venerdì 20 gennaio 2017




Lo Sparviero della Maremma. 
A tavola col brigante
di Maura Moscatelli
(Editrice effequ, Orbetello, 2016)

La Maremma è terra di sapori forti e di storie grasse, come la terra rossa, polposa che ne costituisce l’humus naturale. Se andate a cena in Maremma con persone originarie di quei luoghi non mancheranno mai una cucina saporita, abbondante e ricca, per quanto non molto complessa nella preparazione, vini pastosi in quantità e, soprattutto, storie e barzellette a sfondo sessuale piuttosto esplicite, nonché storiacce di violenza e di sangue che emergono all’improvviso durante la cena come la nebbia sulla laguna di Orbetello, dando un tocco di mistero a paesaggi che ispirano apparentemente solo pensieri idilliaci e pacate riflessioni sul senso della vita. Ma della vita fa parte anche la morte. E il popolo maremmano sembra esserne più cosciente di altri, forse per esorcizzarla ed allontanarne gli effetti nefasti, o forse per riaffermare al suo cospetto la propria inesauribile carica vitale. 
Se questa è la filosofia di fondo che alberga in Maremma il bel libro della maremmana doc Maura Moscatelli, “Lo Sparviero della Maremma. A tavola col brigante”, edito nel 2016 per i tipi della effequ, ne costituisce la quintessenza con una storia che racchiude in sé tutti gli elementi principali della sua terra: la storia (vera) del brigante ottocentesco Enrico Stoppa detto Righetto e della sua compagna, Ottavia, ex prostituta dalle forme generose e dalla vita altrettanto travagliata e costellata di sconfitte e resurrezioni improvvise, infarcita dalle ricette tipiche della cucina contadina maremmana che spesso proprio nei luoghi in cui è ambientata la storia raccontata dalla albinese Moscatelli hanno la loro origine. 
E dunque, mentre il lettore sta sulle spine per i delitti e le feroci imboscate ai ricchi possidenti della zona preparate e messe in atto dal brigante Righetto nelle campagne intorno a Talamone, da cui anni prima era partito Garibaldi con i suoi Mille alla volta della Sicilia borbonica da liberare, può prepararsi una gustosa bruschetta o farsi venire l’acquolina in bocca apprendendo le modalità di preparazione del pollo alla cacciatora o dei tortelli maremmani. Mentre indovina gli sguardi lascivi degli avventori della taverna gestita dall’Ottavia prepararsi mentalmente una panzanella o una schiaccia coi friccioli, oppure ordinarsi dei saporiti crostini toscani al ristorante mentre si intristisce per la tormentata fuga del brigante in Egitto, prima di rimanere a bocca aperta dall’orrore per la tragica e inevitabile fine di un personaggio nato e cresciuto sul lato sbagliato della vita in attesa di un buon bicchiere di Morellino di Scansano o di Bianco di Pitigliano. 
Ma non inganni l’andamento apparentemente svagato di questa recensione. “Lo Sparviero della Maremma” di Maura Moscatelli è libro dalla struttura narrativa ferrea e frutto di ricerche minuziose sul campo, negli archivi della Maremma e nel mistero spesso sanguinoso delle sue storie orali. Una storia che, attraverso le drammatiche vicende del brigante Righetto racconta una Maremma socialmente marginale e sconfitta, ma mai doma, un mondo atavico apparentemente lontanissimo dalla modernità eppure ancora ben presente in quei luoghi, una storia sociale senza redenzione e senza lieto fine in cui si ride e si piange di gusto allo stesso modo. Come nelle leggendarie cene con i maremmani in cui si ride grasso, si mangia e si beve in abbondanza, si raccontano storiacce di sesso e di sangue che coinvolgono spesso ignoti e misteriosi personaggi locali, magari si litiga lanciandosi addosso terribili minacce, prima di abbracciarsi come se niente fosse davanti ad un cinghiale in umido o una schiaccia di Pasqua ben innaffiata dal vino locale. 
Un libro per palati fini e stomaci forti. Astenersi vegetariani.

