelo di diritti, in questo panorama sterminato di bruttezza, miseria umana e infelicità assoluta che i colori plastificati, omologati e falsi delle merci contraffatte non riescono a nascondere. Il mercato del falso consente di accumulare enormi ricchezze e profitti esentasse, sfruttando i lavoratori fino a ridurli in condizione di semischiavitù, aggirando leggi e norme a difesa dei cittadini, e condizionando in modo diretto o indiretto le scelte di politica economica dei singoli stati. Ma soprattutto ciò che emerge con forza dal documentario di Calopresti è proprio la bruttezza di un modo di produrre e di consumare che azzera la storia, le culture, le vite, la capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, la stessa capacità di sognare, rivelato dalla citazione finale di Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo”, ma soprattutto dalla frase che il regista ripete alla sua bambina durante la visita immaginifica alla mostra della Barbie nelle strutture dell'ex fabbrica Ansaldo di Genova, che suona come un monito e un obiettivo da raggiungere per tutti noi se vogliamo preservare la nostra più intima natura umana: “dobbiamo ripristinare la verità contro il falso”.

Marcello Cella

“La fabbrica fantasma – Verità sulla mia bambola”
da un'idea di Paolo Butturini
Regia: Mimmo Calopresti
Soggetto: Mimmo Calopresti, Roberto Benini
Sceneggiatura: Mimmo Calopresti, Luigi Politano
Produzione: Silvia Innocenzi e Giovanni saulini per Magda Film
Fotografia: Alessandro Dominici, Leone Orfeo, Carlo Boni
Montaggio: Valerio Quintarelli
Durata : 50'
Italia, 2016

mercoledì 16 marzo 2016


Speciale di Balkania sulla quarta edizione del Balkan Florence Express, la manifestazione fiorentina organizzata da Oxfam dedicata al cinema dei Balcani Occidentali. Interviste a Simone Malavolti, storico e direttore artistico del Balkan, Dragan Von Petrovic, montatore del documentario "Goli/Naked Island" di Tiha Gudac, Marco Quinti, fotoreporter, autore, con Monica Baron, del libro fotografico "Bosnia, la memoria di oggi", e Andrea Ragona, giornalista e scrittore, autore, con Gabriele Gamberini, del libro di viaggio "Yugoland. In viaggio per i Balcani" (Ed. Beccogiallo). Musiche di Mostar Sevdah Reunion. Balkania, Radio ROARR (www.radioroarr.org) ore 16.00-20.00. Replica venerdì 18 marzo sempre alle 16.00. Da venerdì sera sarà disponibile anche il podcast. Buon ascolto con il cinema, la musica, le storie e la storia dei Balcani Occidentali...

domenica 6 marzo 2016


I Balcani occidentali fra storia e realtà
Il Balkan Florence Festival



Fra il 25 e il 27 febbraio scorso si è svolta a Firenze la quarta edizione del Balkan Florence Festival, una piccola, ma interessantissima manifestazione culturale organizzata da Oxfam, onlus internazionale fra le più attive a livello sociale nei Balcani e in altre parti del mondo, in collaborazione con la Regione Toscana, Quelli della Compagnia, il Sarajevo Film Festival e il Tirana Film Festival, dedicata al cinema dei Balcani Occidentali. La tre giorni è stata una intensa full immersion nella realtà sociale e nella storia di Serbia, Croazia, Kosovo, Slovenia e Bosnia, con rimandi molto forti a quanto sta succedendo nei Balcani anche in questi giorni. I film presentati hanno rivelato anche cinematografie molto vive sia sul piano linguistico, che produttivo, e molto interessate a riflettere sulla propria storia e sulle proprie realtà in modo molto aperto e poco ortodosso. Sul piano linguistico è difficile in molti casi fare una distinzione netta fra cinema di finzione e documentario perchè entrambi i generi vengono utilizzati dai cineasti di questi paesi in modo molto libero e personale per raccontare realtà in cui la storia viene vissuta ancora in modo molto viscerale e il passato non sembra mai passato davvero con risultati di grande qualità espressiva. 


