lunedì 8 marzo 2010

Marius ride alle nuvole - Un’esperienza di volontariato in un orfanotrofio della Romania

Marius ride alle nuvole

Un’esperienza di volontariato in un orfanotrofio della Romania


Ho perso le parole (…)

si son nascoste bene

forse però

semplicemente

non eran mie

Luciano Ligabue


Riascolto per la millesima volta “De dorul tau” (più o meno “Nostalgia di te”) canzone pop dal sapore amarognolo del trio techno pop romeno 3SE (Trei Sud-Est). Me lo hanno fatto ascoltare alcune ragazze, ospiti di un orfanotrofio di Ramnicu Valcea, città di provincia situata ai piedi dei Carpazi sul versante centro-settentrionale della Romania, quello che confina con la Serbia. Le ho conosciute durante il campo di volontariato organizzato dall’Associazione Bambini in Romania di Milano cui ho partecipato nell’estate del 2002. E mentre nella mia stanza risuonano le note melanconiche seppur ritmate della canzone non posso fare a meno di ripensare alle parole di Marina, una mia giovane compagna in questo viaggio un po’ angosciante nel mondo dell’infanzia abbandonata di questo paese così bello e disastrato. Rivedo ancora il suo volto stanco, seduta accanto a me nella grande sala d’attesa dell’aeroporto di Bucarest mentre aspettiamo l’aereo per ritornare in Italia, e dentro di me riecheggiano le sue parole: “Ho troppe immagini in testa. Devo metterle in ordine”. Non è facile metterle in ordine. Nemmeno a due mesi di distanza dal ritorno. Fa ancora male al cuore.

Flashback.

Il primo contatto visivo con la difficile realtà sociale romena avviene mentre, appena scesi dall’aereo, aspettiamo di partire in pullman per la nostra destinazione, Ramnicu Valcea, che dista circa 200 chilometri da Bucarest. Mentre aspettiamo di partire giocherelliamo con un pallone in un parcheggio quando, girando lo sguardo, la mia mente ha un tuffo negli anni Cinquanta. Una famiglia, madre, padre, figlio piccolo e una signora anziana, vestiti con quelli che sembrano gli abiti dismessi dei nostri nonni più indigenti, salgono su una piccola utilitaria malandata parcheggiata poco lontano e se ne vanno. Il secondo approccio visivo lo abbiamo quando, attraversando le periferie di Bucarest, veniamo letteralmente scaraventati dal centro di quella che potrebbe essere una qualunque grande città europea in un altro mondo. Le sterminate periferie di Bucarest infatti trasudano miseria e degrado da ogni angolo. Gli enormi quartieri fatti di casermoni di cemento squallidi, cadenti, circondati da erbacce e rifiuti di ogni tipo sono popolati da mendicanti e frotte di bambini e adolescenti che sniffano colla dai sacchetti in pieno giorno sotto lo sguardo indifferente dei passanti e quello appena più curioso dei turisti. Sembrano due mondi che convivono ignorandosi l’un l’altro. Il terzo “contatto” con la realtà sociale della Romania, il più simbolico forse, lo abbiamo a Pitesti, una cittadina a tre quarti del cammino in cui ci fermiamo per rifocillarci. La nostra guida, Doina, una signora sui 45 anni che sarà il nostro riferimento a Valcea, fa fermare l’autista davanti ad un McDonald's. Noi scendiamo, ma preferiamo comprare qualche dolcetto e qualche bottiglia d’acqua in un piccolo bar romeno che dà sulla strada accanto. Poco lontano un gruppo di ragazzi seduto su un prato pieno di erbacce e detriti ci osserva. Sul momento non ci facciamo caso. Poi però si