Marcello Cella


Tramonto sul mare nei pressi di Albinia




Anina Ciuciu “Sono Rom e ne sono fiera”
Contro la discriminazione, il razzismo 
e la violenza del pietismo

“Ci sono anche altri sogni, dei quali uno molto ricorrente. Mi vedo moderna, vestita secondo la moda occidentale, come sono oggi, mentre cammino per strada. Vicino a me c'è una ragazzina: piccola, lacera, miserabile. Sono sempre io, ma da bambina. Da bambina. Camminiamo insieme. Vedermi così è triste, ma insieme rassicurante. Sono i miei due lati che convivono uno accanto all'altro. Per sempre. Insieme”.
Senait G. Mehari, “Cuore di fuoco” (2006)

Non so se Anina Ciuciu conosca il libro di Senait Mehari, la storia autobiografica di una ragazzina eritrea, abbandonata dalla famiglia e ritrovatasi arruolata come bambina soldato nella guerra civile del suo Paese, prima di fuggire in Germania, insieme alle sue sorelle, e diventare una popstar, ma la sua storia assomiglia in modo significativo a quella di Senait. Con la differenza che Anina non viene da un paese in guerra, ma dalla Romania e dalla sua comunità Rom. Una Romania in cui i rom in un non lontano passato comunista erano trattati nel modo in cui lo descrive lei: “Sotto il regime comunista i rom non esistevano ufficialmente. Dagli inizi degli anni Sessanta, e in seguito con l'arrivo di Ceausescu, i rom divennero vittime di una politica di omogeneizzazione etnica. A quel tempo ad esempio ai rom era vietato parlare la loro lingua. Dal momento che il nostro popolo agli occhi del potere era sinonimo di povertà e sottosviluppo, lo stato fece di tutto per “rumenizzarci”. Coloro che non si sottomettevano, che non volevano diventare schiavi delle fattorie di stato erano condannati alla prigione o ai lavori forzati” (pag. 24-25). 
La famiglia di Anina viveva in un quartiere di Craiova, un quartiere ghetto, ma in cui la comunità rom locale aveva trovato un proprio modo di vivere e una relativa tolleranza. Ma un giorno il padre perde il lavoro che permetteva alla sua famiglia di vivere dignitosamente a causa di una “soffiata” di qualcuno che rivela la sua origine rom ai responsabili dell’ufficio in cui lavora e da lì iniziano i guai e la decisione di partire alla volta della Francia. Non che l’infanzia di Anina fosse tutta rose e fiori e la discriminazione era sicuramente qualcosa che mordeva la sua pelle e la sua anima. 
“I miei genitori hanno sempre cercato di darci il meglio, di comprarci le stesse cose degli altri perché non fossimo rifiutate. Sempre in quest’ottica, quando veniva a prendermi a scuola mamma si vestiva in modo da non attirare l’attenzione su di lei. Ma ad un certo punto le altre ragazzine della mia classe, che iniziavano ad avere dei dubbi, avevano fatto delle osservazioni. “Tu sei una rom!”, “sei una gitana!”, “sei sporca!”, mi dicevano. Col passare del tempo, dato che non rispondevo, le loro affermazioni si erano fatte più pesanti: “Non vogliamo giocare con te, vattene”, “abbiamo già le nostre amiche!”. Mi ricordo anche che quando arrivava il momento di mettersi in fila per due per entrare in classe nessuno voleva darmi la mano. (…) Le bambine della mia scuola non vollero mai giocare con me. Non capivo perché mi rifiutassero e non mi volessero. Quando ne parlavo con i miei genitori sentivo che anche loro ne erano feriti, ma mi dicevano che non importava, che le altre erano gelose perché avevo una cartella più bella della loro, che non erano migliori di me…Malgrado gli sforzi, anche se ero sempre ben vestita e lavoravo duramente in classe, mi rifiutavano sistematicamente, semplicemente perché sospettavano la mia appartenenza alla comunità rom. Per quanto mio padre tentasse di rassicurarmi, di dirmi che non importava, io soffrivo molto per la situazione. Avevo solo sette anni, come le altre bambine della mia classe. Come si può essere così crudeli sin da piccoli? Come si possono pensare certe cose a quell’età?” (pg. 31-33). Quindi nonostante gli sforzi della sua famiglia di comportarsi e avere uno stile di vita simile agli altri, nonostante il tentativo dei suoi genitori di dissimulare, di nascondere le proprie origini, Anina ed i suoi famigliari sono costretti ad intraprendere il loro “viaggio della speranza” verso occidente nelle stesse condizioni spaventose in cui lo fanno tutti i giorni i migranti dal sud del mondo affidandosi a passeur avidi e senza scrupoli.  
