giovedì 13 giugno 2024

 Il documentario di John Maloof e Charlie Siskel “Alla ricerca di Vivian Maier” racconta la scoperta di una grande fotografa di strada e ricostruisce la sua vita misteriosa.



Vivian Maier, collezionista dell’inutile


“Io, Vivian sono quella che nessuno nota, quella che nessuno vede. Io li vedo invece (…), custodisco le storie che le persone non sanno di vivere” (Francesca Diotallevi, “Dai tuoi occhi solamente”, Neri Pozza, 2018)


Susan Sontag affermava che “collezionare fotografie è collezionare il mondo”. Se così è, nessuna definizione aderisce meglio alla figura umana ed artistica di Vivian Maier, “la tata con la Rolleiflex”, come è stata sbrigativamente definita ricordando la professione con cui si guadagnava da vivere, la bambinaia per famiglie facoltose. Anche se, più di altre figure artistiche, il suo lavoro si intrecciava in modo inestricabile con la sua vocazione più profonda, quella di fotografa. Infatti, proprio la sua professione, a contatto quotidiano con i bambini e con la loro necessità di essere portati a giocare e a passeggiare all’aperto, le consentiva di coltivare la sua passione spasmodica e anche un po’ compulsiva per la fotografia. In effetti uno sguardo bambino, innocente e curioso di tutto, sembra proprio quello di Vivian e delle sue fotografie, così necessarie e casuali al tempo stesso, come se, come i bambini, fosse attratta da tutto senza alcuna necessità di porre il proprio sguardo (lavoro) al servizio di un qualche obiettivo di carattere materiale o all’interno di una qualche gerarchia estetica. Forse si spiega anche così la sua misteriosa assenza dalle scene dell’arte e della cultura ufficiale, i suoi 150.000 scatti e le sue centinaia di filmini in super8, rimasti sconosciuti fino al 2007, quando un giovane agente immobiliare, John Maloof, compra ad un’asta qualche decina di scatoloni pieni di fotografie, ma soprattutto di rullini e super8 mai sviluppati, e scopre di avere a che fare con una delle più importanti street photographer del secolo scorso.




Il documentario realizzato dallo stesso Maloof insieme a Charlie Siskel, già produttore di “Bowling for Columbine” di Michael Moore, ricostruisce tutta la vicenda con un serrato ritmo da documentario investigativo, ma allo stesso tempo, attraverso le testimonianze di chi l’aveva conosciuta grazie al suo lavoro di bambinaia, getta una luce in chiaroscuro anche sulla sua tormentata vicenda umana. Abbandonata da piccola dal padre e vissuta solo con la madre in gravi difficoltà economiche ed un fratello maggiore dedito all’alcool e alla droga, in andirivieni continuo da riformatori prima e carceri dopo la maggiore età e morto prematuro, Vivian conosce ben presto la durezza della vita iniziando a lavorare in una fabbrica di bambole e dedicandosi poi, prima per necessità e forse in seguito per scelta, ad una vita precaria e senza fissa dimora, passando periodicamente da una famiglia all’altra per occuparsi dei loro bambini. Da quando inizia questa professione Vivian inizia a scattare compulsivamente fotografie che nessuno vedrà mai se non dopo la sua morte, avvenuta nel 2009 in assoluta povertà, solitudine e anonimato, grazie a questa capacità di “vedere qualcosa di nuovo ogni giorno”, proprio come fanno i bambini, senza alcuna volontà di mostrare quanto fotografato a qualcuno, ma solo per sé e per il proprio piacere (o per una propria necessità interiore). Sta di fatto che le fotografie di Vivian Maier costituiscono uno straordinario documento sulla vita quotidiana di un’umanità frastagliata e bizzarra, spesso dedita ad attività e occupazioni insensate, dove la razionalità individuale e sociale mostra contraddizioni e crepe sempre più evidenti. Consapevole della propria condizione sociale le sue fotografie hanno un occhio partecipe, una sensibilità particolare per i soggetti più marginali, senza per questo essere dichiaratamente di denuncia, per i bambini, per le persone che animano le città senza avere una funzione sociale precisa (come vagabondi, alcolizzati, malavitosi, ma anche travet addormentati sui sedili delle automobili o sulle panchine dei parchi), per le acconciature e gli atteggiamenti bizzarri delle persone dell’alta società, per le vorticose trasformazioni architettoniche del contesto urbano, per gli oggetti abbandonati, per i dettagli apparentemente più insignificanti. Ma con una caratteristica comune a tutta questa sterminata produzione fotografica, prevalentemente in bianco e nero: ognuna di esse racconta una storia, reale o possibile, ognuna di esse allude ad un fuori campo che solo lo spettatore può immaginare. 