avvicinano e ci rendiamo conto che si tratta sì di giovani, ma dall’età indefinibile, coperti di stracci e che tengono in mano sacchetti di plastica. Quella che una volta forse era una ragazza si avvicina più degli altri e ci chiede una sigaretta. Subito interviene un uomo della sorveglianza del McDonald's, che allontana la ragazza con tono minaccioso spingendola e insultandola finché questa non si siede per terra tenendo le mani sulla testa e sghignazzando al suo indirizzo. È con tutta evidenza sotto gli effetti della colla che ogni tanto sniffa da un sacchetto. L’uomo le sorride cattivo e le sussurra qualche minaccia più da vicino. Penso subito che se non ci fossimo noi, gli “stranieri occidentali” che si impressionano di fronte a certe scene, la situazione finirebbe in modo ben diverso. Sono passate circa tre ore di viaggio quando arriviamo alla nostra destinazione, Ramnicu Valcea. Mentre i colori della sera cominciano ad imbrunire in mezzo al verde intenso della campagna e delle foreste, si staglia imponente il tipico grigio squallido dell’architettura che il regime di Ceausescu ha imposto a gran parte delle città della Romania, demolendo interi quartieri storici per far spazio ai casermoni tutti uguali di cemento armato. In pochi giorni capirò che i colori dominanti del paesaggio rumeno sono due, il verde intenso delle foreste e della vegetazione e il grigio delle città “al cemento armato”. Le contraddizioni di un paese sintetizzate in un contrasto cromatico.

Giungiamo in un quartiere popolare all’interno del quale alloggeremo in un istituto che durante l’anno ospita bambini e adolescenti abbandonati. In questo periodo però o sono in vacanza altrove o sono tornati momentaneamente in famiglia, o in quello che ne resta. Scendendo dal pullman carichi di valigie che per la maggior parte contengono giocattoli e materiali da

disegno, che utilizzeremo nei giorni seguenti nelle nostre attività di animazione, veniamo subito attorniati da frotte di bambini che ci guardano e ci seguono curiosi fino all’edificio che ci ospiterà. Dopo la magra cena a base di un unico piatto (cotoletta e purè di patate) veniamo accolti dai responsabili dell’associazione, Don Gino Rigoldi, il fondatore, e Paolo Storini,

responsabile di tutta la parte logistica. Dandoci il benvenuto non ci nascondono le difficoltà che dovremo affrontare e ci raccomandano la massima diplomazia con il personale interno agli orfanotrofi. In pochi giorni ne capiremo il motivo. Distrutti dal viaggio cominciamo a sistemarci nelle camere, ma subito capiamo che dovremo condividere il nostro spazio con altri numerosi, sgradevoli, ospiti, gli scarafaggi. Ce ne sono dappertutto, sui letti, negli armadi, sui muri. Inoltre i bagni cadono letteralmente a pezzi e le loro condizioni igieniche sono, per usare un eufemismo, alquanto approssimative. Capiamo subito con angoscia di dover abbandonare i nostri altissimi standard di benessere e di igiene personale. Quanto agli scarafaggi ne ammazziamo subito a decine. Dopo qualche giorno capiremo che è una battaglia persa. Ce ne sono troppi e non possiamo ammazzarli tutti. Meglio condividere democraticamente lo spazio. A noi lo spazio al centro delle stanze, a loro i muri e la superficie esterna degli armadi. Il giorno dopo inizia subito il nostro lavoro. Nel grigio di una pioggia battente che ci accompagnerà costantemente per i primi tre giorni, il quartiere in cui abitiamo appare ancora più squallido e tetro. In tutto siamo 18 persone, divise in due gruppi di 9, che opereranno rispettivamente in due istituti della città che ospitano bambini e ragazzi in parte effettivamente orfani, in parte, soprattutto, abbandonati dalle famiglie o perché troppo povere o perché