E' il caso del bellissimo documentario della regista croata Tiha Gudac, “Goli/Naked Island” (2014), in cui la riflessione storica della giovane autrice sui lati oscuri della Jugoslavia di Tito nasce a partire dalla sua vicenda personale: la storia dell'amatissimo nonno scomparso per quattro anni dalla vita della nipote perchè incarcerato nella famigerata prigione di Goli Otok, un'isola vicino alla costa croata, in cui venivano rinchiusi gli oppositori politici del regime di Tito. Un viaggio oscuro e tormentato all'interno di una storia familiare e pubblica condotta con grande intensità dalla regista croata con la collaborazione fondamentale del montatore serbo Dragan Von Petrovic, a dimostrazione di quanto siano fittizi gli steccati nazionali e culturali imposti dalla storia.  


Un altro grande film presentato all'interno della rassegna fiorentina, il serbo “Krugovi/Circles” di Srdjan Golubovic (2013) racconta invece una storia abbastanza nota a chi si occupa di Balcani, avvenuta nel 1993, durante la guerra civile in Bosnia Erzegovina, quando, in una piccola cittadina, Treblinje, venne ucciso un soldato delle milizie serbo-bosniache dai propri commilitoni perchè aveva difeso un suo amico musulmano dalle loro angherie. Più che il fatto in sé, che comunque viene raccontato in un suggestivo flashback dilatato dalla memoria dei protagonisti, il regista serbo si sofferma sulle conseguenze dolorose di questo avvenimento sulle vite di chi è sopravvissuto, il padre del soldato, indurito dl dolore, il figlio di uno dei commilitoni assassini che si è suicidato poco tempo dopo, l'ex fidanzata emigrata in Germania insieme al figlio piccolo, in fuga da un matrimonio sbagliato e da un marito violento, aiutata proprio dall'amico musulmano salvato a suo tempo, a prezzo della vita, dalla violenza delle squadracce serbo-bosniache, e l'amico di un tempo, anch'esso emigrato in Germania, che, medico, ritrova in ospedale come paziente proprio il capo di tali famigerate milizie. Il confronto fra questi personaggi, condotto magistralmente da Golubovic, è un viaggio fra le macerie ancora fumanti di un passato che rifiuta di essere rimosso e nascosto nelle soffitte della storia. 



Una storia di vendette dalle motivazioni oscure che continua a perseguitare una madre e i suoi due figli è anche quella raccontata dal film sloveno “Drevo/The Tree” (2014) di Sonja Prosenc, raccontata dal punto di vista dei tre protagonisti, costretti a vivere una vita da reclusi in un piccolo villaggio a causa dei pericoli, mai esplicitati chiaramente, che circondano le loro vite dopo un incidente in cui è morto un amico del figlio più grande. L'incidente innesca il desiderio di vendetta della famiglia del ragazzo morto che non avrà pace fino a quando non sarà soddisfatta. Un film di grande impatto visivo e dagli intensi risvolti psicologici e simbolici grazie anche alla bella prova attoriale dei tre protagonisti. 


Oltre alla riflessione dolorosa sulla storia recente la rassegna di film presentata dal Balkan Florence Festival ha offerto anche un altro elemento tematico molto forte, quello dell'emigrazione, quella di chi dai Balcani è emigrato nei paesi del Nord Europa e quella attuale di chi dall'Africa o dai paesi arabi fugge nei Balcani o li attraversa con la speranza di approdare anch'esso in Germania o in altri paesi ricchi. 
E' questo il caso di documentari come il bellissimo “Logbook_Serbistan”(2015) del vecchio regista serbo Zelimir Zilnik, già vincitore di un Orso d'oro a Berlino nel 1969 con il film “Opere giovanili” (e autore, nell'ambito del festival, di un incontro su “Il cinema jugoslavo da Tito ai giorni nostri”) o il kosovaro “Trapped by law” (2015) di Sami Mustafa, ma anche di film di finzione anch'essi molto intensi come “Babai” (2015) del kosovaro Visar Morina o il montenegrino “Djecaci iz ulice Marska i Engelsa” (“The kids from Marks and Engels street”, 2014) di Nikola Vukcevic. 


In “Logbook_Serbistan”, girato l'anno scorso prima di quella che poi è diventata l'emergenza migranti nei Balcani, Zilnik, con uno stile registico che ricorda molto quello del “cinema verità”, segue il viaggio irto di ostacoli di due giovani emigranti africani e di un mediatore siriano lungo la strada che dalla Serbia li dovrebbe portare verso l'Ungheria, un viaggio che fornisce molti punti di riflessione dolorosi, ma spesso anche spiazzanti e umoristici, allo spettatore sulla condizione dei migranti e di chi li accoglie.  