“Preferisco dimenticare quel viaggio, dimenticare quelle lunghe ore passate nel camion, senza bere né mangiare” (pg.43).  
Ma l’arrivo si rivela perfino peggio. La famiglia di Anina non è arrivata in Francia, ma a Roma, nel campo rom più grande e degradato d’Europa, Casilino 900, “un accampamento squallido, il posto in cui scaricavano i rom, i candidati all’esilio, il posto in cui i passeur corrotti scaricavano le loro prede. (…) Vedendo quel posto immondo mi misi a piangere. Non avevo mai visto una simile miseria, una tale desolazione. Quando ci ripenso, mi dico che effettivamente non ho mai conosciuto niente di peggio. Era un’immensa discarica con rifiuti ovunque. E quando dico ovunque, soppeso le parole: non solo ricoprivano il suolo, ma ve n’erano appesi ai tetti, altri volavano nel vento. Tra le carcasse di auto abbandonate, le assi dei pallet e i detriti di ogni genere c’erano delle galline, dei galli, dei cani, dei ratti, dei bambini. (…) Dal primo giorno, da quando mettemmo piede in quel campo, iniziammo a piangere. Tutti piangevamo e volevamo rientrare, tornare nella nostra terra. Li era ancor più miserabile che in Romania” (pg. 47-49).
Seguono sei mesi di inferno, di stenti, umiliazioni, fame e malattie. Sei mesi in cui l’unico sogno è fuggire da quell’incubo, sopravvivendo a tutto. Ma per farlo servono soldi che i genitori di Anina non hanno. Così la bambina e sua madre conoscono per la prima volta l’umiliazione di chiedere l’elemosina.
“Avevo vergogna.
Avevo vergogna per mia madre, obbligata a chiedere l’elemosina per darmi da mangiare.
Vergogna nel dirmi che lo faceva per me e le mie sorelle.
Vergogna perché avevo sette anni, e nessuna bambina di sette anni dovrebbe chiedere l’elemosina per strada, su un marciapiede” (pg. 53).
E il comportamento degli italiani nei confronti dei rom non è migliore di quello dei romeni.
“Se i rom in Romania erano considerati come “mezzi uomini”, qui in Italia erano assimilati ai parassiti” (pg.55). 
Quindi di nuovo la fuga. Anina e la sua famiglia riescono finalmente a trovare i soldi e la fortuna per arrivare in Francia. Ma anche in questo nuovo Paese le cose all’inizio non migliorano molto. Con la solita trafila di clandestinità, scarse possibilità di accesso ai servizi sociali, altre fughe, altre umiliazioni e ancora l’elemosina. 
“Quando sentivamo certe persone dire che mendicare è una vita facile, avevamo solo un desiderio: rispondergli che non è un piacere, ma una necessità, una risposta all’istinto di sopravvivenza, e che non avevamo scelta perché ci vietavano di lavorare. Non avrei mai chiesto l’elemosina se avessi avuto altra scelta” (pg. 78). 
L’esistenza e il destino di Anna e della sua famiglia sembrano segnati, fino a quando, all’improvviso, la loro vita cambia grazie all’incontro con due persone, un’infermiera, Marie Claude, e, soprattutto, un’insegnante dal cuore grande, Jacqueline. Il racconto di questo incontro è una delle pagine più toccanti del libro.
“Una mattina dell’aprile del 1999, mamma ebbe un incontro che rivoluzionò le nostre vite.
Da diverse settimane ogni mercoledì, giorno del mercato, una donna le dava una o due monetine. Ma quel giorno la donna si avvicinò a mia madre, si inginocchiò davanti a lei e, porgendole la sua offerta, le disse: “Romania”.
(…) In quel preciso momento il suo viso si illuminò. Tentarono poi di approcciare un dialogo ma mamma non parlava una parola di francese. (…) Malgrado tutto attraverso i gesti e le movenze finirono per capirsi. Quella donna distinta aveva in pochi secondi analizzato la nostra situazione e capito l’urgenza.
Ritornò la settimana seguente accompagnata da suo figlio. (…) Anche lui si chinò per darci una moneta e qualche frutto. Ci diede anche il buongiorno, sorridente. E a quel punto vidi un immenso sorriso illuminare il viso di mamma, felice che un ragazzino francese non la considerasse una nullità.
