domenica 6 marzo 2016


Immaginando un altro cinema e un'altra vita
Riflessioni inattuali su “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado (Brasile/Italia/Francia, 2014) e “Dalla mia Terra alla Terra” di Sebastião Salgado 


“E' il desiderio di fotografare che mi spinge di continuo a ripartire. Ad andare a vedere altrove”. 
Sebastião Salgado 

Era destino forse che un instancabile viaggiatore del cinema e della vita come il regista tedesco Wim Wenders incontrasse sulla sua strada un uomo di immagini e di viaggi come il famoso fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Un uomo che ha sempre usato la luce come lo scrittore usa l'inchiostro,  ma senza la frenesia industriale di  produrre necessariamente qualcosa per un ipotetico mercato. Ciò che ha sempre mosso Salgado e Wenders è sempre stata la ricerca del senso profondo delle cose, osservando e ascoltando la realtà senza la necessità di avere preventivamente un punto di vista da difendere e dimostrare attraverso la propria opera. Il che non vuol dire produrre immagini senza etica, ma costruendo una morale delle immagini a contatto diretto con le realtà con cui si viene a contatto, condividendo modi di vita e riflessioni sul mondo che non diventano mai dogmi, ma nuovi punti di partenza da cui riprendere il viaggio. Senza fretta. Prendendosi tempo. Aspettando che qualcosa accada. Perchè qualcosa accade sempre.


“Chi non ama aspettare non può diventare fotografo (...) Bisogna saper assaporare la pazienza”. 
Sebastião Salgado 

Il tempo è un elemento dirimente nell'intera opera del regista tedesco che ha sempre fatto di una certa lentezza realizzativa e narrativa una cifra stilistica imprescindibile. Perchè la velocità è nemica della profondità e se si vogliono realizzare storie e immagini cariche di senso l'attesa non è mai inutile, soprattutto se si tratta di realtà che non condividono la dittatura del fare e del produrre a tutti i costi, tipiche del pensiero e della prassi dominanti nella cultura occidentale. La lentezza non significa pesantezza, ma soprattutto rispetto per ciò che si intende fotografare o filmare, oltre che per sé stessi. “Bisogna adattarsi alla velocità degli esseri umani, degli animali, della vita. Anche se il nostro mondo va molto velocemente, la vita segue un altro ordine di grandezza. E la vita va rispettata, quando la si vuole fotografare”, afferma Salgado nella sua autobiografia. 


“Le storie a lungo termine mi appassionavano più delle notizie dell'ultimo momento”. 
Sebastião Salgado 

Il risultato di questa ricerca è necessariamente un atteggiamento verso la realtà che rifugge l'estetica ipercinetica delle cosiddette “news” che rispondono esclusivamente non solo ad una logica di mercificazione della vita, ma soprattutto ad un paradigma che si potrebbe definire “pornografico”, dominante nel  mondo odierno dei  media e nella percezione comune del mondo e delle immagini. Nel senso che, come nei film e nelle immagini del porno, le news hanno l'ossessione del tempo presente (niente passato e niente futuro) e dell'azione fine a sé stessa (assenza di tempi morti). Mentre la vita 
dell'uomo e della natura è fatta soprattutto di tempi morti, perchè è proprio in quella dimensione spazio-temporale apparentemente vuota che ogni cosa emerge nella propria essenzialità, nella propria inalienabile individualità, nel proprio essere necessariamente sé stessa e non altro. Come un uomo fra le dune di un deserto. O una barca in lontananza sulla superficie piatta del mare. 


“Un giorno, senza sapere come, né perchè, mi sono ritrovato ad occuparmi di temi sociali”. 
Sebastião Salgado 

In questo rispetto dei tempi e degli spazi in cui la vita umana (ma anche animale e vegetale) si svolge consiste anche la profonda eticità, e quindi politicità, delle immagini realizzate da Wenders e da Salgado. “Ogni fotografia è una scelta. Anche nelle situazioni difficili bisogna volerci stare e assumersi la responsabilità di esserci”, afferma Salgado nella sua autobiografia, svelando la propria scelta di campo che non consiste nel dimostrare una qualche tesi ideologica, ma nel mostrare nel modo più onesto possibile la realtà che si trasforma davanti ai suoi occhi. Senza far finta di essere oggettivi, perchè l'oggettività assoluta non è qualità appartenente al mondo umano e la fotografia, come il cinema, è sempre un linguaggio soggettivo. L'eterna dialettica fra ciò che sta in campo e ciò che sta fuoricampo attiene a questa continua tensione fra la soggettività di chi usa la macchina fotografica o la macchina da presa o la videocamera e la realtà in continuo movimento in cui l'autore (o gli autori) si trova immerso. La scelta quindi di mostrare la vita quotidiana dei lavoratori sfruttati, le drammatiche condizioni dei rifugiati o raccontare la vita di personaggi ai margini della società piuttosto che le magnifiche sorti e progressive divulgate quotidianamente dal potere e dai suoi media compiacenti ha molto più a che fare  con un modo di elaborare immagini e raccontare storie più vicino al  fuoricampo, in qualsiasi modo lo si voglia intendere, che ad un campo, recinto o prigione del pensiero che deresponsabilizzi l'individuo dal dovere morale di scegliere (altro che la “libertà di non scegliere”, decantata con enfasi da una pubblicità in onda su tutti i teleschermi in questi giorni). “Nessuno ha il diritto di mettersi al riparo dalle tragedie del proprio tempo, perchè siamo tutti responsabili in un certo modo di quello che succede nella società in cui abbiamo scelto di vivere”, afferma ancora Salgado. 