troppo disastrate per poter garantire loro una vita dignitosa. Al mio gruppo è toccato l’istituto n. 2 che accoglie bambini piccoli da uno a tre anni “normali”, e bambini fino a 10 anni disabili. Mentre l’altro gruppo andrà al n. 5, dove invece vivono ragazzi più grandi, dai 13 ai 22-23 anni. Per rendersi conto delle dimensioni del problema bisogna sapere che a Ramnicu Valcea, una cittadina di provincia di circa 110.000 abitanti, ci sono undici istituti di questo tipo che accolgono rispettivamente in media 100-120 fra bambini e adolescenti. Quindi più di un migliaio in totale. Senza contare i bambini di strada, meno visibili rispetto a Bucarest e dal numero incerto. In tutta la Romania i bambini e gli adolescenti che vivono in queste strutture sono quantificabili all’incirca fra 100.000 e 120.000, ma c’è chi dice che la cifra sia più alta, oltre alle migliaia che vivono in strada e pernottano nei cunicoli sotterranei delle città dove passano i tubi del riscaldamento, o in altri rifugi di fortuna. Il mio gruppo è formato prevalentemente da persone di sesso femminile. Daniela, una giovane fisioterapista milanese, cela a stento la sua grande sensibilità sotto una patina di scetticismo meneghino. Claudia, che ha una grande responsabilità perché è la nostra

responsabile, è una persona spiccia e di personalità, è invece una persona di grande intelligenza e disponibile al dialogo e anche al gioco quando è il caso. Ha sette anni di esperienza di volontariato alle spalle (Bosnia e Guatemala oltre alla Romania). La sua migliore amica, Paola, ha movenze eleganti e un’apparenza distaccata e aristocratica anche nelle situazioni peggiori. La gioviale Velia, è anch'essa una persona estremamente competente perché lavora quotidianamente con i disabili psichici. E poi Mariangela, lunatica e divertente cinquantenne milanese, le giovanissime Marina (18 anni), dal sorriso caldo e solare, e Alice (18 anni ancora da compiere ma già alla sua seconda esperienza di volontariato in Romania), buffa e clownesca, praticamente la mascotte del gruppo, e Antonio, l’unico della mia età (42 anni), insegnante di origini lucane, insofferente alle regole e alla disciplina di gruppo, ma simpatico e dalla capacità comunicativa contagiosa. Nella seconda settimana si aggiungeranno a noi la fragile e vulcanica Elena (l’unica che dichiara di votare a destra e per questo oggetto di benevoli sfottò da parte di noi tutti) e Annamaria, di origini venete, ma brianzola di adozione, dallo scetticismo acuminato anche se accompagnato da un’intelligenza viva e da una razionalità lucida e ferma. La nostra giornata tipo si apre tutte le mattine con la colazione (in genere salata e immangiabile, niente caffè, niente cappuccino, quasi niente latte, ma salame e formaggio salato, pane, burro e tè). Partenza alle 8.30 a piedi verso la nostra destinazione, circa 20 minuti. Entrata nell’istituto verso le 9.00 e lavoro con i bambini più piccoli fino verso le 10.30 – 11.00, ora della loro pappa. Poi passiamo in un’altra ala dell’istituto dove lavoriamo con i più grandi, disabili, fino alle 13.00, dopo aver aiutato le inservienti romene a dare da mangiare ai bambini. Ritorno a piedi presso il nostro istituto, pranzo che, come la cena, è spesso a base di ciorba, una zuppa tipica della Romania con le verdure, ma spesso talmente liquida e inconsistente da farci dubitare che sia in realtà acqua calda e quindi un paio d’ore di libertà fino alle 16.00 – 16.30, quando dobbiamo tornare all’istituto e continuare il nostro lavoro con i bambini disabili fino alle 19.00 circa. Ritorno al nostro alloggio, cena, doccia e riunione quotidiana del gruppo per

analizzare il nostro lavoro durante la giornata con i bambini e organizzare le attività del giorno successivo. Quindi il tempo di una passeggiata nei dintorni (ma spesso rinunciamo perché la vita sociale della città, nonché i luoghi di ritrovo si avvicinano pericolosamente allo zero) e di una birra, qualche chiacchiera e poi a letto completamente sfiniti. Questo potrebbe sembrare

anche un impegno accettabile per chi non conosce la realtà degli orfanotrofi romeni; in realtà lo stress nervoso, psicologico, fisico ed emotivo al quale siamo sottoposti quotidianamente è spesso quasi insostenibile.