Con le poche parole di francese che conoscevo cercai di raccontare loro la nostra storia. La signora mi disse di chiamarsi Jacqueline, e suo figlio Alexis. Mi disse anche che lei e suo marito si erano recati spesso in Romania e che conosceva il nostro paese, il nostro popolo.
Per lei non eravamo né rumeni né rom ma gente bisognosa, abbandonata da tutti e caduta nella miseria. Attraverso i gesti mia madre le spiegò dove vivevamo. L’indomani fu un gran giorno per noi: la signora Jacqueline venne a farci visita. Voleva incontrarci a casa nostra, nel nostro camioncino, lontano dal marciapiede dove chiedevamo l’elemosina. Quel giorno pioveva a dirotto. Era mattina. Me lo ricordo molto bene. 
Mamma aveva svegliato me e le mie sorelle e ci aveva fatte tutte belle. Aveva anche fatto le pulizie nel furgoncino e preparato della cioccolata calda. Io e Maria stavamo disegnando sui nostri quaderni quando la signora Jacqueline arrivò. 
Era molto sorridente ma si vedeva anche la sua commozione nel vedere la miseria di quel luogo che ci faceva da casa. Bevve la cioccolata insieme a noi e ci domandò se fossimo già andate a scuola.
“Certo”, le risposi. “Ma io non ci voglio più andare. La mia maestra a Macon mi diceva che ero stupida, che non ero capace di leggere”.
Allora la signora Jacqueline mi guardò, analizzò i nostri quaderni con le lacrime agli occhi, e con la sua voce dolce mi rispose: “Io ti insegnerò a leggere”. Poi voltandosi verso Maria le promise: “Anche a te, piccola mia” (pg. 81-82).
Da quel momento la vita di Anina e della sua famiglia cambiano. Grazie all’aiuto di Jacqueline i suoi genitori riescono a regolarizzare la loro posizione e Anina ad andare a scuola, a finire le elementari, a fare le medie, le superiori, ad iscriversi all’università fino alla laurea in legge. Sempre senza aver paura di mostrare agli altri ciò che è. 
“Arrivata all’università ebbi anche il coraggio e la maturità di dire che ero rom. Ebbi il coraggio di affermarlo senza vergogna. Ogni volta che me lo chiedevano, rispondevo: “Si, si, sono rumena”. E precisavo anche: “Sono rumena, ma soprattutto rom di Romania” (pg. 114). Ma Anina ormai è anche francese: “Oggi mi sento più francese che rom. Vivo come una francese, penso in francese, ma resto rom e a casa tutti parlano romani’. E’ il nostro modo di non dimenticarci da dove veniamo. Quando vedo le immagini mediatiche degli smantellamenti dei campi rom mi sento scossa, è ovvio. So quel che stanno vivendo, ci sono passata. So cos’è la miseria. In fondo a me stessa sono sempre la bambina di Craiova. I ricordi restano, anche se il mio futuro è in Francia. Ma una parte di me è a Craiova, nella stradina di pietra dive vivevamo tutti insieme” (pg.154). 
Oggi Anina è una ragazza francese, fresca di laurea in legge alla Sorbona e che diventerà magistrato. Una storia apparentemente a lieto fine anche se costellata di sofferenze inimmaginabili, raccontate lucidamente e senza retorica in pagine che ricordano a tratti il Primo Levi de “La tregua”. E la condizione di discriminazione e di violenza che subisce il popolo rom è spesso troppo simile a quella degli ebrei perseguitati dai nazisti. Ma Anina guarda avanti senza dimenticare mai chi è e da dove viene e conclude la prima parte del suo libro con una supplica a noi gagè. “Vi supplico, quando domani per strada incrocerete una signora con la schiena curva, con un cartello di cartone sulle ginocchia, quando vedrete che accanto a lei c’è seduta una bambina dai capelli lunghi e neri, non giudicatela, non insultatela, non picchiatela. Ho vissuto tutto questo e ne sono stata segnata a vita. Ma oggi, davanti a me, ci sono le porte della Sorbona che si aprono” (pg. 164).
Tutto finito, dunque? Per niente, perché Anina aggiunge al libro una seconda parte che per certi versi è anche più sofferta. Una seconda parte scritta dopo la prima pubblicazione del libro in Francia che assume la funzione di specchio, di riflessione sulle reazioni al libro e al suo nuovo ruolo di figura pubblica improvvisamente assurta ad un rango di notorietà, di “eccezionalità” che cela forme più raffinate e subdole di discriminazione. 