E poi ci sono gli autoritratti, anche questi in numero considerevole, spesso ripresi da superfici riflettenti (specchi e vetrine soprattutto) che rimandano l’immagine di Maier ed il suo sguardo, così severo ed enigmatico, come una sorta di punto di domanda, come una richiesta di compartecipazione e di interpretazione, forse perfino di responsabilità, a chi li guarda. Spesso gli autoritratti sono l’espressione di una forma di narcisismo da parte dell’autore. Nulla di tutto questo traspare dagli autoritratti  di Vivian Maier che, spesso in compagnia dei suoi bambini, sembrano voler chiedere ai suoi spettatori: “E’ questo il mondo che abbiamo costruito? E’ bello questo mondo? E perchè non facciamo nulla per cambiarlo?”. Posti accanto alle fotografie di argomento più sociale questi autoritratti assumono il significato di una politicità implicita che quasi nessuno ha rilevato, ma che traspare una volta che si sia cominciato a “leggere” la sua opera nella sua sterminata interezza. Tenendo presente le vicende tormentose della sua vita solitaria (odiava gli uomini, e forse gli adulti in generale, dal momento che con ogni probabilità era stata abusata in gioventù), l’opera fotografica di Vivian Maier assume il significato di un ritratto impietoso della follia umana, di una denuncia implicita delle disuguaglianze sociali e di una totale immedesimazione nello sguardo innocente, ma duro e spietato dei suoi bambini nei confronti di una società che li trasformerà ben presto in adulti cinici e indifferenti. 








Un altro aspetto che il bel documentario di Maloof e Siskel mette bene in evidenza è la mania, apparentemente insensata, di Vivian Maier di accumulare oggetti insignificanti raccolti nel suo girovagare attraverso la città e pubblicazioni a stampa (giornali, riviste, libri) che spesso ricoprivano le pareti dei suoi alloggi fino al soffitto. Al riguardo si è parlato di un suo disturbo mentale da accumulo, una patologia ampiamente trattata dalle pubblicazioni scientifiche. Probabilmente questo disturbo era reale. Ma mettendo insieme questo aspetto con quello di scattare, spesso senza sviluppare, centinaia di migliaia di fotografie non può che suscitarci qualche interpretazione che vada al di là dell’aspetto medico. Perchè Vivian Maier voleva conservare tutti questi oggetti e questi giornali allo stesso modo in cui accumulava migliaia di rullini fotografici? Sicuramente in Vivian albergava anche una mentalità da archivista e, in quanto tale, la consapevolezza dell’importanza che ha la memoria nell’interpretazione delle varie epoche storiche. Probabilmente la risposta sta anche in una sua riflessione più esistenziale e filosofica sulla concezione che abbiamo oggi del tempo e della sua consistenza effimera. Forse la sua necessità maniacale di conservare oggetti, giornali e fotografie rispondeva all’esigenza di cristallizzare in qualche modo il tempo, il proprio tempo e quello delle persone, dei bambini soprattutto, con cui aveva convissuto, per non consegnarlo all’oblio e quindi per mantenerne vivo il ricordo. In uno dei tanti filmini Super8 girati da lei si sente la sua voce che chiede ad un bambino: “E ora dimmi, come si fa a vivere per sempre?”. Forse tutte queste fotografie, così piene di senso della tragedia e di senso dell’umorismo, tutte queste piccole cose, nascoste, quasi segrete accumulate in solitudine, questa mania di collezionare cose apparentemente inutili rispondevano a questa esigenza. La necessità di mantenere vivo il ricordo di tutte quelle persone che avevano attraversato la sua vita e che col tempo sarebbero state dimenticate nel flusso sempre più vorticoso di immagini, suoni, colori, impegni, relazioni che caratterizza la nostra epoca. Vivian Maier voleva collezionare cose inutili, quelle cose inutili di cui è fatta, inconsapevolmente, tutta la nostra vita.


Marcello Cella





Alla ricerca di Vivian Maier

Regia: John Maloof, Charlie Siskel
Sceneggiatura: John Maloof, Charlie Siskel
Soggetto: John Maloof, Charlie Siskel
Montaggio: Aaron Wickenden
Fotografia: John Maloof
Musiche: J. Ralph

Casa di produzione: Ravine Pictures
Distribuzione (Italia): Giangiacomo Feltrinelli Editore
Origine: USA
Anno di edizione: 2013
Durata: 84 min


Web 

https://www.youtube.com/watch?v=7RR5QVLyR4k

https://www.vivianmaier.com

https://www.facebook.com/photographervivianmaier