Film dai risvolti kafkiani, se non fosse drammaticamente reale, è l'incredibile vicenda, raccontata dal documentario “Trapped by law”, di due fratelli kosovari, cantanti rap, residenti con la loro famiglia in Germania da almeno 20 anni, che da un giorno all'altro a causa di un permesso di soggiorno non del tutto in regola, vengono letteralmente deportati in Kosovo, paese in cui non hanno mai vissuto, e da cui cercano disperatamente di partire e ritornare in Germania. Fra concerti, frammenti di quotidiana vita precaria e follie burocratiche si dipana la vicenda tragicomica di questi due fratelli che per la prima volta si trovano a confrontarsi con le proprie radici familiari e culturali, prima di decidere, dopo tre anni di scontri con il muro di gomma della burocrazia migratoria, di ritornare a Germania da clandestini. 


Un percorso simile a quello dei due fratelli di “Trapped by law”, è quello seguito dal protagonista di “Babai”, un bambino di 10 anni che decide di raggiungere il padre emigrato per lavoro dal Kosovo in Germania negli anni '90, affrontando un viaggio in cui la sua caparbia ingenuità si scontra con un mondo adulto spietato. 


Mentre del tutto inverso è il viaggio affrontato da Stanko, il giovane protagonista montenegrino del film di Vukcevic, che dall'Inghilterra è costretto, dopo vent'anni, a tornare nel proprio paese d'origine a causa della morte del padre e scopre che è tutto cambiato: i suoi amici sbarcano il lunario con la malavita di Podgorica e anche la via in cui è cresciuto, “Via Marx e Engels”, ha cambiato nome e della storia comunista a nessuno importa più niente, immersi tutti in sogni straccioni di capitalismo degenerato. 


Infine della bella rassegna fiorentina vanno citati almeno altri due film documentari, “Lijepo mi je s tobom znas” (“I like that super most the best”, 2015) della regista croata Eva Kraljevic, e il bosniaco “Rus/Russian” di Damir Ibrahimovic e Eldar Emric, che preferiscono raccontare storie più intime o di personaggi che vivono ai margini della società. Il documentario della Kraljevic racconta in modo molto intenso e poetico la storia del suo rapporto bello e doloroso al tempo stesso con la sorella down fino all'inevitabile separazione. 


Mentre “Rus/Russian” è la storia tragicomica di un personaggio dagli incredibili risvolti esistenziali e narrativi: maltrattato da bambino dal padre diventa ladro e tossicodipendente fino a fuggire in Russia dove diventa milionario in modo rocambolesco per poi ritrovarsi pressochè senza dimora e vessato dagli strozzini in una malinconica Sarajevo dove ritrova sé stesso attraverso l'amore e il teatro.

Marcello Cella
Carte di Cinema
marzo 2016


Immaginando un altro cinema e un'altra vita
Riflessioni inattuali su “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado (Brasile/Italia/Francia, 2014) e “Dalla mia Terra alla Terra” di Sebastião Salgado 


“E' il desiderio di fotografare che mi spinge di continuo a ripartire. Ad andare a vedere altrove”. 
Sebastião Salgado 

Era destino forse che un instancabile viaggiatore del cinema e della vita come il regista tedesco Wim Wenders incontrasse sulla sua strada un uomo di immagini e di viaggi come il famoso fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Un uomo che ha sempre usato la luce come lo scrittore usa l'inchiostro,  ma senza la frenesia industriale di  produrre necessariamente qualcosa per un ipotetico mercato. Ciò che ha sempre mosso Salgado e Wenders è sempre stata la ricerca del senso profondo delle cose, osservando e ascoltando la realtà senza la necessità di avere preventivamente un punto di vista da difendere e dimostrare attraverso la propria opera. Il che non vuol dire produrre immagini senza etica, ma costruendo una morale delle immagini a contatto diretto con le realtà con cui si viene a contatto, condividendo modi di vita e riflessioni sul mondo che non diventano mai dogmi, ma nuovi punti di partenza da cui riprendere il viaggio. Senza fretta. Prendendosi tempo. Aspettando che qualcosa accada. Perchè qualcosa accade sempre.