“Cosa c’è di straordinario nel fatto che una giovane rom studi diritto alla Sorbona? (…) Quello che dovrebbe essere presentato come straordinario è la violenza che ci è stata fatta, a noi e a tanti altri, per il solo fatto di essere rom. (…) E’ questa violenza che dovrebbe essere presentata come di eccezionale gravità, che dovrebbe spaventare, rivoltare, commuovere, stupire, e non l’attitudine per lo studio universitario di una giovane rom. Perché quello che ho dovuto sconfiggere con la volontà, gli sforzi, i sacrifici miei e della mia famiglia, e l’aiuto di buoni samaritani, non è una malattia, un handicap legato alla mia natura rom, ma concretamente l’ostilità di una società politica schizofrenica che prima ci esclude dai ranghi degli “uomini liberi ed uguali nel diritto” e poi ci accusa di una presunta indole alla non integrazione, come per giustificare i suoi meccanismi di esclusione ed accanimento. Allora come potrei non sentirmi asfissiata da questo abito che mi si vuole incollare addosso, quando il quotidiano più letto della Francia il 2 maggio del 2013 intitolava: “Anina Ciuciu, ex mendicante Rom e futuro giudice”? (…) No, non sono nata mendicante. Sono le politiche che si sono succedute a rendermi tale, come potrebbero farlo con ognuno di voi” (pg. 168-171).
Ed è qui che la palla passa sopra la rete dei media per atterrare nel nostro campo di cittadini mediamente democratici e progressisti, nel campo della nostra identità assopita dal consumismo e dal conformismo, della rassicurante pietà verso il diverso, verso il povero, a cui facciamo volentieri l’elemosina ma non siamo altrettanto pronti ad accordare diritti.
“In effetti se l’indifferenza mi ferisce, la pietà mi fa ancora più paura: è una doppia violenza perché riflette nello sguardo dell’altro quella vergogna che, dentro, sta già devastando colui che ne è oggetto, e dà il colpo di grazia alla sua dignità. Peggio ancora, accettare la pietà equivale ad accettare la miseria che l’ha generata, e accettare quella situazione di implacabile inferiorità che rende dipendenti dalla misericordia altrui ed infligge un danno irreparabile alla dignità, alla fierezza e all’orgoglio, che si ritrovano segnati per sempre come da una cicatrice indelebile” (pg.173).
Ma nella sua analisi sulla condizione del popolo rom e sul nostro modo di considerarlo, Anina si addentra ancora più in profondità, fino a considerare, all’interno di un universo umano discriminato quell’ulteriore forma di discriminazione che colpisce le donne in quanto tali, comune spesso a tutte le comunità marginalizzate.
“Partite da lontano, per raggiungere l’uguaglianza le rom devono far cambiare anche i rom e la percezione che hanno di loro stessi, e questo è il loro primissimo compito. Perché degradati, declassato da una società politica che li svilisce e li rifiuta solamente per quello che sono, dei rom, l’unico modo che hanno per difendere la propria integrità, l’autorità che li definisce come uomini, e il loro orgoglio ferito, è a loro volta dominare il più debole.
E chi può essere più debole se non le loro donne, che si trovano in una situazione di fragilità sociale amplificata dall’essere mantenute in uno stato di minorità all’interno della stessa comunità marginalizzata? 
Ecco perché saranno emancipate solo emancipando gli uomini stessi, e cambiando innanzitutto l’immagine devastata che hanno di sé rispetto ai gagè. Quando rifiuteranno l’umiliazione politica permanente, considerandosi uguali agli altri all’interno della società, non avranno più bisogno di dominare le proprie mogli.
E per sentirsi uguali dovranno affrontare e superare la vergogna e la violenza politica di cui sono oggetto. È solamente cosi che si ritroveranno fieri di ciò che sono davanti a tutti, e non solo gli uni di fronte agli altri all’interno della comunità.
È compito delle rom far capire tutto questo agli uomini” (pg. 195). 