“Volevo fare reportage senza seguire la stretta attualità, ma per mostrare le trasformazioni in corso 
nel mondo”. Sebastião Salgado  

Il viaggio diventa quindi un elemento fondamentale sia per Wenders che per Salgado in questa spasmodica ricerca di un incontro con il mondo fuori dalle regole narrative e dalle logiche del mercato. Per entrambi raccontare il mondo significa, secondo una certa suggestione romantica da sempre intellettualmente presente in Wenders, più istintiva in Salgado, entrare nel mondo, farne parte, fondersi con esso, magari anche perdersi in esso. “Quando si fonde con il paesaggio e con la situazione che vive, la costruzione dell'immagine finisce per emergere davanti ai suoi occhi. Ma per riuscire a vederla, il fotografo deve far parte di ciò che accade. Allora tutti gli elementi si mettono a giocare con lui (...). Questa è la fotografia. A un certo punto gli elementi si collegano, le persone, il vento, gli alberi, lo sfondo, la luce”. E' allora che il racconto può cominciare, secondo una struttura che non diventa mai una gabbia in cui i personaggi muoiono nello stereotipo, ma in cui essi continuano a dialogare con ciò che sta fuoricampo, con un prima e con un dopo che impedisce di chiuderli in una monodimensionalità asfissiante e profondamente falsa. Forse per questo sia le fotografie di Salgado che i film di Wenders si ricordano soprattutto per la grande quantità di immagini di paesaggio, per i campi lunghi in cui i personaggi ritratti si immergono nello spazio circostante, alternati a primi piani mai casuali in cui essi 
sembrano in qualche modo rivolgersi direttamente allo spettatore in un dialogo muto, ma ricco di suggestioni. Immagini spesso in bianco e nero...


“La vita è a colori, ma il bianco e nero è più realistico”, Samuel Fuller in “Lo stato delle cose” (1982). 

La scelta del bianco e nero è una costante nel lavoro di entrambi gli autori. Il regista tedesco ne ha fatto una sua peculiarità, mai rinnegata, fin dai suoi primi film, ma anche Salgado lo ha sempre preferito al colore, almeno fino agli anni Duemila, quando utilizzando anche il digitale ha cominciato a lavorare anche sulle immagini a colori. Indubbiamente questa scelta non ha solo a che fare con una scelta stilistica, ma per entrambi rispecchia una posizione etica rispetto alla realtà, una particolare predilezione a concentrare la propria attenzione e quella dello spettatore sull'intensità, sulla profondità delle immagini e di ciò che ritraggono, mentre il colore tende a distrarre l'occhio dello spettatore su dettagli magari molto godibili a livello visivo, ma inevitabilmente dispersivi. E' lo stesso Salgado a spiegare bene le ragioni di questa scelta.”Con il bianco e nero e tutta la gamma dei grigi posso concentrarmi sull'intensità delle persone, sui loro atteggiamenti, sui loro sguardi, senza che siano disturbati dal colore. Certo, nella realtà niente è in bianco e nero. Ma quando guardiamo un'immagine in bianco e nero, questa entra a far parte di noi, la assimiliamo e inconsciamente la coloriamo. Penso che il potere del bianco e nero sia davvero straordinario e per questo l'ho utilizzato senza alcuna esitazione per rendere omaggio alla natura: fotografarla così era per me il modo migliore di mostrare la sua personalità, far emergere la sua dignità. Bisogna sentire la natura, bisogna amarla e rispettarla per poterla fotografare, come per le persone e gli animali. E tutto questo per me è veicolato dal bianco e nero”. Ed è questo che da sempre fornisce una particolare qualità documentaria al cinema di Wenders che in tempi recenti sembra sempre più orientato a frequentare il documentarismo anche come genere cinematografico, peraltro già ben presente nella sua cinematografia (“Lampi sull'acqua - Nick's Movie“, “Tokyo-Ga”, “Buena Vista Social Club”, “Appunti di viaggio su moda e città”, “I fratelli Skladanowsky”, “Pina”). 


“Il sale della terra” sintetizza bene le riflessioni e i temi sparsi finora in queste righe: il viaggio, il bianco e nero, il rapporto dell'uomo con il paesaggio, la dialettica fra campo e fuoricampo, tra immagini fisse e in movimento, l'importanza dell'ascolto del mondo, dell'osservazione della natura, della lentezza, il rapporto fra bellezza e giustizia sociale. Wenders lo fa utilizzando in qualche modo Salgado come suo alter ego, il quale a sua volta sembra rispecchiarsi  perfettamente nella concezione cinematografica aperta, cosmopolita e profondamente libertaria del regista tedesco. In questo affascinante gioco di specchi cinematografico i due autori dialogano e si scambiano spesso i ruoli a tal punto che spesso non si sa bene chi ritrae chi. Ma forse non è così importante saperlo. In fondo, citando ancora una volta Salgado, “una foto non parla solo di chi è ritratto, ma anche di chi ritrae”. 

Marcello Cella
Carte di Cinema
marzo 2016

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