“Chi non ama aspettare non può diventare fotografo (...) Bisogna saper assaporare la pazienza”. 
Sebastião Salgado 

Il tempo è un elemento dirimente nell'intera opera del regista tedesco che ha sempre fatto di una certa lentezza realizzativa e narrativa una cifra stilistica imprescindibile. Perchè la velocità è nemica della profondità e se si vogliono realizzare storie e immagini cariche di senso l'attesa non è mai inutile, soprattutto se si tratta di realtà che non condividono la dittatura del fare e del produrre a tutti i costi, tipiche del pensiero e della prassi dominanti nella cultura occidentale. La lentezza non significa pesantezza, ma soprattutto rispetto per ciò che si intende fotografare o filmare, oltre che per sé stessi. “Bisogna adattarsi alla velocità degli esseri umani, degli animali, della vita. Anche se il nostro mondo va molto velocemente, la vita segue un altro ordine di grandezza. E la vita va rispettata, quando la si vuole fotografare”, afferma Salgado nella sua autobiografia. 


“Le storie a lungo termine mi appassionavano più delle notizie dell'ultimo momento”. 
Sebastião Salgado 

Il risultato di questa ricerca è necessariamente un atteggiamento verso la realtà che rifugge l'estetica ipercinetica delle cosiddette “news” che rispondono esclusivamente non solo ad una logica di mercificazione della vita, ma soprattutto ad un paradigma che si potrebbe definire “pornografico”, dominante nel  mondo odierno dei  media e nella percezione comune del mondo e delle immagini. Nel senso che, come nei film e nelle immagini del porno, le news hanno l'ossessione del tempo presente (niente passato e niente futuro) e dell'azione fine a sé stessa (assenza di tempi morti). Mentre la vita 
dell'uomo e della natura è fatta soprattutto di tempi morti, perchè è proprio in quella dimensione spazio-temporale apparentemente vuota che ogni cosa emerge nella propria essenzialità, nella propria inalienabile individualità, nel proprio essere necessariamente sé stessa e non altro. Come un uomo fra le dune di un deserto. O una barca in lontananza sulla superficie piatta del mare. 


“Un giorno, senza sapere come, né perchè, mi sono ritrovato ad occuparmi di temi sociali”. 
Sebastião Salgado 

In questo rispetto dei tempi e degli spazi in cui la vita umana (ma anche animale e vegetale) si svolge consiste anche la profonda eticità, e quindi politicità, delle immagini realizzate da Wenders e da Salgado. “Ogni fotografia è una scelta. Anche nelle situazioni difficili bisogna volerci stare e assumersi la responsabilità di esserci”, afferma Salgado nella sua autobiografia, svelando la propria scelta di campo che non consiste nel dimostrare una qualche tesi ideologica, ma nel mostrare nel modo più onesto possibile la realtà che si trasforma davanti ai suoi occhi. Senza far finta di essere oggettivi, perchè l'oggettività assoluta non è qualità appartenente al mondo umano e la fotografia, come il cinema, è sempre un linguaggio soggettivo. L'eterna dialettica fra ciò che sta in campo e ciò che sta fuoricampo attiene a questa continua tensione fra la soggettività di chi usa la macchina fotografica o la macchina da presa o la videocamera e la realtà in continuo movimento in cui l'autore (o gli autori) si trova immerso. La scelta quindi di mostrare la vita quotidiana dei lavoratori sfruttati, le drammatiche condizioni dei rifugiati o raccontare la vita di personaggi ai margini della società piuttosto che le magnifiche sorti e progressive divulgate quotidianamente dal potere e dai suoi media compiacenti ha molto più a che fare  con un modo di elaborare immagini e raccontare storie più vicino al  fuoricampo, in qualsiasi modo lo si voglia intendere, che ad un campo, recinto o prigione del pensiero che deresponsabilizzi l'individuo dal dovere morale di scegliere (altro che la “libertà di non scegliere”, decantata con enfasi da una pubblicità in onda su tutti i teleschermi in questi giorni). “Nessuno ha il diritto di mettersi al riparo dalle tragedie del proprio tempo, perchè siamo tutti responsabili in un certo modo di quello che succede nella società in cui abbiamo scelto di vivere”, afferma ancora Salgado. 