Il primo giorno di lavoro ho la tentazione di fuggire a gambe levate. Entriamo in questo istituto circondato dal filo spinato (altra frequente caratteristica architettonica di questi luoghi, tragicomico simbolo di un paese prigioniero di sé stesso) e da un giardino spoglio, disadorno e con l’erba alta. Ad accoglierci la direttrice, una donna di mezza età minuta ma dallo sguardo

deciso, e Maria, uno dei nostri due “angeli custodi”. Il compito di Maria (la mattina) e Nadia (al pomeriggio), due signore rotondette gentili e dallo sguardo buono, che parlano un po’ di italiano, è quello di fare da mediatrici e risolvere qualsiasi eventuale problema si presenti con il personale interno. Dopo i saluti di rito veniamo accompagnati presso le stanze dove

alloggiano i bambini. Aperta la porta, lo spettacolo che ci si presenta ci lascia senza fiato. Dieci-dodici bambini dall’età approssimativa di due o tre anni stanno in uno stanzone abbastanza spoglio sdraiati o adagiati alla meglio qua e là, avvolti in tutine logore e sporche. Qualcuno è intento a maneggiare qualche raro giocattolo. Nessuno parla. Quasi nessuno cammina. Al massimo qualcuno gattona un po’. Inoltre l’odore che aleggia nella stanza è di quelli che non si dimenticano, un misto di candeggina di pessima qualità e urina. L’inserviente, oltre ad ignorare i bambini, non pare avvertire la puzza, dato che tiene le finestre chiuse. Dopo qualche minuto mi avvicino alla finestra e furtivamente la apro. Intanto Mariangela dopo cinque minuti si sente male e corre in bagno a vomitare. Non sappiamo letteralmente che fare. I bambini ci osservano timorosi e con curiosità diffidente. Buttiamo nel cesso dell’anima l’angoscia che ci attanaglia, sfoderiamo il nostro migliore sorriso e proviamo a giocare con loro. Non combiniamo molto, ma quando arriva l’ora della pappa l’angoscia ritorna a farsi sentire opprimente. Arriva un vassoio pieno di bicchieri contenenti una sorta di sbobba liquida e giallastra con qualche rarissimo pezzo di biscotto dentro. Non è la cosa peggiore. Il modo in cui viene somministrata questa specie di colazione è allucinante. Dopo aver applicato ai bambini i bavaglini, logori come le tutine, le inservienti somministrano la pappa senza nessun tatto, né gentilezza, un po’ come dare da mangiare ai maiali. Chi mangia mangia (in media il pasto di ogni bambino non dura più di due minuti) e chi tentenna o non ha molto appetito viene ignorato o nutrito a forza. Su questo punto però ci toccherà vedere ben di peggio più tardi, durante il pasto dei bambini disabili che vengono abbuffati come animali, spesso in piedi e alla velocità della luce. In meno di un quarto d’ora il pasto è finito e i bambini vengono messi a letto (“gettati a letto” è un termine più appropriato dato il modo con cui le inservienti eseguono questa operazione). La prima cosa che decidiamo di fare è di rallentare progressivamente i tempi della somministrazione del pasto, cosa che farà infuriare le inservienti. E poi, appunto, i bambini disabili. La scena che ci si presenta è, se possibile, ancora peggiore di quella precedente. Su un totale di 12 bambini nessuno cammina e nessuno sa esprimersi a parole, ma solo con suoni onomatopeici oppure piangendo o urlando. Anche in questo caso sono abbandonati a sé stessi qua e là nello stanzone che puzza ancora più del precedente (e sempre con le finestre chiuse). Tutti sono affetti da gravi patologie psichiche o motorie o entrambe, che siano autistici, down, paraplegici, spastici o altro poco importa. La piccola Helèna, autistica e aggressiva (morde chiunque le si avvicini e nei primi due o tre giorni ci riempie di lividi, poi improvvisamente smette), scheletrica e con un’espressione negli occhi da bambola impazzita,

mi ricorda con forza le immagini dei prigionieri ebrei ad Auschwitz. Poi c'è Daniel, ipovedente, magrissimo anche lui e dalla gestualità a volte elegante, a volte frenetica (per questo motivo lo soprannomineremo “l’acrobata”). Invece Marius, un bimbo di sette anni dalla corporatura massiccia, non cammina (per questo motivo le inservienti lo legano alla sedia quasi tutto il