Parole che fanno riflettere anche considerando altri contesti in cui si manifesta il malessere che attraversa le nostre società e che si esprime con la violenza verso i più deboli e contro le donne in particolare. Ma Anina si spinge ancora più in avanti, non si limita a raccontare il passato e a fotografare il presente. Cerca anche di partecipare alla realizzazione di un futuro diverso. Infatti il 13 maggio 2016 Anina, in occasione della Festa dell’Insurrezione Gitana in ricordo della rivolta di uomini e donne rom contro i nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz Birkenau il 16 maggio 1944, un episodio di ribellione ai nazisti ben poco conosciuto, ha partecipato alla fondazione di un nuovo movimento politico, il Movimento 16 maggio, pronunciando una solenne “Dichiarazione d’indipendenza e d’amore” sul sagrato della Basilica di Saint Denis insieme ad altri 50 rom. 
“Noi, rom, siamo belli, ma ovunque il vostro mondo ci imbruttisce.
Sui vostri marciapiedi, nelle vostre prigioni, nelle baraccopoli che i vostri stati ci costruiscono, il vostro mondo ci imbruttisce, salvo nei vostri sogni, nei vostri circhi, sui vostri palchi o nei vostri film.
La vostra immaginazione è il nostro spazio politico. Solo nei vostri sogni siamo liberi.
Mai appariamo a voi senza una maschera, per piacervi, o sottometterci.
È un gioco cosi’ vecchio che ormai ad entrambi sembra naturale.
Quando gli stati cercano di distruggerci, è sempre davanti ai vostri giudici che sono chiamati a risponderne. E tutti sono assolti.
E alla fine, nei vostri tribunali, perfino i nostri morti sono sempre presunti colpevoli. (…)
Anche quando gli stati tentano di curare il male che, come vedete, ci rovina la vita – la vecchiaia sul viso di una giovane mamma, l’infezione al fegato di un figlio che muore a ventisei anni, i polmoni delle ragazzine avvelenati dalla vicinanza di una fabbrica di cemento, il cadavere carbonizzato di un neonato nella miseria delle vostre città – lo fanno con l’idea che la fonte di questo male sia in noi, e che per curarlo dovreste farci smettere di essere noi stessi. La chiamano integrazione, che è un altro modo di distruggerci. 
Basta guardare: più le politiche d’integrazione si intensificano e più noi soffriamo, ovunque in Europa. Ma ormai lo sappiamo, non è in noi l’origine del male di cui moriamo. Man mano che le nostre sofferenze crescono, i vostri mostri politici appaiono: i muri, la polizia di frontiera, i campi di concentramento in Grecia in cui tenete i rifugiati. Anche il mar Mediterraneo, che vi ha dati alla luce, sta diventando un carnaio. E state pur certi, cari fratelli e care sorelle rom, che ciò di cui muoiono i bambini, le donne e gli uomini che arrivano dall’Africa o dalla Siria, è lo stesso nostro male. Moriamo tutti di questa Europa.
Oggi in memoria della rivolta delle donne e degli uomini che il 16 maggio 1944 si ribellarono nei “campi delle famiglie gitane di Auschwitz Birkenau”, noi uomini e donne in vita dichiariamo la nascita del Movimento del 16 Maggio. 
Il Movimento del 16 Maggio è un’organizzazione politica rom autonoma, una medicina con la quale abbiamo deciso di curare da soli il male di cui soffriamo. Siamo grati ai vostri rimedi, ma finora sono stati più che altro un veleno. La nostra salute dipende solo da noi. Ormai lo abbiamo capito: non è imitandovi che staremo meglio, perché sappiamo che anche voi siete malati. 
Quando avremo lavato via la bruttezza e curato le cicatrici che il vostro razzismo, la vostra violenza e la vostra pietà hanno inciso sulla nostra pelle, sarete voi a voler essere come noi, e non solo portando le nostre gonne e i nostri cappelli. Vorrete assomigliare a quello che siamo, e come non ci avete mai visti. Dalla nostra salute dipende anche la vostra. Poiché se noi siamo quelli che soffrono, il male è tra di voi” (pg. 201-203).
Pochi libri riescono, a partire da un microcosmo dimenticato e disprezzato, ad illuminare tutta la scena sociale di cui fa parte. “Sono rom e ne sono fiera. Dalle baracche romane alla Sorbona” di Anina Ciuciu per le meritorie Edizioni Alegre di Roma, è uno di questi perché non solo è una grande storia drammatica e a suo modo epocale, seppur rischiarata da un lieto fine che però non ne attenua la problematicità, ma ha il merito di andare oltre il suo fine di denuncia per fornire importanti chiavi di lettura del nostro tempo e delle disuguaglianze che lo attraversano. Un libro a suo modo imprescindibile.

Marcello Cella