“Volevo fare reportage senza seguire la stretta attualità, ma per mostrare le trasformazioni in corso 
nel mondo”. Sebastião Salgado  

Il viaggio diventa quindi un elemento fondamentale sia per Wenders che per Salgado in questa spasmodica ricerca di un incontro con il mondo fuori dalle regole narrative e dalle logiche del mercato. Per entrambi raccontare il mondo significa, secondo una certa suggestione romantica da sempre intellettualmente presente in Wenders, più istintiva in Salgado, entrare nel mondo, farne parte, fondersi con esso, magari anche perdersi in esso. “Quando si fonde con il paesaggio e con la situazione che vive, la costruzione dell'immagine finisce per emergere davanti ai suoi occhi. Ma per riuscire a vederla, il fotografo deve far parte di ciò che accade. Allora tutti gli elementi si mettono a giocare con lui (...). Questa è la fotografia. A un certo punto gli elementi si collegano, le persone, il vento, gli alberi, lo sfondo, la luce”. E' allora che il racconto può cominciare, secondo una struttura che non diventa mai una gabbia in cui i personaggi muoiono nello stereotipo, ma in cui essi continuano a dialogare con ciò che sta fuoricampo, con un prima e con un dopo che impedisce di chiuderli in una monodimensionalità asfissiante e profondamente falsa. Forse per questo sia le fotografie di Salgado che i film di Wenders si ricordano soprattutto per la grande quantità di immagini di paesaggio, per i campi lunghi in cui i personaggi ritratti si immergono nello spazio circostante, alternati a primi piani mai casuali in cui essi 
sembrano in qualche modo rivolgersi direttamente allo spettatore in un dialogo muto, ma ricco di suggestioni. Immagini spesso in bianco e nero...


“La vita è a colori, ma il bianco e nero è più realistico”, Samuel Fuller in “Lo stato delle cose” (1982). 

La scelta del bianco e nero è una costante nel lavoro di entrambi gli autori. Il regista tedesco ne ha fatto una sua peculiarità, mai rinnegata, fin dai suoi primi film, ma anche Salgado lo ha sempre preferito al colore, almeno fino agli anni Duemila, quando utilizzando anche il digitale ha cominciato a lavorare anche sulle immagini a colori. Indubbiamente questa scelta non ha solo a che fare con una scelta stilistica, ma per entrambi rispecchia una posizione etica rispetto alla realtà, una particolare predilezione a concentrare la propria attenzione e quella dello spettatore sull'intensità, sulla profondità delle immagini e di ciò che ritraggono, mentre il colore tende a distrarre l'occhio dello spettatore su dettagli magari molto godibili a livello visivo, ma inevitabilmente dispersivi. E' lo stesso Salgado a spiegare bene le ragioni di questa scelta.”Con il bianco e nero e tutta la gamma dei grigi posso concentrarmi sull'intensità delle persone, sui loro atteggiamenti, sui loro sguardi, senza che siano disturbati dal colore. Certo, nella realtà niente è in bianco e nero. Ma quando guardiamo un'immagine in bianco e nero, questa entra a far parte di noi, la assimiliamo e inconsciamente la coloriamo. Penso che il potere del bianco e nero sia davvero straordinario e per questo l'ho utilizzato senza alcuna esitazione per rendere omaggio alla natura: fotografarla così era per me il modo migliore di mostrare la sua personalità, far emergere la sua dignità. Bisogna sentire la natura, bisogna amarla e rispettarla per poterla fotografare, come per le persone e gli animali. E tutto questo per me è veicolato dal bianco e nero”. Ed è questo che da sempre fornisce una particolare qualità documentaria al cinema di Wenders che in tempi recenti sembra sempre più orientato a frequentare il documentarismo anche come genere cinematografico, peraltro già ben presente nella sua cinematografia (“Lampi sull'acqua - Nick's Movie“, “Tokyo-Ga”, “Buena Vista Social Club”, “Appunti di viaggio su moda e città”, “I fratelli Skladanowsky”, “Pina”). 


“Il sale della terra” sintetizza bene le riflessioni e i temi sparsi finora in queste righe: il viaggio, il bianco e nero, il rapporto dell'uomo con il paesaggio, la dialettica fra campo e fuoricampo, tra immagini fisse e in movimento, l'importanza dell'ascolto del mondo, dell'osservazione della natura, della lentezza, il rapporto fra bellezza e giustizia sociale. Wenders lo fa utilizzando in qualche modo Salgado come suo alter ego, il quale a sua volta sembra rispecchiarsi  perfettamente nella concezione cinematografica aperta, cosmopolita e profondamente libertaria del regista tedesco. In questo affascinante gioco di specchi cinematografico i due autori dialogano e si scambiano spesso i ruoli a tal punto che spesso non si sa bene chi ritrae chi. Ma forse non è così importante saperlo. In fondo, citando ancora una volta Salgado, “una foto non parla solo di chi è ritratto, ma anche di chi ritrae”. 

Marcello Cella
Carte di Cinema
marzo 2016