giorno) e l’unica azione che fa è metterti le mani su tutta la faccia per poi avvicinare la sua bocca al tuo orecchio per fare un grido persistente che mi ricorda quello dei dinosauri cinematografici. Laurenzio, un bimbo paffuto e dall’aria simpatica, gattona per la stanza e si posiziona quasi sempre vicino a noi per osservarci in silenzio ed esprimere con gli occhi quello che non è in grado di fare a parole. Mirèla, una graziosa bambina rom, sorride sempre con lo sguardo perso in un mondo per noi insondabile, Anche Cristina una bambina di circa 10-11 anni non cammina, ti guarda con lo sguardo sorridente e implorante una qualsiasi attenzione.

Ogni sera, facendo il punto della situazione, programmiamo attività ludiche e ricreative con ogni tipo di giocattolo e materiale a nostra disposizione, cambiando o tralasciando tutte quelle cose che non sembrano attrarre l’interesse dei bambini. Soprattutto con quelli disabili è difficile trovare attività stimolanti perché quasi nessuno di loro cammina con le proprie gambe. Ciò che accomuna i due gruppi di bambini, quelli piccoli e quelli disabili, è l’enorme e confuso bisogno di affetto che essi esprimono. In entrambi i casi spesso l’unica cosa che vogliono è saltarti addosso per essere abbracciati e basta. Nelle situazioni collettive, quelle in cui i bambini dei diversi reparti che ci sono affidati si mischiano fra loro in giardino o negli ampi corridoi dell’istituto, ce n’è uno che non finisce mai di stupirmi. Si chiama Florian, ha circa 8-9 anni e si muove nello spazio scoordinato come una buffissima marionetta senza fili. Ogni volta che mi vede mi salta letteralmente al collo e mi stringe talmente forte avvinghiandosi a me che, volendo, potrei tranquillamente camminare con lui addosso, come se fosse un

vestito. Nei pochi momenti liberi, vagabondiamo spesso in un vicino mercato dove ai prodotti ortofrutticoli si mischiano merci di ogni genere, comprando frutta, buonissimi dolci a base di mele e bevendo caffè in un curioso bar con annessa sala internet sempre affollata di giovani. Osserviamo molto anche la vita che si svolge intorno a noi e una cosa che ci incuriosisce è il fatto che la maggior parte della gente che lavora è costituita da donne. Le trovi dappertutto, fanno le bariste, le poliziotte, i medici, le tassiste, le commesse, qualsiasi cosa in numero infinitamente maggiore rispetto agli uomini che invece troviamo spesso per strada e nei bar, in genere male in arnese e con lo sguardo terribile di chi non si aspetta più nulla dalla vita. Osservo spesso anche lo sguardo delle inservienti e delle educatrici dell’istituto cercando di capire che sogni possano avere (immagino pochi, dal momento che il loro stipendio non supera i 60 euro) e perché spesso si comportino in modo stupidamente crudele con quei bambini. Non so rispondere. A volte mi piacerebbe instaurare con loro una qualche forma di

dialogo, ma è difficile e non solo per la lingua. Con alcune di loro abbiamo spesso scontri piuttosto duri perché non vogliono cambiare i bambini quando si bagnano, cosa che invece noi cerchiamo di ottenere sempre con la diplomazia, ma anche con energia quando ci sembra il caso. E’ bene aggiungere che i pannolini non vengono utilizzati, troppo cari (come del resto banane, yogurt e altri alimenti che invece sarebbero utili alla dieta dei bambini); al loro posto vecchie stoffe che arrossano la pelle dei bambini impedendo loro anche di camminare correttamente. Quando è possibile e le condizioni meteorologiche lo consentono cerchiamo di portare i piccoli in giardino. Dalle loro reazioni, prima di paura e terrore, e poi di esaltazione una volta provata l’ebbrezza dello stare all’aria aperta, abbiamo la netta impressione che non siano mai stati portati in un giardino in vita loro. Non dimenticherò mai in particolare l’espressione del volto di Marius, il bambino di sette anni che passa gran parte delle sue giornate legato a una sedia e che io mi ostino a slegare e a portar fuori ogni volta che posso, la prima volta che l’ho condotto in giardino. Marius non può camminare, le sue gambe non lo reggono e io cerco solo di stimolare almeno un po’ la sua mobilità sorreggendolo con fatica perché pesa parecchio. Facciamo qualche passo stentato in giardino per poi passare a qualche gioco con la palla seduti su uno dei luridi materassini adibiti allo scopo. Poi provo a metterlo sull’altalena. E’ evidente che non ci è mai salito in vita sua. Prima un’espressione di stupore si disegna sul suo viso, poi Marius comincia lentamente a dondolarsi con le sue povere gambe e a guardare il cielo e le nuvole sopra di noi con una intensità tale che io penso le voglia succhiare via con gli occhi. Quindi scoppia in una sonora risata che mi sorprende come un tuono a ciel sereno. Marius è uscito per la prima volta dalla catatonia inquietante che lo caratterizza e ha avuto una reazione emotiva. Ovviamente non è quasi nulla, una goccia nel mare, ma sono contento perché sono riuscito a fargli vivere

un’emozione positiva, cosa non facile nel contesto in cui vive. Uno degli ultimi giorni della nostra permanenza a Valcea in una situazione analoga, invece di ridere, come ogni tanto fa nel suo modo sgangherato, Marius scoppia in un pianto disperato. Penso che in qualche modo abbia capito che sto per andarmene e la cosa mi dà l’angoscia. Molti di noi l’ultimo giorno non riescono a trattenere le lacrime. Io non so cosa fare. Vorrei piangere anch’io, ma non ci riesco. Mi tengo il mio magone dentro.

Nel pomeriggio, dopo l’ultimo turno all’istituto, mi allontano dagli altri con la scusa di fare qualche acquisto e vago un po’ da solo per la città che scopro avere anche qualche piccolo quartiere fatto di casette basse, con i tetti a punta e piccoli giardini curati. Osservo i venditori di cocomeri sui marciapiedi, i carretti su cui viaggiano le numerose famiglie rom della zona, i baracchini che vendono cassette musicali (i cd sono poco diffusi a causa del loro costo), gli svogliati pescatori sul greto del fiume inquinato, i ragazzi che giocano a ping pong su tavoli di cemento o a calcetto in campetti anch’essi di cemento, le famiglie e i passanti i cui volti esprimono quasi sempre preoccupazione e tristezza e raramente si aprono in un sorriso, e

una sottile angoscia si fa strada dentro di me. Prima di tornare al nostro alloggio compro una bibita nel piccolo supermercato, situato poco lontano dall'istituto dove pernottiamo, che molte volte ci ha visto clienti e comincio a sorseggiarla distrattamente. Quando sono quasi arrivato a destinazione mi si avvicina uno dei ragazzi del quartiere, uno di quelli che vediamo spesso al ritorno dall’Istituto n.2 perché ci chiedono sistematicamente ‘money’, soldi, ma che, non ottenendoli mai, pur tuttavia ci salutano sempre con calore, e guardando la bibita che tengo in mano con uno sguardo che non dimenticherò facilmente mi chiede se posso dargliene un po’. Io, dopo un attimo di stupore, gli lascio la bottiglia e me ne vado. Il giorno dopo ripartiamo in pullman alla volta di Bucarest. Un sole pallido e malato rischiara il cielo e il verde delle campagne che attraversiamo. Non abbiamo molta voglia di parlare. Restiamo tutti in un silenzio assonnato e amaro. Solo Marina e Guido, uno dei ragazzi dell’altro gruppo, dietro di me parlano sottovoce d’amore, fidanzati e progetti per il loro futuro. Nonostante tutto la vita continua. Da allora ogni tanto mi sorprendo a guardare il cielo e mi chiedo se Marius qualche volta ride ancora alle nuvole.


Marcello Cella

autunno 2002

Nessun commento:

Posta un commento